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DANS VENISE LA ROUGE
I.
Venezia, giugno.....
Io sono arrivata a Venezia, questo anno, in preda a un esaurimento profondo. Queste mortali lassitudini dell’anima, queste mortali stanchezze del cervello assumono, nella mia fibra vivace e spesso violenta, uno spaventoso carattere di esasperazione. Le piccole traversie della giornata, allora, hanno il potere d’irritarmi, successivamente, di minuto in minuto, sino alla collera più irragionevole: le impressioni più superficiali, sovrapponendosi, mi conducono sino alle lacrime: le persone più care mi dispiacciono: quelle che mi dispiacciono, finiscono per farmi orrore: e l’ombra di un nemico, se appare nella mia fantasia, giganteggia e oscura tutto il mio orizzonte. Queste crisi intellettuali e morali, che, in fondo, sono causate da uno sforzo fisico troppo intenso e troppo prolungato, hanno, certo, dei brevissimi lucidi intervalli, in cui il sofferente comprende tutta l’anormalità del suo stato, misura tutto lo squilibrio della sua esistenza, e si pente se ha colpito, nelle sue ore di iracondia ingiusta, qualche essere innocente, e sa di esser malato, infine, e domanda di guarire, domanda ciò che guarisce, cioè il silenzio, la pace, la quiete larga e soave. Ultimamente, io avevo compiuto un duplice lavoro d’arte, attraversando tutta la primavera senz’accorgermene, non volendo vedere che i fantasmi della mia immaginazione e disdegnando i fiori che si aprivano sugli steli, non volendo udire che le voci che mi parlavano misteriosamente, nella notte e turandomi le orecchie a tutte le lusinghiere armonie della vita reale, assidendomi al mio tavolino con un piacere spirituale sempre più ardente, rimanendovi delle ore in uno stato di ebbrezza sempre più alta, passando, a poco a poco, da un lavoro calmo e pacato, regolato per ore e per giornate, a quella febbre della creazione che dà le ali all’anima e che le dà, veramente, alla mano che scrive! In verità, nessun impegno formale mi incalzava; io potevo finire il mio romanzo, da una parte, e un libro di sogno e di poesia, dall’altro, un libro che voi leggerete stampato, o amica, in autunno e un romanzo che vi farà pensare, in inverno, io potevo finire anche dopo tre mesi, anche dopo sei mesi. Ah che i nostri fantasmi sono più vivi e più forti di noi, e come essi, appena li abbiamo estratti dalla più pura essenza della nostr’anima, come essi palpitano, si agitano, fremono, ci prendono, ci trascinano, ci travolgono! Potenza di ciò che noi abbiamo creato, di noi più potente! Euforione, apportatore di luce, nasce dalle fatidiche nozze di Faust con Elena: e l’infante diventa, subito, un fanciullo pieno di energia, ribelle, ridente, fiammeggiante: e si fa grande e s’innalza, e sparisce più bello, più felice, più trionfale di Elena e di Faust! Potenza incredibile e inaudita di queste creature del nostro spirito! Come tanti altri, che, fuggenti con voluttà la vita reale, compiono, nell’ombra tacita di una stanza l’opera di vita, come tanti altri evocatori e creatori di idee e di figure, ultimamente, io conobbi, di nuovo, il delirio del nobilissimo sforzo, io ne conobbi l’assorbimento claustrale, la distrazione profonda, la febbre prima sottile e poi rovente, l’ansia quasi straziante: e divorai il tempo; e compii la fatica immensa, assai prima del giorno stabilito: e sentii, dopo, vuote le mie fibre, vuoto il mio cervello, vuota la mia vita. Ma, dal dì seguente, la misera e caduca compagine si vendicò della terribile disciplina di lavoro, impostale; ma tutto ciò che mi circondava, tutto quel che mi si diceva, tutti coloro che io vedeva, ogni cosa, ogni persona, ogni fatto, facevano stridere i miei nervi esausti, i quali mi abbattevano sino alla tetraggine, sino alla muta disperazione, mi esaltavano sino a una antipatia mortale, sino a una collera cieca e vana, sino a un odio vibrante dell’umanità. Miseria della nostra vita! Dover subito, quasi fulmineamente, pagare lo scotto di tutte le ore brucianti, in cui ci slancia l’impeto acceso e precipitoso del nostro sangue; dover saldare dolorosamente il conto delle più belle e più pure prodigalità del nostro spirito; dovere scontare la più sincera e più candida elevazion dell’anima: miseria, miseria di noi, che mai, mai possiamo essere più grandi della nostra misura, senza sentirci, dopo, diminuiti e indeboliti, fiacchi e perduti, per noi stessi e per gli altri. Così, ultimamente, la mia esistenza in un solo, esclusivo, profondo anelito, domandava un paese del mondo ove tutto fosse dolce ai sensi, ove tutto cullasse chetamente l’anima e le fibre, ove infine regnasse quel solenne ed efficace amico dello spirito, quell’amico il cui soffio guarisce, le cui mani guariscono, il Mirabile Amico, il Silenzio!
