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CXCVI. — A Giacomo Leschassier.1
Mi fu recapitata la sua lettera delli 10 gennaio, della quale nulla potea riuscirmi più caro. Io desiderava ardentemente di sapere quale si fosse il decreto nella causa de’ Gesuiti; però che vennero qua portati moltissimi esemplari dell’arresto e tutti assai diversi; in questo tuttavia consenzienti, che il decreto pareva piuttosto interlocutorio, che definitivo. Nè l’esemplare da Lei mandatoci ha tolta sul proposito ogni ambiguità, giacche sembra che fino ad ora rimanga ai Gesuiti il poter chiedere che la cosa sia rimessa nel primitivo stato. Intorno a che mi farebbe cosa gratissima col toglier di mezzo tutti i miei scrupoli. Frattanto, io stimo assai che da rinomatissimi avvocati siasi trattata la causa del re e della Università con libertà sì grande e con egual prudenza; e soprattutto approvo che si accusino le dottrine, e non già le persone. La dottrina è comune a tutti; le virtù e i vizii distinguono le seconde.
Rispetto a ciò ch’Ella mi dice, essersi costoro valsi di quel capitolo del Direttorio degl’Inquisitori,2 ove si domanda di far processi secreti senza farli precedere da alcuna citazione, e che a questi pur segue la condanna, e l’esecuzione ne viene occultamente commessa ai crocesegnati; io non vedo che ciò possa imputarsi ai Gesuiti, stantechè questi, nè in Ispagna nè in Italia, non s’impacciano della Inquisizione; e quindi prego la S.V. di volermi scrivere in qual modo siasi, tra le altre, potuto attaccar loro anche questa. Che poi processi di tal sorta si fossero fabbricati anche contro di me, ben io mel sapeva; e più d’uno n’esiste; e per siffatto titolo sostenevasi che i sicarii che mi aggredirono, lo avevano fatto con ragione. La Inquisizione ha tuttavia per l’Italia non molti crocesegnati; mentre nel regno di Napoli non esiste Inquisizione e nelle città soggette alla Repubblica non può essa Commettere cosa alcuna fuori dell’ordine, stante l’intervento del magistrato secolare; attalchè non le si permette nè di tener famigli armati, nè di fare alcuna cattura, se non per decreto di quello. Non ricordo di aver mai letto la formula del giuramento che prestano i crocesegnati, nè le preci che si spargerebbero da essi fra il popolo nel recarsi alla guerra; nè mai m’era caduto in mente che costoro potessero oggi far uso di cotali preghiere e giuramenti. Ma la S.V. non ha parlato a sordo: or io mi darò tutto a questo, e m’ingegnerò di scoprirne l’arcano.
Lessi con attenzione l’opuscolo che le fu mandato intorno alla potestà ecclesiastica e politica, insieme col decreto della Sorbona; e non so del tutto approvare quella dottrina, la qual mi sembra di poca consistenza e, per dir tutto in una parola, troppo fredda. Ma perchè racchiude più cose vere ed utili, io l’accetto come principio di una trattazione migliore, e spero sarà per accadere che alla fine la Sorbona metterà capo alla verità schietta ed intera, che tanto risplende nei codici Teodosiano e Giustinianeo, e nelle istorie dell’antica Chiesa, che i ciechi ancora possono vederla. Quando l’opuscolo sia stato spedito a Roma, non v’ha dubito che non sia per essere condannato; e ciò pure sarà giovevole, giacchè la Sorbona si troverà costretta a difendere l’opera sua, e a progredire più innanzi. In nessun altro modo i romaneschi scuotono il mondo dal suo letargo, se non quando vogliono che in ogni cosa e si pensi e si parli a seconda del loro arbitrio.
