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CLVI. — A Giacomo Gillot.1
Niuna maraviglia che la morte di Enrico il Grande abbia immerso nella tristezza e nel lutto la S.V. ed ogni buon francese, stantechè lo stesso caso afflisse grandemente noi pure, a cui non tocca così da presso. Fu, invero, una comune calamità, che troncò le speranze dei buoni e accrebbe l’audacia dei cattivi. Imperciocchè i Gesuiti non solo ne divennero più insolenti presso di voi, ma presero a stringer più forte noi stessi; sempre con quel loro caparbio ed unico proposito d’imporci sul collo il giogo pontificale. Vivente il re, ciò facevano come di soppiatto: lui tolto di mezzo, vi rimessero mano sotto gli occhi di tutti. Perocchè subito il Bellarmino, col pretesto di difendere i suoi scritti dagli attacchi del Barclaio, prese a trattare della potestà del papa nelle cose temporali, dando fuori, in meno di venti giorni, un suo libello; in cui, le cose medesime che già sussurravano alla spartita e timidamente contro la maestà de’ principi, ora strombazzano alla sicura e tutte insieme raccolte.
Abbiamo adesso in quel libercolo la intera tregenda, e classata per nazioni, di tutti coloro che da dieci anni appigionarono al papa le loro lingue ribelli; e cui egli, il Bellarmino, manda a sè innanzi, e quasi veliti, a scaramucciare succinti, e tuttavolta armati di santità e di titoli di dottrina eccellente. A questi egli tien dietro, traendo in trionfo re e principi vinti e malmenati; i quali egli afferma non solo potersi dal papa scomunicare, e dal regno e dall’impero rimuovere, se ciò meritino le loro colpe, ma eziandio per la imperizia del governare, per debolezza o inettitudine, e per qualsivoglia altra cagione che al papa sembri dover tornare di pubblico vantaggio. Oramai l’autore dell’Anti-Cottone2 non si affatichi più nel dimostrare l’equivoco che si racchiude ove dice doversi obbedienza ai principi, senza dichiarare però di quali principi si parlasse. Il Bellarmino c’intuona adesso senza ambagi, aver Cristo comandato che si renda a Cesare ciò che è di Cesare, finch’egli sarà Cesare; avere gli Apostoli ingiunta l’obbedienza ai re, sintanto che re sono; ma che non appena essi vengono dal papa privati del dominio, cessano ancora di essere e Cesari e re. E tutto ciò stimerei anche di leggier peso, se il gesuita nostro non chiamasse quelli che da lui dissentono, temerari, scandalosi, eretici; se non venisse sclamando, codeste sue massime esser fede di tutta quanta la Chiesa; se gli altri tutti non predicasse parassiti dei principi, e uguali agli etnici ed ai pubblicani.
Credè il Barclaio di poter convincerne questi papisti coll’opporre ad essi il costume dell’antica Chiesa, la quale fa obbediente ai principi, ancorchè cattivi ed eretici ed anche apostati. Ma ciò nemmeno gli valse. Confessa il Bellarmino, che quella obbedì e predicò obbedienza, perchè mancante di forze e di occasione; e aggiunge che nè fatto nè parlato avrebbe in tal guisa, se dai loro troni potuto avesse cacciarli. Il buon Barklay fece ancora un mal ufficio verso i privati, quando volle opporre al Bellarmino, che così i principi sarebbero in peggior condizione dei privati; perchè mentre questi non possono dei lor beni essere spogliati, possono invece quelli esser cacciati dai loro regni ed imperi. Ed ecco che questa obiezione diè luogo ad una nuova e finora inaudita sentenza: potere il papa disporre delle sostanze tutte di ciascun privato, secondochè gli sembri che la utilità della Chiesa addimandi. Che dirò davvantaggio? Una tale potestà di costringere i fedeli, il nostro gesuita la estende finanche ai confessori.