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Freschissima sera delle calende di giugno. Il palazzo Ferro apre la sua lunga e stretta veranda di marmo bianco, sul Canal Grande: e gli scalini di questa veranda si bagnano nelle acque oscure, ove le grandi lampade elettriche mettono un immobile e bizzarro fondo di argento opaco. Su questa loggetta terrena, lungo il muro, sono disposte delle poltrone di paglia, larghe e confortevoli: delle donne, degli uomini, vi sono seduti, contemplando e tacendo. Dirimpetto a questo Grand Hotel, la massa fine e pure imponente di Santa Maria della Salute si profila appena, sul cielo notturno: e i cento lumicini delle gondole ferme o filanti nell’ombra, i lampioncini multicoltori delle grandi barche ove si suona e si canta, le lampade degli altri alberghi, non giungono a diradare le belle tenebre ove le chiese e i palazzi morbidamente si ammantano. Questi uomini, queste donne che prolungano la loro serata, immoti in una poltrona, muti e tranquilli, sono stranieri, venuti da tutti i paesi del mondo, a Venezia, affascinati invincibilmente da un nome che ha sempre tenuto tutte le sue promesse, da un nome di poesia più bello nella sua realtà che in tutti i sogni dei lontani e in tutte le prose degli scrittori: ognuno di questi stranieri, è venuto a chiedere, a Venezia, delle immagini di beltà, delle visioni d’arte, delle impressioni di grazia che, giammai troverà in altro paese dell’universo: e, forse, alcuni di essi o molti, o tutti, vennero anche a dimandare la soavità fluente e suadente di tutte le cose che agiscono sui sensi, le linee, i colori, le tinte, le voci, tutta la vita. E io sono uno di questi stranieri: e sono qui, immersa in una lunga immobilità, come se vi stessi da un tempo immemorabile, e questa immobilità fosse la mia guarigione e la mia salute, come se questa immobilità si dovesse, ancora, prolungare per un tempo infinito, sanandomi da tutti i miei orrendi mali, rifacendo, interiormente, la vita dei miei nervi, delle mie fibre, versando un balsamo misterioso e possente nel mio sangue riarso e consumato, versando nel mio cuore esulcerato un filtro indescrivibilmente benefico. Io sono uno straniero, come questi altri: io non li conosco: essi non mi conoscono: essi hanno sofferto, forse, come me, per obbedire a un impulso di creazione, in qualche cosa che sia arte, scienza, politica, qualche cosa di spirituale e di vibrante: io non voglio sapere la loro storia: essi non vogliono sapere la mia: siamo e rimarremo estranei, ma tutti questi ignoti, ma io, ignota a loro, abbiamo i medesimi bisogni dell’anima, gli occhi stanchi di tanti banali spettacoli, che ne desiderano uno che non somigli a nulla e che abbia in sè la solenne tranquillità delle cose che furono; le orecchie stanche di tutti i violenti rumori, di tutti i fracassi esasperanti e che invocano quest’assenza vellutata e molle di ogni chiasso, che invocano questo silenzio, appena tenuemente interrotto da canti lievi, lontani, da cinguettii incantevoli di un incantevole dialetto; la persona stanca di tutti i moti precipitosi e affannosi del treno, dei piroscafi, degli automobili, delle carrozze e che anela al moto leggiero e carezzante della gondola, sui neri cuscini freschi e profondi. E come tutti costoro, come tutti quelli che sono assisi, lontano, vicino, sulle verande, sui veroni, alle logge e alle loggette del Canal Grande, stranieri, italiani, come tutti quelli che passeggiano, tacitamente, sotto le stelle, nella piazza marmorea di San Marco, come tutti quelli che passano, innanzi ai nostri occhi, nelle gondole, la mia speranza come la loro speranza, non è fallita: e la divina medicina che Venezia promette ed appresta, già compie il suo divino ufficio: e mentre il corpo è immobile, mentre le labbra tacciono, mentre ogni cosa tace, mentre il pensiero si rallenta e quasi svanisce, mentre ogni palpito si è chetato, una placida emozione vela gli occhi di riconoscenti lacrime, che non arrivano a scorrere, ma che danno più amorosa grazia al paesaggio e all’ambiente.
⁂
Continuamente, presso la veranda, o più lungi, passano le gondole che vengono dal largo piano nerastro del Canal Grande, che si allontanano verso la Riva degli Schiavoni, verso la Giudecca: altre vengono di contro, appaiono nell’alone della luce elettrica e il loro elegantissimo ferro scintilla, e sono tutte nere nel bianco chiarore, e delle ombre bianche muliebri vi sono mollemente sedute, e subito, con un moto così taciturno e così fantastico, spariscono. Ne passano sempre. Qualche viso muliebre, in quelle che filano lungo la veranda, si arriva a scorgere, per un istante, nelle sue linee delicate: un istante. Qualche coppia silenziosa nel suo ardor giovanile, già vinta dalla morbidezza del fascino veneziano, si scorge, per un istante, e le loro dita stancamente intrecciate si scorgono: un istante. Alcune gondole si fermano, innanzi agli scalini dell’albergo, ove fiotta appena l’acqua finemente verdastra della laguna: un servo accorre, con un passaggetto di legno, che appoggia al bordo della lunga e pure snella gondola: una donna si leva, traversa la gondola, salta leggermente sul passaggio di legno, mette il piede sulla veranda, sparisce nell’albergo, la gondola si allontana. Chi è mai costei, una creatura non ancora ventenne, tutta vestita di bianco, con un mantello di seta celeste, e un delizioso viso, sotto un’aureola di capelli biondi, chi è costei, donde viene con questa gondola, chi è costui, un così bel giovine, elegantissimo, che l’accompagna, un fratello, un innamorato, uno sposo? E quest’altra donna, così pallida e così
nobile, in una veste di seta avorio, a pieghe antiche, che la veste come un peplo, e le maniche sembrano delle ali, donde viene, costei tutta sola, in gondola? E dove vanno, queste due donne, squisitamente acconciate, che attendono, senza impazienza, sulla veranda, che la gondola si accosti, per sollevare le loro gonne fluide di merletti e di veli, per mettervi il piedino sottile, per sdraiarvisi, per partire, per sparire? Chi sa! E niuno può sapere, neanche, ed è inutile sapere, anche, poichè, sempre, sempre, delle gondole arrivano e partono, con donne giovini, con bimbi, con uomini dall’occhiello infiorato, poichè è una lenta teoria, lontana, prossima, di gondole dal gran ferro lucido, che avvinghia i nostri cuori. Si canta, laggiù. Dei violini, delle chitarre, dei mandolini, musica molto mite che si prolunga nell’aria cheta: e, alternativamente, una voce di donna, una voce di uomo, cantano, delle canzoni di amore e di dolore: qualcuna, più allegra; qualche pezzo delle opere più popolari. Non è un canto squisito, non è un canto perfetto che viene dalla grande barca illuminata, intorno a cui si sono aggruppate delle gondole, ferme, a udire: ma è singolarmente gradito, poichè è tenue, poichè viene di lontano, dall’ombra, sulle acque, a Venezia: è singolarmente piacevole, poichè voi lo udite come in un sogno, poichè ignorate il viso di chi canta, poichè, forse, non ne comprendete le parole. Sui volti di chi ascolta, qui, intorno a me, e sono sono volti chiusi, di gente estranea, qualche sorriso appare, alle molli modulazioni degli strumenti della voce: alla fine, dei fiochi applausi arrivano, dalle altre verande, dalle loggie, ove ascoltano altri. Più lontano, molto lontano, qualche altra eco armoniosa giunge. Pare che il movimento delle gondole che passano, che partono, che arrivano, si cadenzi sovra la canzone, di amore, in napoletano, o sull’idillio tenero di Mimì e di Rodolfo. L’acqua fiotta così lievemente! E, forse, noi sogniamo, qui, da un secolo; sogniamo di non esser più noi, ma altri; di non aver mai sofferto, di non poter mai soffrire le cose atroci, che lacerano la nostra duplice vita spirituale e materiale; sogniamo di ogni più traboccante dolcezza che tutto il nostro essere invada, pervada, trasformi, rifaccia, una dolcezza senza misura, senza fine; e sogniamo che il nostro sogno duri, ancora, un secolo.Venezia, giugno.....
