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CXCIII. — Al medesimo
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CXCIII. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Ho appunto giudicato, sì come V.S., mi scrive per la sua delli 7 del passato, ch’Ella nel tempo del dispaccio precedente si trovasse assente: allora non restai di scriverle, e credo che avrà ricevuto la mia. Al presente non avendo cosa nuova, questa mia seguirà solo di passo in passo quella di V.S.; la quale m’ha apportato sollevamento grande col narrarmi la unione delle Chiese, e maggiormente quando mi dice che non potrà seguire il matrimonio di Spagna senza rompere con Reformati. Resto ben io ancora alquanto turbato per l’ambasciatore che va in Olanda; ma Dio condurrà ogni cosa a sua gloria, e a quello ch’è meglio per noi, quantunque per incapacità nostra ci paresse altrimenti.

La morte del duca d’Orléans sarà, senza dubbio, fomento alla speranza di qualche inquieto; ma finalmente, purchè piaccia a Dio condur il re nella maggiorità ogni altro male sarà rimediabile. È necessario che il principe di Condé riceva delle repulse, non comportando lo stato suo che vi sia fine de’ suoi disegni; e se fosse compiaciuto in quello che dimanda, dimanderebbe altro ancora. È prudenza, poichè non si può contentarlo affatto, di porsi più tosto al primo che al secondo.

Avrà tra quattro giorni li sermoni della beatificazione del padre Ignazio,2 li quali il Signor Barbarigo ha ritenuto per leggerli. Mi son ricordato di aver una istoria di quanto passò in simil proposito in Siviglia: ne ho un esemplare stampato in quella città: io l’ho fatto copiare, credendo che dovrà esser di gusto a V.S. ed a qualche altro amico costì. Io veramente tengo la stampa per cosa carissima, imperocchè, se mi fosse narrata una tale azione, non la crederei.

Ma in proposito de’ Santi, al presente abbiamo novamente Carlo Borromeo,3 del quale si parla, e egli adesso fa, tutti i miracoli, sì che i vecchi hanno perso la piazza. Quanto a quello lucchese, io ho avuto dubbio che costà la fama passasse tale a punto, come V.S. mi scrive. Ma non è fatto per far piacere al papa; e di quella morte ne sono stati autori i politici. Il poveretto è capitato là per imprudenza, non per l’Evangelio. Ma sarebbe cosa lunga il narrarglielo.

Quanto alle cose di qui, il papa non vuole in modo alcuno controversia, e senza dubbio la Repubblica potrebbe fargliene quanto volesse: ma essi, come le cose passano, quanto più è veduto atto a sopportare, tanto più dicono che bisogna astenersi, di modo che e il bene e il male si conviene tornar in male.

Il Padre è molto insospettito per la venuta di Badoero, e ci anderà cauto; ma la giornata scoprirà. Gli Spagnuoli faranno senza dubbio tutto quello che vorranno in Italia, camminando con passi così tardi e così corti; che se volessero affrettarsi o allungarsi, sarebbe il nostro bene. Delle cose di Savoia non occorre pensarci niente, perchè sono tutte chimere; e se ben di Spagna hanno licenziato i suoi ambasciatori, per l’affronto fatto in Torino dal luogotenente di Nemours al segretario spagnuolo, nondimeno da questo non ne seguirà niente. E chi sa che tutte queste cose non siano fatte di comun concerto?

Ho veduto la scrittura di monsignor Casaubono, molto ben ornata; ma ci desidererei maggior abbondanza di soggetto. Non mi resta altra cosa con che attediare V.S. più lungamente, e dubiterei, quando altro ci fosse, di mancar della debita discrezione. In por fine alla presente, le bacio la mano, con il signor Molino e padre Fulgenzio.

Di Venezia, li 3 gennaio 1612.



  1. Edita come sopra, pag. 431.
  2. La beatificazione avea avuto luogo sino dal 1609, ma la santificazione non avvenne (come si disse altrove) se non tredici anni dopo. Sembra che la difficoltà nascesse dal non potersi provare che il Loyola (di cui non voglionsi perciò impugnare l’eroiche gesta) avesse mai fatto miracoli.
  3. La canonizzazione di S. Carlo Borromeo fu come resa necessaria dal voto popolare, perocchè il popolo aveva cominciato a rendergli una specie di culto insino dal giorno della sua morte: onde Paolo V, nel 1610, videsi in certa guisa costretto a confermarlo. Sono a tutti notissime le prove di accesa carità date da quel prelato nel tempo che Milano fu desolata dalla pestilenza; ma i cherici e i clericali non furono nè forse sarebbero i più solleciti ad informarci, com’egli, già vestito di porpora e venuto al possesso della mensa arcivescovile della sua patria, ne divise in tre parti le rendite, una delle quali destinò ad essere distribuita tra i poveri, un’altra ai bisogni della sua chiesa, e la terza al suo proprio mantenimento; e che dell’uso che di questa avea tatto, soleva poi rendere minuto conto nei sinodi provinciali.


Note

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