In quanto a me, io vengo chiamato secondo il costume nel Collegio, ed anche più frequentemente, abbondando gli affari. Nulla si è fatto e nè anche pensato intorno a tal cosa, ma soltanto fu nel Senato discusso il dubbio se il Collegio possa produrre le secrete cose nel consiglio di quelli che si chiamano consultori, prima che le si portino al Senato; ovvero se ciò fosse loro da proibirsi senza un precedente decreto del Senato: e infine fu deciso che gli affari secreti vengano da prima riferiti al Senato, e che per suo decreto solamente, e non per altro modo, sia lecito portarli al consiglio. Di qui forse quella voce, di cui mi accenna nella sua lettera, circa all’abbate du Bois: intorno al quale le dirò ingenuamente quant’io ne so. Egli fu imprigionato per conto della Inquisizione, ai dieci di novembre, mentre usciva dal palazzo dell’ambasciatore fiorentino; ed essendogli state tolte le regie lettere e il salvacondotto pontificio, come noi diciamo, senza del quale non volle partirsi da Siena, a dì 24 di detto mese, sul levar del sole, venne appiccato in Campo di Fiore, e subito dalla forca deposto e portato al sepolcro. Così mi fu scritto allora da Roma; se non che, nella settimana seguente, uscì voce dal palazzo dell’ambasciatore di Francia, non essere stato l’abbate che fu impiccato, ma un altro:3 di che tutta Roma ne rise, e così mi fu ridendo raccontato per lettera, aggiugnendosi che l’appeso alle forche era di statura e di sembianza simile all’abbate. Da tale ambiguità incuriosito, riscrissi, pregando per saperne la verità; e l’amico mi rispose: questo esser certo, che l’impiccato somigliava all’abbate, e che da tutti era stato creduto lui; che ciò credevasi ancora, ed anche dai Gesuiti: che tuttavolta, esitando pur taluno nel ripetere alle orecchie altrui, e in ispecie di Francesi, la verità del fatto, per le parole che ne corsero in contrario, esso amico rimetteva nel mio giudizio se possa mai ritenersi che in sì famoso luogo sia stato pubblicamente ucciso da pubblici ministri un uomo che nessuno avesse potuto conoscere. Ed io imitando la moderazione di lui nel darne sentenza, ne lascio a mia volta la decisione al senno della S.V. eccellentissima.
La prego, intanto, ad avermi sempre nella sua memoria, e a continuare la sua consueta benevolenza verso un sincero ammiratore delle sue virtù.
- Di Venezia, il 14 febbraio 1612.
- ↑ Dalle Opere di F. Paolo ec., tom. VI, pag. 98.
- ↑ Il breve cenno qui datoci dal Sarpi non è sufficiente a conoscere con sicurezza se voglia parlarsi del notissimo Directorium Inquisitorum, compilato dal domenicano inquisitore nell’Aragona Niccola Eymeric; che, con larghissimi Commentari d’un Francesco Pegna, fa sontuosamente stampato in Roma, in ædibus populi romani, nel 1585. Di cotali brutture dell’umanità noi non siamo gran fatto curiosi. Chi tale si fosse, potrà cercarne e a sazietà trastullarsi con gli scritti di un Anonimo (Repertorio degli Inquisitori), di un Roias (Singolarità circa la fede), di un Sousa (Aforismi degli Inquisitori), di un Masini (Sacro Arsenale del S. Officio), di un Spina (Baloardo della fede), di un Calderini (Rubriche dell’Inqudsizione), di un Bernardo da Como (Lanterna degli Inquisitori), e di tanti e tant’altri che non rifuggirono dal tramandare alla posterità così splendidi monumenti della feroce loro superstizione.
- ↑ Di questo abbate, che più volte avea preso e deposto gli abiti di monaco Celestino, ecco in compendio quanto può dai biografi raccogliersi. Uomo d’inquieta e violenta natura, ma di potente facondia nella predicazione; sì poco filosofo, che erasi ridotto alla indigenza per la sua caparbietà nel cercare la pietà filosofale; aveva nell’orazione funebre di Enrico IV, recitata a Sant’Eustachio, fieramente inveito contro i Gesuiti, imputando ad essi il seguíto assassinio. Dopo i reclami che perciò si fecero, egli diè in pubblico una difesa, che fu stimata peggiore della prima offesa. Dicesi che la regina, per metterlo in salvo dall’odio che in Parigi erasi procacciato, immaginasse di mandarlo a Roma; e la scelta del luogo parrà a tutti ben singolare, anche per chi voglia credere la Medici aliena da ogni nefanda macchinazione. Il Dubois si lasciò trarre nella rete; e giunto appena in Roma, vi fu catturato, e chiuso nel Castello di Sant’Angelo; d’onde, a malgrado delle premure fattene da tutti quelli che gli erano amici, non fu mai potuto liberare, finchè la morte non pose fine ai suoi giorni nel 1628. Il che farebbe credere, secondo noi, ad una certa connivenza tra le corti di Parigi e di Roma; perchè, senza di ciò, non parrebbe possibile che a quella non riuscisse in quindici anni, volendolo, di salvare un francese dagli artigli dell’Inquisizione.