L’hôtel Danieli, sulla Riva degli Schiavoni, è rimasto quale era, settant'anni fa, al tempo che vi abitarono Georges Sand e Alfred de Musset, coloro che già sono indicati, per antonomasia, gli amanti di Venezia, come Giulietta e Romeo sono gli amanti di Verona: se la modernità ne ha trasformato qualche salone, vi ha creato una sala da pranzo Liberty, vi ha messo la luce elettrica e vi ha affisso i manifesti-réclame del lago di Como e di Ostenda, il corpo dell’edificio è restato intatto, sono restate intatte le camere. La stanza che hanno occupata i due amanti, è al numero ventisei, al primo piano: e se essa è disoccupata, mentre voi alloggiate nell’albergo, i camerieri o il mastro di casa non hanno nessuna difficoltà di farvela visitare. Io ho visitata questa camera numero ventisei, un giorno che niuno vi alloggiava: e nulla io vi osservai di notevole, di speciale, salvo la sua finestra. Voi sapete bene, amica diletta e lontana, ma il cui cuore è sempre vicino al mio, che questa finestra stretta, dal poggiuolo di marmo, dalla elegante balaustra di ferro lavorato, questa finestra sul cui marmo Georges Sand si sedeva ogni giorno, alla cui balaustra ella si appoggiava, per lunghe ore, tacendo, contemplando, fumando, in quel suo profondo amore del silenzio e della contemplazione che era la sorgente più forte e più viva del suo pensiero e della sua creazione di arte, questa finestra è stata l’origine della tragica catastrofe di un grande amore. È qui che, in un giorno di lucente biondezza del sole, di limpidità dell’aria, di ebbrezza di vita, il dottor Pagello ha visto, dalla strada, la prima volta, la singolare donna dai lunghi occhi sognanti, dai magnifici capelli bruni; apparizione bizzarra a cui egli dette lo sguardo di entusiasta ammirazione d’ogni buon italiano, innanzi a una incognita, una straniera dalla fisonomia espressiva! E, più tardi, è a questa finestra che, il medico veneziano, chiamato per un singolar caso a curare Alfred de Musset infermo, si è tante volte appartato per parlare, in segreto, con Georges Sand, perchè il malato non udisse e, lentamente, i loro discorsi divennero di amore: da questa finestra, nell’autunno che si avanzava, Georges Sand ha spiato, tante volte, l’arrivo del suo Pagello, dell’uomo semplice e simpatico, che il suo cuore e i suoi sensi avevan preferito al sensibile, delicato e possente giovine poeta con cui ella era venuta a Venezia. Una finestra! È un raggio di luce, in una stanza: ed è anche un raggio di luce nella intimità di tre anime. Se voi verrete mai, qui, diletta, visitate piamente questa camera: qui vissero l’arte e la poesia: qui visse l’amore: e, così, qui visse il dolore.
