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CLXXIX. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Per questo corriere ricevo quella di V.S. delli 28 giugno, la quale mi rende dispiacere per l’avviso della sua podagra. Mi pare che sia troppo frequente; e se bene è purgazione de’ mali umori, e per consequente lascia più sane le altre parti, con tutto ciò io esorto V.S. a darle manco occasione che può di ritornare. Io non credo ch’Ella commetta altra sorte di disordini, salvo che eccesso di occupazioni di mente: da che io desidererei che procurasse d’astenersi.

Ho inteso il fine dell’assemblea, così per le lettere di V.S., come per altre di Parigi; e il rimettere della regina al Consiglio parmi cosa molto pericolosa. Dio faccia che quel che seguirà, succeda a sua gloria. Ma io temo assai; nondimeno mi ricordo di quello che disse il savio: In melius adversa, in deterius optata feruntur.

Li pensieri de’ Spagnuoli si scuoprono alla giornata tutt’altri di quelli che avevano vivente il re Filippo II. Ho veduto una esposizione fatta al re dal regno d’Aragona sopra l’interdetto di Saragozza, e mi pare molto libera, e mostra ch’essi anco vadino a via di aver libertà ispaniche, come in Francia sono le gallicane. Ma importa più che il re ha fatto il suo terzogenito abbate, e già li ha dato una abbazia in Portogallo che importa più di 100 mila ducati. Questo assorbirà col tempo non solo una gran parte delle entrate ecclesiastiche, ma ancora l’autorità; e come sarà nella casa regia, poco dipenderà da Roma; e stimo questa mutazione per una cosa di gran conseguenza.

Credo che V.S. averà intesa l’espulsione delli Gesuiti dalla città d’Aquisgrana, che potrà esser esempio ad altre città imperiali; ma sopra tutto io stimo il modo.

Qui si tiene per certo che l’imperatore e il fratello s’accorderanno; ma tutto sarà con diminuzione. Qui in Italia il duca di Parma ha messo prigione molti de’ principali sudditi suoi, senza dubbio per qualche tradimento:2 sono alcuni, che dicono per intelligenza con Spagna contro Torino. Mantova e Modena faranno assemblea, e esso Torino propone di andar a Venezia; ma è uomo tanto chimerico, che non è buono per far niente, massime qui.

Io sto con molto desiderio della venuta del corriere frequente, per intendere che V.S. sia risanata: il che io spero, e vorrei che fosse per lungo tempo, non piacendomi cotesto frequenti recidive.

Del negozio intorno Ceneda vanno le cose ben quiete con il papa, ma però ben tarde; e, come credo, innanzi sarà necessario che si riscaldino e forse che si affoghino. Ma se Dio non dà buon progresso alle cose, non si bisogna sperar che le opere umane possino capitare a nissun buon fine, e massime essendo dagli uomini intraprese per ogn’altro che per la gloria di Dio. Non si può se non gettar il seme in terra, e aspettar da Dio che pulluli e cresca. Prego la Maestà sua divina, che doni a V.S. la intiera sanità, la tenga sotto la sua guardia, e le doni ogni prosperità presente e futura. Alla quale, per fine di questa, bacio la mano.

Di Venezia, li 2 agosto 1611.



  1. Stampata come sopra, pag. 383.
  2. Questo imprigionamento segna la scoperta e insieme il principio della sanguinosa vendetta che Ranuccio Farnese, un anno dopo, ebbe presa sopra i nobili parmensi, e dell’un sesso e dell’altro, che contro a lui avevano congiurato. Chi voglia leggerne una succinta ma efficace narrazione, la cerchi nella Continuazione del Guicciardini dettata da C. Botta (lib. XVI); chi bramasse conoscerne i più minuti particolari, interroghi i documenti, e il racconto che li precede, messi di recente in pubblico (Parma, 1862) da Federico Odorici.


Note

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