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CXLIII. — Ad Isacco Casaubono.1
Con mio gran rammarico, l’esemplare del Polibio che V.S. mi mandava, andò perduto; e ciò non tanto per esser privo de’ frutti delle sue fatiche (poichè un altro ne ho, di cui posso giovarmi), quanto per avere così perduto un ricordo sì caro della sua cortesissima persona. Ma siccome non alla cosa in sè, ma al sentimento dell’animo deve in tai casi badarsi, così mi convien dirmi soddisfatto abbastanza dell’onore impartitomi dalla S.V. col credermi non indegno di un tal favore.
Tutti sentono eguale orrore per la detestabile scelleratezza, tramata quasi d’un colpo e compiuta, contro l’ottimo principe che fu vostro re: tutti, dico, all’infuori di coloro che tra l’arti che professano, pongono ancora la strage dei principi; gente che quanto più odio, tanto più vorrei poter odiare.2
Venendo alle altre parti della sua lettera, vedo bene ch’Ella di me giudica secondo l’amicizia, e non secondo la verità; chè certo non sono io tale da poter essere con fidanza da Lei consultato, e in ispecie dovendo rispondere per lettera ad una questione che non è certamente da lettere. Ma non osando io disdirle in cosa alcuna, mi sforzerò di fare quanto mi ha comandato: bensì prego di riguardare i miei sforzi siccome il meglio che far potessi in tale occasione.
Premesso che Gesù Cristo diede sè stesso per la Chiesa, a fine di renderla immacolata, non in questa vita ma sì nel tempo avvenire; mentr’essa a ciò s’incammina e tende a quel segno che ai mortali non è dato di raggiungere, mi sembra ch’Ella desideri una Chiesa esente da ogni macchia: la quale, se non alzerà gli occhi verso il cielo, io non potrò mai additarle. Perciò ottima sarà da dirsi quella che mostri in sè il minimo della corruzione. Ci ammonì san Paolo, che gittate appena le fondamenta della fede, ne vengon su fabbriche da mettersi alla prova del fuoco, e le più volte da lasciarle da questo consumare. Sarò, se vuole, bugiardo, se delle chiese de’ nostri secoli fu più casta e intemerata quella di Corinto, fondata, educata, chiamata santa dallo stesso Paolo. Dove i mortali dimorano, si troverà più facilmente da riprendere che da lodare: il perfetto è soltanto nelle nostre aspirazioni.
Due cose intanto si praticano, di cui non intendo abbastanza la ragione. L’una è, che si ha sempre ricorso ai Padri da quegli stessi che troppo ben sanno come taluni tra essi, gonfi del vento della rettorica, servirono bene spesso e soverchiamente alle pregiudicate opinioni del loro secolo, e volendo indurre i pagani alla fede, si sforzarono di dare ad intendere mediante gli antichi nomi cose al tutto diverse. Dal che procede che nessuno può facilmente cavare dalle loro parole il senso a quelle da essi attribuito, e invece il tira facilissimamente all’intento suo proprio. Lascio stare che in nessuna controversia scontrerai ben netto il parere di persona che alcunchè ne abbia scritto per occasione o materia che ne abbia avuto tra mano. Costoro i quali reputano che i monti, comecchè altissimi, tocchino il cielo, sono richiamati a far senno dall’italiano proverbio: «Più su sta mona luna.» La seconda cosa è in questo, che, a similitudine di Marta, ci diamo impaccio di troppe cose e delle più lievi, trascurando intanto quell’una ch’ è veramente necessaria. A che gli adornamenti della casa? a che badiamo ai particolari che il fuoco avrà un giorno in sua balía? Il solo fondamento è da porsi alla prova: che se questo si mostri saldo, vada pure il rimanente come si vuole, e il fuoco faccia la sua parte.
Tutto questo Le ho scritto con ingenuità, nè più potrei dirle se avessi il contento di parlarle a viva voce. Ma la S.V. se ne ricorderà forse quando le venga voglia di pesarmi alla bilancia, e mi troverà così scadente del peso che in sè erasi figurata innanzi di leggere queste mie abborracciature.
Intanto prego il Signore di volerla assistere col suo lume nelle risoluzioni che sarà per fare, in guisa che le tornino a gloria; e insieme la colmi d’ogni bene, presente e futuro; e a me dia grazia di riuscirle non inutile servitore.
- Venezia, 22 giugno 1610.
- ↑ Dalle Opere dell’A., tom. VI, dove si legge in latino, a pag. 117.
- ↑ Si noti che il Sarpi confessa di avere scritta questa Lettera con tutta quell’ingenuità che avrebbe potuto usare parlando a viva voce. Ma l’avversione ancora, quando francamente professata, è onorevole; perchè sempre onora l’uomo quel ch’oggi dicesi il coraggio della propria opinione.