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Qual donna potrebbe mai difendere con sottigliezza, con impeto, con eloquenza, colui che tradì malamente Alfred de Musset che, tradendolo, non fu neppure pietosa e che, più tardi, non seppe neanche sostituire il balsamo della amicizia al fiele del tradimento e della crudeltà? Chi oserebbe mai difendere, largamente, Georges Sand, di questo grave peccato che fu la costante, segreta tortura di Alfred de Musset sino alla morte? Eppure! Il tradimento, è vero, fa orrore: l’uomo, la donna quando lo trovano su loro cammino, hanno un grido d’ipocrito ribrezzo: e niuno è compianto di più come le vittime, le anime tradite: e niuno è più esecrato come i carnefici, i traditori. Ipocrito ribrezzo! Ogni uomo che ha amato, ha tradito ed è stato tradito; ogni donna che ha amato è stata tradita ed ha tradito: questa è la verità chiara e assoluta. Il mondo dell’amore è pieno di traditori e di traditrici e ben pochi osano di confessare, con lealtà, che, nella loro vita non solo tradirono i loro piccoli amori, le loro passioncelle, i loro brevi capricci, ma persino, il loro grande amore, l’esclusivo, l’unico amore. Nessun uomo, nessuna donna furono fedeli, mai, completamente, perfettamente anche quando la più folle passione li tenesse, E non è colpa degli uomini, non è colpa delle donne: è colpa dei loro sensi troppo raffinati e continuamente curiosi di sensazioni nuove: è colpa della loro immaginazione, ardente, insaziabile, che cerca le forme più impensate ed impreviste: è colpa dei loro sensi, inquieti, mal contenti, limitati e che non vogliono credere o cedere alla loro natural limitazione: è colpa dei loro gusti estetici, troppo sviluppati, per cui la bellezza, la grazia, li attirano troppo, con un fascino che non si vince, è colpa di quel fondo, ahimè, di contraddizione, anzi, di perversione che è sepolto in tutte le anime più costanti, in tutti i cuori più fedeli, per cui l’uomo, la donna si dilettano malignamente di far cosa contro la fede e contro sè stessi: è colpa di tutte le cose belle, ideali, sensuali, poetiche, brutali, che esistono, la bellezza, la corruzione, la pittura, la religione, la musica, il vizio, la virtù, la poesia, il paesaggio, tutte cose che inducono l’uomo, la donna, al tradimento. Domandate a un grande traditore come fu del suo tradimento: egli apparirà pallido, triste, contrito, pentito, ma non saprà dirvi il come, il quando ed il perchè. Domandate a una grande traditrice, perchè ha tradito: ella piangerà, singhiozzerà, si strapperà convulsamente i capelli, ma non vi dirà mai quel perchè, essa stessa non lo conosce. Quale donna, la più eletta, la più virtuosa, la più rigorosamente fedele non nutrì, almeno nella sua mente, anche per un giorno, anche pentendosene tutta la vita, la immagine del tradimento? Quale uomo, il più austero, il più rigido, il più legato ai suoi giuramenti, non sognò il tradimento, in una sera, in una notte, non fu innamorato di una visione, non tradì ogni sua promessa, anche per una visione? Giacchè, è inutile discutere, il tradimento non consiste solo nella volontà, nelle azioni, nelle opere, nei fatti, ma esiste in quanto si pensa, in quanto si sogna, in quanto si desidera, in tutto ciò che è dentro di noi! Che importa se il tradimento non sia consumato? L’atto è solo una conseguenza: il grande peccato è nel pensiero, è nel sogno, è nell’aspirazione, e nel desiderio: il grande peccato lo commette la ragione che si smarrisce, l’immaginazione che vaneggia, l’anima che si esalta nella solitudine, le braccia che si tendono, di notte, all’oscuro, nell’ombra della camera deserta, nella insonnia passionale. Non lo ha detto, forse, san Paolo, il più alto e il più aspro e il più saggio fra i santi? Basta guardare, con desiderio per commetter peccato: basta pensare con desiderio, per commetter peccato. E allora tutti, tutti, i più coscienziosi, le più scrupolose, i più schiavi, le più ritrose, tutti, tutte, le più costanti, i più fedeli, tutti hanno tradito, tutti tradiscono, tutti tradiranno, ogni anima si è macchiata, si macchia, si macchierà di tale peccato. E se cerchiamo bene, la colpa non è dell’uomo, non è della donna, non è neanche dell’ambiente, delle circostanze, delle occasioni: la colpa è dell’amore, è dell’amore istesso, singolare sentimento, singolare sensazione, la cui essenza porta con sè, ahimè, purtroppo, il senso del dolo e il senso della frode. Ogni amore, grande o piccolo, nasce portando seco la necessità dell’inganno, la necessità del tradimento, poichè ogni cosa umana, immensa o minuscola ha con sè ciò che deve determinarne la trasformazione o la morte. L’amore e il tradimento germogliano e fioriscono, adunque, insieme: perchè l’amore diventi migliore, diverso, più ardente, più languido, più breve, più duraturo, il tradimento lo accompagna: perchè l’amore muoia, il tradimento gli vive accanto, pronto a colpirlo, duramente, orrendamente. A che, dunque, ingiuriare e vituperare quella donna di genio che fu Georges Sand, se il suo tradimento passò dal desiderio all’azione, se il suo sogno divenne una realtà? In che ha peccato più delle altre?
⁂
Ebbene, sì, ella ha peccato più delle altre, perchè ella non seppe mentire, nè nella sostanza, nè nella forma: poichè ella non seppe temperare con carità feminile il suo tradimento: poichè ella non seppe misurare la sua rude condotta: poichè ella non seppe vestire di niente, la sua crudeltà. Il modo, l’orrendo modo onde ella gittò lontano, via, da sè, Alfred de Musset, ancora offende tutti coloro che hanno fibra gentile. Doveva ella, dunque, mentire? Doveva. Poichè la natura dell’amore dell’amore è così duplice, così complicata, così falsa: poichè questo sentimento e questa sensazione tendono a noi e agli altri il tranello più grottesco e più terribile in cui si possa cadere: poichè nessuno si può sottrarre al pericolo di un tradimento, per sè stesso, per gli altri e poichè si deve aver il più profondo rispetto dell’anima altrui, bisogna ingannare, bisogna mentire. Così! L’inganno è una immensa pietà, nell’amore: e nessuno oserà mai di rinfacciarvi di esser pietoso. La dura sincerità, la lealtà aspra, in amore, arrivano ai risultati terribili della rottura fra Alfred de Musset e Georges Sand: un cuore deluso e straziato per sempre, quello di un grande poeta: una reputazione