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CCXVII. — A Giacomo Leschassier
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CCXVII. — A Giacomo Leschassier.1


Fui confortato da grandissimo diletto leggendo le lettere della S.V. in data del 12 luglio, per le quali m’informa che indarno si cercò di dare un successore a Richer nell’officio del sindacato. Io penso che qui non si tratti soltanto dell’onore di quel personaggio, che pur reputo degno di somma venerazione, ma altresì d’un interesse comune; poichè, se gli è stata mantenuta la carica, sarà manifesto a tutti che i buoni approvano la sua dottrina. Io ho sempre ammirato e avuto in grandissimo onore la fermezza francese nel difendere la libertà della Chiesa, ma oggi più che mai, vedendovi incrollabili di fronte alle contrarietà del cielo e della terra. Prego Dio che aiuti e coroni di buon successo la vostra costanza e i vostri sforzi.

Unitamente alle sue lettere ricevei metà della difesa del Montolon, composta da’ Gesuiti, che ho letto spesso con nausea e talvolta anche con riso. Se vi aggiungeranno la quarta parte, che contiene ingiurie verso gli avversari, faranno il loro mestiere. Ma mi fa caso come quel modo di scrivere sempre dannoso, praticato da essi non noccia presso al volgo; e debbon essere ben fortunati, se tutto facendo per finire di screditarsi, pur restano a galla. Questo di bene avrà portato l’arringa di Montolon o Cotton, che nel sermone del signor Servin si trova la soscrizione di quelli che dichiarano professare la dottrina della Sorbona. Ma qui si pare l’equivoco; intendendo essi per dottori sorbonici quelli che tengono le massime dei romanisti, e gli altri avendo in conto di dannati e tolti di carica. Veggo bene la difficoltà dello scrivere contro i loro insegnamenti; poichè confondono la propria causa con quella del papa, e non nel solo articolo della pontificia autorità, ma pressochè in tutti. Soltanto nel punto degli equivoci pare che facciano finora parte da sè stessi: ma creda a me, si accorderanno anche in questo, e presto; stantechè sieno onnipotenti nella curia di Roma, e l’istesso papa gli tema.

Ho scritto in Sicilia per aver tutta e per disteso la sentenza del vicerè contro i Gesuiti. Appena ricevuta, la spedirò a V.S. Credo che già le sarà pervenuta nuova della morte del capo di questa Repubblica,2 persona d’eroiche virtù. Era già da sei mesi caduto in una malattia, di cui non mai si riebbe appieno, e ogni giorno diceva ne sarebbe morto presto; ma sì fresca serbava la mente e vigorosi i sensi, che del continuo attendeva a’ pubblici affari, da parer che godesse sanità perfetta. Essendo pervenuto, a’ 16 di luglio, secondo l’usato, al Consiglio del collegio, dopo aver trattato alla maniera ordinaria le cose comuni, tornossene alle proprie stanze e in poche ore passò. I Gesuiti, in ogni luogo d’Italia, e qui ancora, per mezzo de’ loro corifei, detraggono alla sua memoria, e mettono in vista tra le altre cose la sua repentina fine, quasi fosse un gastigo di Dio; non sapendo che sciagurata è la morte subitanea quando è improvvisa all’apparecchio, non all’aspettazione; e che nulla è più desiderabile a un onesto uomo, che dire addio alla terra dopo un apparecchio di tutta la vita nella interezza dei sentimenti e nell’adempimento stesso dei propri offici. A Roma fecero festa pel decesso di lui, ma sarà stata invano; poichè, con loro cocentissima amarezza, s’accorgeranno che non egli solo era istrutto delle arti gesuitiche, ma che tutta la più specchiata nobiltà le conosce. Fin qui hanno guadagnato un bel niente, e così spero sarà in avvenire.

