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CCXII. — Ad Isacco Casaubono
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CCXII. — Ad Isacco Casaubono.1


Ho provato veramente una grande allegrezza nel sentire che V.S. ha stabilita da un anno la sua dimora in Inghilterra.2 Io temeva per Lei quando si fosse trattenuta a respirare l’aere italico, come aveva deliberato. Ho pensato spesso che avrei disturbato i suoi studi scrivendole; e però mi sono sempre astenuto, aspettando più opportuna occasione; ma ora sono costretto a farlo, per ringraziarla delle sue lettere del 30 d’aprile. E perch’Ella non pensi che noi siamo incuranti di quello che si scrive costà, sappia la S.V. che lessi le sue Epistole a Frontone e Perrone, e le serbo presso di me.3 Se m’invia un esemplare di quest’ultima, l’avrò più caro e perchè mi vien da Lei e perchè ha la sua soscrizione. Quel libretto farà molto bene a tanti dabben uomini che sbagliano senza avvertirlo; ma il personaggio a cui lo intitola, sebbene per più titoli rinomato, non ne caverà alcun giovamento, non potendosi a forza rimutare una persuasione.

Ho piacere che la S.V. s’apparecchi a scrivere contro il Baronio, e la esorto ad andare innanzi, quantunque non tenga esso per antagonista degno di Lei. Ho ruminato più volte in me stesso sul perchè sia salito in tanta stima presso molti, e senza alcun merito suo, per non dir colpa; non sapendo io scorgere in quella sì magnificata opera alcuna cagione di lode. Non c’è parte che non possa ribattersi, e con le armi stesse che quella ci somministra. Non c’è storico di grande o piccola levatura, cui egli non lodi spesso, e più spesso ancora non confuti. Mi passo delle citazioni false e tirate con gli argani, delle fastidiosissime lungaggini, de’ torti e insulsi giudizi, che niuno sa tollerar nella storia. Fa mostra di un’autorità sfacciata sui lettori, comandando loro di fermarsi a ogni passo e fuor di tempo. Spiega i consigli della divina Provvidenza nella distribuzione dei beni e dispensazione de’ mali, a solo comodo del papato. Del rimanente, vedo che la sorte lo favorisce e dura ancora a proteggerlo, pigliando V.S. a ribatterne le scritture; poichè sarà tagliata la destra al grand’Enea. Nondimeno, il suo lavoro sarà senza dubbio utile all’universale; ma essendo Ella disposta a convincerlo di frode e brutto inganno, temo che non le crederanno i nuovi alla scienza degli uomini. A me garberebbe piuttosto che lo accusasse di leggerezza e temerità. Io lo conobbi a, Roma, prima ch’egli pensasse a onori e fosse preso da prurito di diventare autore, e quando attendeva solo alla tranquillità dell’animo e alla purezza della coscienza. Non aveva opinioni di sorta in proprio, ma le pigliava a casaccio dai favellanti, come sue lucidamente difendendole, fino a che altre non gliene fossero imposte. Se molti savi e dabbene, sorbita la fatal bevanda, sono presi da un capogiro intellettuale, non fa caso se un disgraziato, colto a’ purpurei lacci, soggiace al comune malanno. Per me, di malafede lo terrei puro,4 ma non di spensieratezza e dabbenaggine. E tanto dico all’amichevole e oltre i termini di una breve lettera; Ella vorrà perdonarmi.5

Di cuore mi congratulo con la S.V. che gode la benevolenza di re savissimo. In lui stanno riunite (caso raro) le virtù del principe e del privato. Questo è l’ideale d’un principe, a cui forse niuno si conformò nei secoli trascorsi. Se io potessi meritare la sua protezione, nulla parrebbemi dover desiderare di ciò che forma la felicità di un mortale. La pregiatissima S.V. non può far cosa più dicevole che raccomandare i miei studi a tanto sovrano.6 Prego Dio che conceda a lui e sua figliuolanza lunga e serena la vita, e a V.S. l’accrescimento de’ suoi favori. E pregandola a riamarmi dello stesso affetto ch’io sento per Lei, le bacio le mani.

Venezia, 8 giugno 1612.



  1. Dalle Opere come sopra, pag. 118.
  2. Vedi la nota 1 a pag. 128.
  3. Vedasi la nostra nota a pag. 256. Oltre alle sopraddette opere, la sacra Congregazione dell’Indice proibì, di questo autore, epistolas quotquot reperiri potuerunt; dal che si vede che il Casaubuono era eretico persino negli atti più ovvii e più naturali della vita; e che scrivendo, per esempio, alla sua serva, avrà sputato eresie!
  4. E questo è già, per sè stesso, un grande elogio. Ma quanto ancora alla parte di letterato, non può al Baronio negarsene nè la vocazione, nè l’averla adempita con abilità e costanza grandissima. Basti il dire che Scaligero ed il Fleury non omettono occasione, anche dopo aver confutato gli errori del libro, di render omaggio ai meriti dell’autore. Forsechè la modestia stessa del filippino da Cora potè farne parer minore al Servita veneto la intellettuale capacità. Ed anche a Fra Paolo, che navigava, con animo da scopritore di nuovi mondi, in un mare pieno di scogli, non dovea sembrar degno di troppa maraviglia, chi, sempre co’ venti in poppa, aveva condotta a porto la navicella non di San Pietro, nè quella di Cristoforo Colombo, ma degli Annali Ecclesiastici.
  5. Il Casaubono compose e pubblicò poi realmente quest’opera, fin d’allora preconizzata, col titolo di Exercitationes in Baronium; ma, per non aver egli nè la scienza nè l’erudizione chiesastica necessarie a tal’impresa, non ebbe il suo libro accoglienza se non mediocre, anche fra gli stessi protestanti.
  6. Dopo i pungenti motti lanciati qua e là in queste Lettere contro il re d’Inghilterra, i detrattori della memoria del Sarpi troveranno, pur troppo, onde sfogare la loro animosità facendo commenti a questo paragrafo. Non sarebbe, per verità, difficile il tesserne in qualche modo ancora l’apologia, mostrando come il Servita accarezzasse in tal modo quel monarca, sì per sentimento di naturale e necessaria cortesia, come per più disporlo ad aiutare la causa della libertà, che il coraggioso frate aveva presa a difendere. Contuttociò, conveniamo noi stessi che quel far qui di re Giacomo l’ideale d’un principe, troppo è contrario alle cose altrove dette, e troppo sente l’adulazione. Pure, in fondo dell’animo nostro, quanto più ripensiamo intorno a questo alunno del chiostro e figlio di un merciajuolo da San Vito, non possiamo por limite alla maraviglia ch’egli cotanto ardisse di pensare e scrivere ed operare, quanto osò pure sino all’ultimo de’ suoi giorni, in quei malaugurati primi decenni del secolo 17°, e sotto la sospettosa e inesorabile dominazione di Venezia, laddove non era possibile (si ricordino quelle tanto esplicite parole della Lettera CXCIX) il “perder la grazia di chi governa, senza perdere ancora la vita.„


Note

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