di donna perduta per sempre, di fronte alla bontà umana, di fronte alla compassione. Che le è valso, a Georges Sand, di aver confessato, subito, più tardi e sempre, di aver tradito, di averlo confessato con brutalità, con crudeltà, che le è valso, di aver detto la verità, quando tutti i sentimenti che legano una anima ad un’altra, e mille anime ad altre mille anime, le consigliavano di non dirla, questa verità? Che le è servito, di aver messo a nudo il suo cuore e i suoi sensi, innanzi al mondo, in un atto di sincerità che ha mortalmente offeso il povero tradito e il mondo? La menzogna è una pietà, in amore. E, in amore, chi è egoista, chi pensa a salvare sè, a mettere sè fuori di pena, fuori d’imbarazzo, a liberarsi, infine, solo chi è egoista, dice, grida la verità, con odio, con ferocia, quasi, verso la persona che fu amata e che ama: l’altruista, la creatura di bontà e di affetto, quello che si preoccupa più dell’altro che di sè stesso, quello che preferisce soffrire a veder soffrire, quello che non vuole liberarsi, poichè l’altro rifiuta la libertà, quello che preferisce perdersi pur di salvare, l’altruista, infine l’anima bella e tenera e nobile, mentisce. In amore, tutto cambia di aspetto: la verità è, spesso, quasi sempre, una cosa infame: la menzogna è un atto di nobiltà e di misericordia. Mentireste, voi, per guadagnare un’ora di felicità, a un vostro figlio? Un figlio vale un amante e l’amore materno è una forma dell’amore. Mentireste, voi, per togliere a un amico una tristezza? Un amico vale un amante; e la tristezza è una forma del dolore. Mentireste, voi, per togliere l’amato capo a un pericolo? Un amante vale un amante e nell’amore, il pericolo è di non amar più. La verità è un insulto, è uno schiaffo, è uno sputo in faccia, in amore; la menzogna è un sorriso, è una parola dolce, è una carezza. Fate il vostro dovere, amando, amando bene, dicendo tutto ciò che è consolante, che è soave, che è rassicurante: agendo, quando amate meno, come se amaste fortemente: agendo, quando non amate più, come se amaste ancora: non accettando mai di non amar fortemente: non accettando mai di amar meno: negando sempre di aver tradito, di tradire: negando, negando, voi, lasciando al tempo, alle cose, agli uomini, di dire la verità, di dirla tenuemente, mitemente, a poco a poco, ma non voi, non voi, mai, mai, se siete una persona di cuore! Voi dite che ciò è triste, amica mia? Sì, è un poco triste.
III
Venezia, maggio.....
Vi sono cose che lo spirto nostro, per movimento unanime, riconosce fatalmente destinate all’insuccesso. Una di queste era, è, una esposizione di arte moderna a Venezia. Chi, amando Venezia, adorando Venezia, anzi, appunto per questo amore e per questa adorazione, non ha previsto prima, più tardi, adesso, l’immancabile fiasco di una esposizione di arte moderna, in Venezia? Pensate! L’arte moderna in quella mirabile città, ove ogni linea dei suoi superbi e muti palazzi, ogni tinta di quelle pietre, di quei marmi, di quei legni, sono delle profonde armonie di arte che la mano dell’uomo e il tempo e il sole carezzoso o ardente e le acque consacrarono, per la silenziosa delizia dei nostr occhi rapiti in un incanto che nessun altro paesaggio può darci? L’arte moderna, in quella stupenda città, ove a ogni mutamento di ora e di luce, nelle albe fresche e nei crepuscoli caldi, nelle giornate plumbee e basse come in quelle ove il cielo sembra una serica stoffa di un chiarissimo azzurro palpitante, si compongono e si decompongono quadri così svariati e intensi di bellezza, di malinconia, di sorriso, di tetraggine, che la nostr’anima sensibile vibra in ogni sua intimità e sente i fremiti più diversi unirsi, sovrapporsi, elidersi, passando, dalla serenità contemplativa alla immensa mestizia dei ricordi, sentendo, ora tutto il peso del mondo come lo sentiva la Portia di Shakespeare, sentendo, ora, il cuore libero e lieve, innanzi a quei quadri che il sole, che la luce, che le nuvole creano, in Venezia? L’arte moderna in quel paese ove, dalle antiche sale degli antichi palazzi patrizi, alle piccole chiese delle due isole, dai magnifici saloni ducali ai saloni dei suoi musei, cento, mille opere di arte antica vi prendono, vi tengono, uscite dalle mani magistrali di cento artisti perfetti e fra questi cento, la fiamma del genio che ci diede l’inobliabile, inobliata Assunta in cielo? Audacia, audacia folle, quella di voler fare, non una sola volta, ma ogni due anni, una esposizione di arte moderna, in Venezia, quando, anche nei paesi più lontani, il senso dell’arte è diventato più vago, più incerto, più esitante, quando cento, mille artisti provano, nel loro spirito quella crisi atroce del dubbio, che è di certe grandi epoche, ove lo spirito umano cerca la sua via e troppe ne vede, o ne vede una troppo grande, troppo lunga e deserta e, forse, senza fine! Immensa audacia, una esposizione di arte moderna, a Venezia, in un tempo curioso, bizzarro, come è il nostro, in cui l’anima è travagliata dalle correnti segrete più contrastanti, fra loro, di fede e di scetticismo, di speranza e di delusione, di grande aspettativa oscura e di desolante senso che nulla verrà, di amore dell’arte e di separazione da essa, di bisogno di vita e di nostalgia di sogno. Immensa audacia, sovra tutto, per una grande corrente positiva che spegne la fantasia negli uomini, che ne inaridisce i cuori e ne pietrifica le anime: e che li conduce ad ammirare solo le stazioni elettriche, le ferrovie metropolitane e gli automobili che fanno centocinquanta chilometri all’ora. In quanto all’altra parte della umanità, quella che ancora cerca una visione di grazia e d’arte, insieme a una visione di possanza tramontata, ebbene, tutti costoro, tutti questi esseri umani, non hanno necessità altra, in Venezia, se non che la città delle calme profonde, esista; che il suo Canal Grande sia sempre solcato dalla indicibile linea di snellezza e di eleganza che è la sua gondola; che i suoi piccoli rii rispecchino ancora le acacie fiorite dei giardinetti pensili, mentre lungo le fondamenta passano le svelte venezianine dagli scialletti neri e dalle grandi capigliature che Tiziano amava; che, di notte, sulle acque nere e tremule, come un soffio, arrivi un canto lontano; e che, di tutto questo, l’anima faccia il pascolo spirituale più originale e più eletto. Non altro!