Mi dicono che i Gesuiti stampino gli statuti e i privilegi della Compagnia soltanto al Collegio romano, e che non ne rilascino gli esemplari che a più fidati loro consoci. Non mi è riuscito mai di vedere la edizione del 1606, per quanto usassi ogni industria a procacciarmene una copia. Nè mai m’è accaduto vedere le bolle di Clemente VIII, di cui Ella mi manda l’intitolazione; nè l’approvazione di Paolo V dell’istituto e dei privilegi della società. Tutti questi articoli si trovano più facilmente fuori d’Italia che in Italia, giacchè qui sono costretti a tenerli negli offici3 ed occulti, sebbene conoscano apertamente la verità. A gran fatica ho trovato il Bollario impresso il 1568 nel collegio della Compagnia, insieme colle Costituzioni della medesima: ivi stanno le concessioni dei pontefici fino a Pio IV. Ho fatto caccia anche degli esemplari manoscritti di tutte le bolle di Pio V, dei due Gregorii XIII e XIV a favore della Società, con certi altri statuti e decreti dei priori delle congregazioni generali; nè altro io tengo dei loro segretumi. Se bisogna alla S.V. qualcheduno dei documenti accennati, non ha da far altro che comandarmi.

Ricevei per questo corriere due lettere della S.V.; de’ 18 luglio la prima, col resto dell’arringa in pro de’ Gesuiti e cogli atti pubblicati a favore di Richer; e l’ultima dei 20 dello stesso mese, con gli atti del Parlamento. Ma più che altro, m’andò a sangue la narrativa della disputa solita tenersi nel capitolo generale dei Predicatori: ne avevo qualche contezza e per udita e per lettere, ma non al tutto rispondente al compiuto tenore di questo racconto.

Io vorrei che per tutta Italia si divulgasse che Perron4 e il Nunzio hanno confessato non essere per anco definita, ma potersi discutere in senso favorevole e contrario, la superiorità del papa e del Concilio. Poichè se tanto s’arrischiasse a dire qualcuno in Italia fuori del dominio di questa Repubblica, o verrebbe costretto ad un’abiura come eretico, o ne andrebbe bruciato. Il sindaco e gli altri Francesi presenti alla disputa si portarono con gran fermezza e dignità.

Avidamente lessi gli atti del Parlamento nella causa del Richer, e a questo titolo le rendo infinite grazie. Compatisca di grazia alla curiosità mia: nulla più desidero sapere che quanto ha riguardo a una tal causa. Io penso (e l’ho già significato) che la vostra e dirò pur nostra libertà risiede in ciò, che quel libercolo viva, e sia manifesto al mondo che sono cattolici coloro che l’approvano (quantunque non manchino i detrattori), e che la pubblica voce si faccia a sostenerlo.5

È vero quel ch’Ella ha udito circa la pace fra Persiani e Turchi; ma intanto il Turco cede ogni dominio che l’avolo conquistò a’ Persiani e il Persiano ricuperò. Non si scoprono sino a qui chiari i disegni dei Turchi; ma penso ch’abbiano la mente alle vittorie dei Polacchi contro a’ Russi, e là intendano le loro mire. Già si verificano movimenti d’armati nella Transilvania e Valacchia. Noi non abbiamo di che temere, in quanto che senza d’una flotta navale non possiamo essere offesi, nè a’ Turchi riesce procacciarsela a un tratto. Ci tocca bensì contrastare agli artificii di coloro che rimestano ogni cosa col danaro e sotto pretesto di religione. Sono gli Spagnuoli con la flotta presso Otranto, e i Turchi con un’altra sopra i lidi della Calabria; la flotta veneziana sta intorno a Corfù. Gli Spagnuoli ricorrono ad ogni espediente per far nascere dissensioni tra i Turchi e questa repubblica; ma le loro arti son note ad entrambi i paesi e non riusciranno.

Ebbi notizia che un parroco su quel di Parigi fu incatenato e messo in carcere per esserglisi trovati in casa scritti contrari all’autorità del papa. Ho gran desiderio di sapere se questa è la verità. Prego la S.V. a consegnare al signor Gillot le lettere allegate alla presente, e fargli i miei più compiti convenevoli. Io non cesso di pregare ogni giorno la sua divina Maestà, eccellentissimo signor mio, perchè la tenga in buona salute; e le bacio le mani.

14 agosto, 1612.



  1. Edita come sopra, pag. 105.
  2. Il Donato. Vedi la Lettera CCXIII, pag. 324 e nota 1.
  3. Allusione al metodo che allora tenevasi, riguardo a ciò, dal governo veneto, che certo avrà fatto custodire cotesti libercoli nella Secreta di Stato.
  4. Il cardinal Giacomo Du Perron. Vedi il tomo I, pag. 153 e nota.
  5. Ed ecco, secondo noi, il riformatore cattolico, che vuole al suo intento valersi anche della riforma protestante, ma senza uscire dal cattolicismo.


Note

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