< Lettere d'una viaggiatrice
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Nell'alma Roma Dans Venise la rouge

L’ANIMA ANTICA

Firenze, giugno......


Una cosa che ho sempre singolarmente rimpianta, fra tante altre curiose, è di non aver avuto venticinque anni quando ne avevo otto o nove, è di essere stata una bimba forte, gioconda e tumultuosa, dai giuochi violenti e un poco stupidi, dalla mentalità appena sufficiente, invece che una creatura pensante e veggente nel più florido germoglio della sua anima, quando, in Firenze, per un breve spazio di tempo, fu, per stranezza di casi, trasportata la capitale di Italia. Immaginate un poco, voi, mia diletta amica lontana, voi che avete fatto della vostra vita interiore un segreto miracolo di misura e di armonia, fatica spirituale anche più bella e più laudabile che di aver prodotto un capolavoro in arte, immaginate che doveva esser di fantasticamente squilibrata, di offensivamente contradittoria, di grottesca, infine, diciamo la parola, questa sovrapposizione tutta moderna, nella sua più banale e più arida forma di modernità, sulla bellezza immutabile di Firenze! In una reggia ove era ed è impossibile non rammentare i fasti sensuali e artistici dei maggiori principi, che fecero a Firenze una vita di gioia estetica e di voluttà, un re di robusta, semplice e leale razza nordica, che aveva conquistato la sua corona, sempre più ricca di dominio e di possanza, per volontà misteriosa di Dio e per valore impetuoso e alto del carattere, che aveva conosciuto il rigore e la freddezza disciplinare di una piccola corte, che aveva temprato a ciò il suo spirito, che aveva amato la guerra come un amator passionato e corrisposto e che era stato, ogni giorno, pronto a mettere la sua vita al servizio di un nobile e generoso ideale di conquista, conquista di libertà a un popolo, di gloria alla sua Casa! Quale indicibile contrasto fra il Re Galantuomo e Lorenzo dei Medici! Più oltre, pensate voi degli ufficii prefettizii, degli ufficii municipali, delle Intendenze di Finanza, delle Direzioni di Lotto Pubblico, delle direzioni di Pubblica Sicurezza, così, d’un tratto, brutalmente trapiantate in quei palazzi che videro, e videro veramente, e non è un sogno che lo videro, Dante Alighieri sporgersi da un verone, discendere da una scalea, e vivere, insomma, vivere questo Poeta, che pare fatto della essenza fluidica onde sono fatti i fantasmi? Pensate voi che nelle vie, nelle case, sui ponti, sotto gli archi ove cento figure diverse sono apparse e tutte grandi, e tutte vere, e tutte più grandi del vero, da Farinata degli Uberti a Mosca dei Lamberti, da Giovanni Boccacci a Guido Cavalcanti, da Fra Filippo Lippi a Frate Angelico, dal Savonarola a Lorenzino dei Medici, da Buondelmonte a Michelangelo, si agitasse una nerissima folla d’impiegati del catasto, di brigadieri di finanza e di uscieri dei ministeri?

Pensate voi che nel paese ove le più arcane figure di donna, tutte impregnate di una bellezza e di una poesia indicibile, da Beatrice Portinari a Giovanna Tornabuoni, da Ginevra degli Amieri a Gemma Donati, dalle fanciulle di Casa Amidei a Fiammetta, da Bianca Cappello a Luisa Strozzi, pensate voi a una folla di mogli e di figliuole di funzionarii, folla venuta da tutte le parti d’Italia, folla dal contrasto stridente, dalla stonatura, ahimè, irreparabile! Ah che voi ed io, nella più ridente età, salutavamo il sole e i fiori e il sorriso ineffabile materno, allora, e nulla vedemmo, di tutto questo, ma quanto dovette essere stupefaciente, tale spettacolo e come ognuno dovette trovarsi in una grave pena morale e fisica, e come ognuno, dal sovrano all’ultimo spazzino di ministero, dovette lasciare volentieri, dopo tre anni, quella dimora di antica bellezza immutabile, irriducibile che è Firenze, bellezza di cui è così difficile conservare nello spirito delle traccie profonde ed efficaci, bellezza su cui è impossibile ad essere umano imprimere, oramai, più, nessuna traccia!