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Ma, ecco: nella grande conca di acque che da san Marco si distende sino alla linea di orizzonte ove il Lido vi chiama, misteriosamente, con la gran voce dell’Adriatico che la memoria vi ricorda, un piccolo paradiso di alberi, di fiori, di erbe, si rispecchia, con una florida curva; e i giardini di Venezia, con un fascino soave e imperioso, prima che vi abbia, laggiù, il verde e sonante mare di Lido, prima, prima, i Giardini di Venezia vi prendono, vi tengono, vi abbracciano con le loro ombre dolci, con le loro freschezze suadenti, coi loro profumi primaverili. Ecco: l’esposizione di arte moderna è nei Giardini! Dove, meglio? Dove, una cornice più incantevole? Dove, un ambiente più propizio, più benigno, più poetico? E quando già i vostri occhi si sono rasserenati, al cospetto delle più belle cose che Dio abbia dato agli uomini, per racconsolarli degli orrendi mali della vita, gli alberi e i fiori — l’albero e il fiore, o supremo conforto di ogni cuor disperato! — quando già lo spirito si solleva sulle ali dei primi sogni, il padiglione della esposizione è lì, innanzi a voi, nelle sue parvenze nobili e semplici; e voi entrate, colà, senza sgomento e senza impazienza, voi cercate, colà, solo che il vostro sogno continui, si svolga, ricominci, vi trattenga in un oblìo non troppo profondo. Tutto, intorno, è favorevole. Giammai, in una esposizione di arte moderna, giammai, dico, fu data alle opere di arte, anche modeste, anche mediocri, se tali vi sono, un ambiente più degno di loro. Voi potreste non guardare un sol quadro, una sola statua e avere le impressioni più squisite, dalle sale create per raccogliere questi quadri e queste statue. Ognuna di queste sale è diversamente bella, per le sue decorazioni, per i suoi addobbi, per i suoi mobili; in ognuna di queste sale quattro o cinque artisti si sono uniti, hanno messo di accordo il talento e il gusto perchè un’armonia perfetta vi regnasse, nei velarii di merletto, nei grandi ornamenti delle pareti, nei mobili, pochi, sparsi qua e là; e, dappertutto, lo stesso senso di una bellezza quieta e larga e semplice, che facesse valere, sempre meglio, i quadri e le statue. Ogni tanto, sobriamente, dei fiori e delle piante: e delle grandi portiere in istorie strane, in cuoi lavorati; e dei fondi uniti, di tinte che riposano l’occhio, tinte delicate e graziose. Ah che tutto è favorevole, in queste sale, al diletto dell’anima, e chi diresse e chi lavorò, ognuno per la sua parte, ha compito un miracolo, rendendo gradito un ambiente, donde ordinariamente si esce con una terribile emicrania e l’odio del colore! E guardate bene, che scienza d’arte perfetta, in ogni decorazione, di accordo con la pittura dei paesi nordici, con quella dei paesi meridionali, guardate bene come tutto è concorde, perchè anche il più bel pregio di un’opera di arte risulti! Così, nella folla che, ogni giorno, trabocca dai vaporini allo scalo dei Giardini e si diffonde per queste sale, in questa folla ove ogni ceto accorre, dai forestieri agli indigeni, ove ogni età e ogni condizione è rappresentata, in questa folla ove sono le persone che meno s’intendono di arte, in questa folla, è come un senso generale di soddisfazione, di benessere; chi é giunto in queste sale per mezz’ora, vi si trattiene, involontariamente, per due ore; chi vi è già venuto, vi ritorna: chi vi è stato due o tre volte, vi conduce gli amici. Piace, l’esposizione di arte moderna, a Venezia, piace, piace molto, nel paese di Tiziano e di Giorgione, di Gian Bellino e di Carpaccio, piace, questa esposizione di arte, nel paese di Tiepolo, piace, in un paese, ove basta che il sole circondi di sua gloria la Madonna della Salute, che la luna bagni di sue bianchezze il ponte di Rialto, perchè si creino dei quadri inarrivabili, piace, questa esposizione, anche se essa non racchiuda il capolavoro che tutti cerchiamo, piace, come fu pensata, come fu creata, come fu organizzata, con un immenso sforzo d’ingegno, con un immenso sforzo di volontà, con una energia di grandi propositi e di minuti particolari, con un criterio largo e austero, insieme, con un rispetto dell’arte singolarissimo, con un vantaggio singolarissimo dell’arte e degli artisti.