La serenissima Repubblica vietò incontanente che si venda, ritenga o introduca un tal libello ne’ suoi domimi, acciocchè il popolo di tal veleno non venga infettato. Ma che? Una peste siffatta verrà inoculata in segreto nelle confessioni, e verrà pure spacciata come credenza cattolica. Laonde è da vigilare con maggior cura, che non sia lor data facoltà di ammaestrare la vostra gioventù, e non fidare nelle loro promesse, o nei giuramenti che pur prestassero di osservare le leggi della Università. Costoro posseggono due arti: l’una, colla quale scapolano dai lacci e dai legami di qualsivoglia promessa e giuramento, coll’equivoco, colla tacita riserva e colla restrizione mentale; l’altra, e più occulta, con cui, come il riccio, sanno penetrare negli altrui più angusti recessi, sapendo bene che col dispiegare le pungenti loro spine, ne otterranno per sè stessi il pieno possedimento, esclusone il padrone. Così entrati in Francia a qualunque patto, aspettarono o prepararono le occasioni nelle quali oggi possono più liberamente adoperarsi. Mi duole altresì che, non solo per vostra colpa, ma per nostra egualmente, moltissimi tra i Francesi abbiano degenerato e si lasciassero dalle straniere dottrine corrompere. Temo ancora che il male non si dilati vie più; mentre vedo che nessuno fra gli avvocati volle assumere la causa della Università, se non per comando lor fattone dal Senato.3 E siccome fu, contro gli usi, proibito l’Anti-Cottone, temo altresì che non vi gettino in una guerra civile: il che Dio tenga lontano, come ne lo supplico con tutto l’affetto dell’animo. Nè ignoro tuttavia che molti e buoni e forti Francesi rimangono tuttavia, tra i quali non è dei secondi la S.V., che non abbandoneranno, io spero, la causa pubblica; come di cuore desidero, ben comprendendo che le vostre feste, secondo il proverbio, saranno ferie ancora per noi.
Sto aspettando a braccia aperte il nipote della S.V.,4 per imparare a conoscerlo ed accoglierlo come signore e come fratello. Voglia Dio concedermi la grazia di rendergli quegli omaggi di cui sono debitore! Certo porrò ogni sforzo per fare ch’Ella possa conoscere quant’è la stima e la gratitudine ch’io so e professo di averle.
Del rimanente, se non temessi di riuscirle molesto, mi condurrei a scriverle più spesso; ma questo timore fa sì che mi contenti d’essere dagli amici assicurato della sua buona sanità, e d’inviarle per tal mezzo i miei saluti. Ma nulla mi sarebbe più caro che il ricevere spesso sue lettere, nè di più conforto che il rispondere. Un non so che d’arcano mi porta a volerle bene; talchè, se potessi parlarle una sol volta, l’avrei per vera beatitudine. Dio faccia goderle a lungo tutta quella prosperità, per la quale io non manco di far voti alla Maestà sua Divina. E conservi la usata sua benevolenza a chi la onora singolarmente.
- Venezia, 22 ottobre 1610.
P.S. Veda se le scrivo alla sbadata e con familiarità certo soverchia, avendo dimenticato cosa che non era da dirsi tra le ultime: cioè che aspetto con impazienza gli Atti del Senato dopo il regicidio, da Lei raccolti; e la cui notizia mi accompagna con promesse e riserve sante egualmente, e di cui non cerco mallevadore diverso o migliore della stessa S.V. — Opportunamente mi giunsero le Questioni del Cotton; essendo pur vero ch’io ne aveva da Lei ricevuto, tempo fa, un altro esemplare: ma l’imprestito che ne feci ad un amico, fu causa che mai non potessi recuperarle. Or Ella ha soddisfatto a un desiderio che in me restava vivissimo. Novamente, le fo molta riverenza.
- ↑ Impressa, in latino, tra le Opere dell’Autore ec., pag. 13; e trovasi ancora nella Raccolta di Ginevra, a pag. 598.
- ↑ Vedi la nota 2 a pag. 134.
- ↑ Si sa come i Gesuiti fossero generalmente temuti non solo pei loro intrighi, ma ancora per le private vendette.
- ↑ Del quale sarà parlato nella Lettera dei 7 dicembre.