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CCXXXI. — Al signor De l’Isle Groslot.1
Questo corriero non m’ha portato lettere di V.S.: il che le avviso solo acciò che, avendo Ella scritto, possiamo venir in cognizione di onde il difetto viene; non perchè io desideri sue lettere quando Ella sia occupata in altro affare; chè per esser certificato della continuazione della grazia sua, assai testimonio me ne rendono le lettere sue scritte con comodità.
Non ho cosa di momento da dirle. Le differenze di Mantova sono appresso che composte. La duchessa vedova si ritira in un castello del Mantovano chiamato Goito, dove sarà servita da Savoiardi, restando però il castello guardato da Mantovani. Del rimanente, le cose in Italia passano con quiete.
Il vescovo di Bamberg, ambasciatore cesareo a Roma, ha eseguito la sua legazione quanto alle cose ordinarie, e il pontefice ha confermata la elezione del nuovo imperatore, con parole: Matthiam regem romanorum electum in imperatorem confirmamus. E si è fatto pubblica scrittura così di questo atto, come di quello che l’ambasciatore ha fatto verso il papa. Ma il rimanente oltre le suddette parole, si tiene occulto, forse perchè non sia opportuno che da tutti sia saputo in questo tempo.
Di Levante si ha per certa la partita dell’ambasciatore persiano verso il suo signore, accompagnato da un ministro del Turco, che va per dichiarare le confini: cosa molto artificiosa, potendo, se li tornerà a conto, con questo capo romper tutta la trattazione. Quel principe de’ Turchi ha risoluto voltar le sue armi verso Occidente; e quantunque le genti militari che ordinariamente stanno alli confini de’ Persiani, bastino per la defensiva, ha oltre di ciò mandato cinque mila combattenti alle frontiere di Persia e dieci mila alle frontiere di Media, e ha pubblicato la sua andata in persona; con comandamento a tutti li suoi stipendiati d’esser seguito senza nissuna escusazione. Vuole innanzi la primavera transferirsi in Adrianopoli, per far muovere immediate tutta la milizia; onde si dubita che, spuntate le prime erbe,2 debbino mettersi in campagna e marciare. Si dubita che sarà una gran tempesta sopra la Moldavia, Valachia e Transilvania; e Dio voglia che il rimanente di Ungaria, che resta a’ Cristiani, ne sia esente.
Non si sa ancora che preparazione faccia l’imperatore per opporsi. È ben comune opinione, che non li dispiaccia la guerra con Turchi, come un minor male per divertir la civile di Germania, più abominabile; e per farsi anco rispettare e temere più dai principi dell’imperio, se sarà armato: che mi pare appunto la medicina di quello che guarì la febbre con la morte. Piaccia alla Maestà divina che il tutto torni in sua gloria e salute delli suoi: la quale anco prego che doni a V.S. ogni prosperità presente e perpetua: con che in fine le bacio la mano.
- Di Venezia, il dì 22 febbraio 1613.
- ↑ Edita come sopra, pag. 542.
- ↑ Considerato come modo di lingua, ci sembra degno della nazionalità. E così la frase proverbiale, nel seguente paragrafo: “Guarir la febbre con la morte.„