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Gioiscano tutti, di questo successo, sempre più grande: prima di tutti e di ogni cosa, ne gioisca Venezia. Chiunque senta l’orgoglio delle infinite beltà che l’Italia contiene, chiunque senta che questo nostro paese, possiede le più ricche forme di seduzione dello spirito, ama Venezia con simpatia tenerissima: e soffrirebbe, come soffriva, di vederla sempre più cadere nel letargo e nell’obblìo: e poichè qualcuno o molti han trovato modo di darle una vita spirituale e materiale, decorosa, dignitosa, di accordo col suo carattere e con la sua espressione, poichè una voce o molte voci l’han fatta risorgere, oramai, e le hanno attirato tutto un mondo, intorno a lei, poichè questa incomparabile perla, fra le città italiane, rinnova i bagliori del suo oriente, la sua gioia è nostra. E di questo successo gioiscano, in loro cuore amoroso tutti quegli artisti, nostri e dell’estero che accorsero, colà, e lavorarono, come nei tempi più belli di Venezia, lavorarono, in lunghe discipline, perchè la sua mostra di arte, essa sola, a parte quanto vi si è esposto, fosse un gioiello di beltà, di grazia, di eleganza; gioiscano tutti costoro che diedero prima a sè stessi, poi alla innumerevole folla sconosciuta, la gioia di parvenze squisite e allettatrici degli occhi e delle fantasie umane. E ne gioiscano, infine, di questo successo che ha echi lontani e sempre più profondi, tutti quei buoni figli di Venezia che, o da anni, o da poco tempo, si affaticarono, in tutti i modi, perchè la mostra di arte, anche in quelle cose che non appartengono all’arte, riescisse degna di quel gran nome della loro madre Venezia: e in tutte le forme della ospitalità, prodigarono le loro cure a tutti gli ospiti, noti ed ignoti, sovrani ed ambasciatori e folla, folla, infine, di ogni paese. Ma, sovra tutto, gioisca il maggior figlio di Venezia, il più ardente il più operoso, il più efficace figliuolo che abbia Venezia, io voglio dire Antonio Fradeletto! Anima di poeta, cuore di poeta, mente di poeta, tutto tu hai messo a servizio dell’onore e della fortuna di Venezia: e ogni giorno della tua via è stato consacrato a mantenere alto e vivido quest’onore e questa fortuna! Alla tua fiamma, tu hai acceso tutti i cuori tiepidi o freddi: alla tua voce, tu hai fatto rispondere le anime più sorde: alla tua energia, ogni ostacolo è stato lieve: al tuo desiderio di bene, niun male ha resistito. E dovresti essere stanco, di una invincibile stanchezza, tu che hai fatto opera colossale: ma tu sorridi, come ogni uomo che vede il suo sogno diventare una realtà, e non si volta indietro, e non sente fatica; tu sorridi, mitemente, incontrando, fra le grazie degli alberi, dei fiori, e le suggestive forme balzanti dai quadri, una regina che si avanza, ad ammirare la realtà del tuo sogno!
IV
Venezia, maggio, ....
Moderno? Sono centinaia di anni che il mistero del volto umano tenta, con le sue profonde e oscure lusinghe, l’anima degli artisti, curiosa e inquieta della vita interiore degli esseri, sono centinaia di anni che tutti gli artisti, da quelli che si elevarono, sempre, sulle poderose ali del sogno e venerarono lo Spirito in ogni sua parvenza, a quelli che compresero e amarono solo la realtà in sue robuste forme terrene, tutti si curvarono su quest’ombra fascinante che è il segreto del volto umano e ne cercarono, fra le linee espresse magistralmente, di rivelare qualche cosa, solo qualche cosa di segreto e mai tutto! Un immenso ardente desiderio di conoscenza, da centinaia di anni ha dato all’arte tutti gli antichissimi ritratti e a traverso il tempo, ha riempiuto le gallerie, i musei, le sale delle case patrizie e persino le chiese, di ritratti: e ognuna di queste opere singolari, talvolta belle di una duplice beltà, quella che veniva dall’armonia esteriore e quella dell’armonia interna, ognuna di queste singolarissime opere di arte, ove, spesso, la bruttezza, la laidezza trionfano, è un documento di vita, piccolo documento, grande documento. E su noi, che portiamo, lontano, un’anima sitibonda di tutte le conoscenze, su noi che fermiamo, lontano, l’anima vagabonda, perchè ella possa ricevere il dono della verità, da un quadro, da una statua, da una medaglia, che incommensurabile magìa un ritratto, un antico ritratto, qualunque esso sia, dovunque esso ci apparisca, sia quello di un personaggio celebre o di un ignoto, che magìa invincibile, questo volto umano, di un tempo lontano, di un ambiente che si è dileguato, di un paese che non è più quello, che magìa invincibile, questo volto umano, dipinto da un grande pittore, il volto umano di una sconosciuta che tre o quattrocento anni fa visse, amò, odiò, pianse, agonizzò, sparve; il volto umano di uno sconosciuto che esercitò tutte le virtù, forse, o tutti i vizi e perì come un martire o come un carnefice! O piccole infanti di Spagna, smorte, superbe, tristi e fiere anche della vostra tristezza e fiere del vostro destino di grandezza e di dolore, piccole infanti di Spagna del grande Velasquez, o borghesi dai visi gonfii, dai visi travagliati che Rembrandt rese con una inarrivabile possanza di vita, o gentiluomi italiani dal volto profondo di malinconia serena come il divino Violinista di Raffaello, o dal volto imperioso e crudele come quello di Cesare Borgia, ritratti di Leonardo e ritratti di Tiziano, ritratti di Paolo Veronese e di Raffaello, chi, chi mai resisterà al fluido di vita che emana da voi, mentre, tutte le altre parvenze di arte sembrano cosa morta? È bastato l’ambiguo vostro sorriso, Monna Lisa del Giocondo, a far sognare, da centinaia di anni, chiunque senta che il più grande dei misteri sia sempre l’anima umana, e il solo bizzarro specchio di tanto arcano sia il volto dell’uomo!
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Così, di nuovo, l’arte della pittura, dove si è fatta più pensosa e più ardente, dove ha più sentito la sottil febbre di voler penetrare in fondo al nero lago del cuore, quest’arte ritorna a chiedere al viso umano tutte le sue espressioni, ritorna a chiedere qualche lembo di verità lieta o dolente, qualche brano di verità straziante o torbida, per propalarla dalle tele moderne. Nei paesi nordici ove la immaginazione ha una intensità anche più energica, come nei paesi meridionali ove la vita tutta si esteriorizza in mille lampi e in mille riflessi, quest’arte del ritratto, egualmente e diversamente vince e avvince il pittore e le esposizioni ne acquistano un’attrazione più suggestiva. Noi non sappiamo, è vero, chi sono queste donne rappresentate in tutte le pose, chiuse in vesti oscure e sobrie o sfolgoreggianti nelle chiare vesti da festa, ma vediamo sfilare, innanzi a noi dei volti muliebri ove, volta a volta, vive un pensiero profondo, fra ciglio e ciglio, ove le labbra suggellate si sono serrate, ancor floride di giovinezza e di bellezza, si sono serrate ai baci, ai sorrisi, desiderose del più invincibile silenzio, ove la tenuità delle linee dice la delicatezza del cuore, e la trasparenza della carnagione dice la squisita sensibilità. Chi sono queste donne di Svezia, d’Inghilterra, di Francia, d’Italia, in loro attitudini differenti, che il catalogo dell’esposizione di Venezia indica, talvolta, con una sola iniziale, o con un nomignolo curioso, chi sono queste donne bionde come l’aurora eppure fini e fragili, destinate alla morte, presto, chi sono queste donne dalle capigliature nere che le covrono di un’ombra fosca, ove i loro occhi bruciano di passione e di disperazione? Ritratti! Esistono, innanzi al mare gelido e tempestoso del nord, queste donne dagli occhi verde chiaro, cristallini, che meditano, forse, la ribellione alla vita: esistono, fra i grandi alberi fronzuti, fra i fiori stupendi dei parchi d’Inghilterra, queste bellissime ladies, stringenti al seno un figliuoletto di una bellezza celestiale: esistono, nei loro salotti elegantissimi, queste snelle francesi, dal viso minuto e gentile, dagli occhi così azzurri che sembrano di violetta, dalla persona sinuosa, flessuosa, incantevole persona, come nessun’altra mai: esistono, nei grandi palazzi italiani, queste italiane dai volti singolarmente mobili, ove il mistero dell’anima si fa anche più significante, dai corpi sontuosi nella loro espansione o consunti da una fiamma interna. Ritratti! Ci chiamano questi volti di donna, di uomini, da tutte le pareti della esposizione di Venezia, ci chiamano questi volti dei paesi più lontani, ove non andremo giammai, questi volti di persone che mai abbiamo visto, che mai, forse, vedremo e che pure vivono e sentono e patiscono e fanno patire: ci chiamano, con le lusinghe di un’arte pittorica ora minuziosa e fredda e pure efficace, come era quella di Albert Durer, ora con una vaporosità di fantasmi più che di persone, la vaporosità ove ogni artista ama di mettere le figure che dipinge, anche dalla realtà: ci chiamano, con la loro umanità multanime, umanità di regioni sconosciute, di ambienti sconosciuti, di cose sconosciute, con un’umanità, pertanto, eguale alla nostra, nelle nostre migliori manifestazioni di amore e di dolore. Potenza della vita! Basta un viso esangue di donna vestita di nero, stringente al seno con le mani terree un mazzolino di fiori, mentre ardono le labbra di corallo, mentre ardono gli occhi di un torbido fuoco, basta un simile ritratto per guarire il nostro spirito dalla stanchezza che danno le opere di arte, che a nulla rispondono di noi, dentro di noi! Potenza della vita! Basta un volto di uomo, dalla fronte bianca come la luna, dagli occhi limpidi e sereni, dal corpo snello, dalla fine carnagione ove corre un sangue generoso, per ridarvi il senso della beltà maschile, perduto innanzi a tante figure meschine e goffe, per dirvi che, lontano, sotto un boschetto di abeti, innanzi alle nevi eterne, vi è quest’uomo ove son riunite tutte le grazie virili e che un artista volle farne il ritratto! Potenza della vita! Ognuno di questi ritratti, anche se il pittore non giunse a darne tutto ciò ch’essi sono stati, tutto ciò ch’essi sono, nella forma loro spirituale e terrena, ognuno di questi volti umani dice una storia, dice una piccola o una grande storia, dice una vera o falsa storia, una parte, una piccola parte della della storia umana: e ognuno di essi, così, s’impadronisce del nostro pensiero e del nostro sogno!
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Così, se altro non vi fosse, nella esposizione di arte moderna, a Venezia, questo ritorno dell’arte, sempre più forte, alla rappresentazione del volto umano, questa testimonianza di una corrente che va sempre più verso il palpito della realtà e, insieme verso il fremito dell’anima manifestato in un sorriso, in una lacrima, sovra un viso di persona viva, questa gran corrente basterebbe a chiamare tutti gli spiriti pensosi e tutti i cuori ansiosi. La energia superba dei ritratti di Carolus Duran, la forza efficace di quelli di Albert Besnard, la grazia delicata e fresca di quelli di Raffaelli, la grazia un po’ secca di Antonio de la Gandara, formano il fascino della sala francese: i ritratti possenti di verità, di realtà di Giacomo Grosso, quelli eleganti di Conconi, quelli così nobili, di Milesi e qualche altro, dicono che l’Italia sente anche essa, comincia a sentire la grande corrente verso il volto umano. Ma chi ridirà, nella sala inglese, in quella Inghilterra così grande, nel passato, dei ritratti del suo Lawrence, del suo Reynolds, del suo Gainsborough, chi ridirà la forza e la poesia di Chou bleu, un delizioso ritratto di donna, di Lavery? Chi ridirà la forza e la poesia, insieme, dei cinque ritratti di John Sargent, il più grande mago, di questa esposizione, John Sargent, questi ritratti mirabili e ammirabili, di cui quello di lady Warwick è il conforto della nostra fantasia e quella di lord Ribblesdale è un poema di vita? Fluttuano, innanzi agli occhi della mente, questi ritratti del grande pittore e sono inobliabili: ed è inobliabile quel ritratto del pittore francese Blanche, ritratto che porta il nome di Voyageuse, ma è un ritratto, in vero, di donna non più giovine, dalla bellezza che si sfiora sotto i veli disciolti del suo cappello, col suo mantello disciolto, posante, così, piena di una tristezza inconsolabile, il ritratto di una viaggiatrice, che va, va, senza meta, non si sa dove, ed ella non lo sa, ella va, per andare, così, per vivere, giacchè nulla ella cerca, più, di quello che ha perduto, giacchè sa di nulla ritrovare.