Perchè vi parlo io di questo antico ricordo, che non è neppure personale, che fu ombra fugace, di cui neanche i vecchi testimoni oculari, si rammentano più, di cui tutte le giovani generazioni, anche quelle fiorentine, quasi non sanno? Perchè invoco un anacronismo che, in fondo, offese per ben poco tempo la vita italiana, che trovò tutti i più cortesi temperamenti, da un lato nella grande bonomia di chi regnava sulla Italia e giungeva dai paesi freddi tagliati a vie rettangolari, e dall’altro lato nella natìa gentilezza toscana? Che importa più, questo. Ebbene, importa! Esso serve a chiarire il profondo dissidio che rinasce, ogni giorno, fra gli umili pellegrini ricercatori d’impressioni di beltà e di arte, recantisi a Firenze col cuore palpitante di desiderio estetico e di desiderio sentimentale e fra Firenze istessa. O delusione grande per chi vi si reca con un’anima tutta nuova, ove nessuna eredità di gusto, d’inclinazione, di segrete influenze può manifestarsi, ove nessuna sovrapposizione di studii, di cultura può tener luogo di più intime correnti spirituali! L’anima muova in cui nè gli atavismi estetici agiscono, nella sua più nascosta essenza, nè i dettami che sorgono dai libri e dalle lunghe discipline operano, si trova, nel purissimo ambiente d’arte e di storia fiorentina, in uno stato di ottusità che la rattrista o che la irrita. Essa non raccoglie che vaghe e confuse espressioni di grazia e di forza, espressioni che aleggiano, incerte, nei musei, nelle chiese, nelle vie, nei palazzi, che non si legano a un filo saldo nella memoria e nella fantasia, che non sono parte e vita di vita, che, infine, presto svaniscono, lasciando l’anima nuova, vuota e dolente: dolente talvolta contro sè stessa, perchè si sente incapace di afferrare, di comprendere, di gustare qualche cosa che è eterno, come bellezza, dolente talvolta contro Firenze istessa che essa rinnega, di cui rinnega il fascino, posto che essa non era capace di sentirlo. Ah che noi ne abbiamo udite, di queste parole sacrileghe, di viaggiatori, di viaggiatrici che, pure, non erano grossolani touristes, che, pure, avevano consumato tutto il loro sforzo per ammirare, per commuoversi, e che nell’ira dell’impotenza, accusavano di incapacità a piacere, a sedurre, a trascinare, Firenze istessa! Sacrileghi, sì, perchè non abituati a quella glaciale e rigida analisi spirituale che ogni anima deve fare, di sè stessa, nelle crisi d’indifferenza: sacrileghi, sì, perchè è meglio dubitare di questo incerto, ambiguo e fallace spirito nostro, che negare la verità che il tempo e gli spiriti securi, consacrarono!



Ma vuol dire, dunque, che bisogna visitare Firenze con un’anima antica? Vuol dire, dunque, che bisogna averla, quest’anima antica, o formarsela? Bisogna per accostarsi a questo sacro altare ove, in un mistico coro, si sono fusi tutti gli inni del pensiero politico, del pensiero artistico italiano, essere un sacerdote o, almeno, un neofita ardente di questo culto, e solo allora ricevere il beneficio altissimo di una comunione, capace di dare una ebbrezza divina? Bisogna, forse, aver compreso Firenze, fin dalla giovinezza più fervida, averla compresa nei suoi poeti e nei suoi pittori varii, diversi, multanimi, averla misurata nei suoi grandi uomini politici, dal torvo e possente Girolamo Savonarola al terribile solitario di san Casciano Niccolò Macchiavelli, averla ammirata nella vastità del suo lavoro e delle sue ricchezze, nella saviezza e nella felicità delle sue leggi, ammirata, persino, nella sua durezza e nella crudeltà dei partiti trionfanti e furenti di trionfo contro l’altra parte vinta, bisogna averla amata, amata, sì, nelle memorie più floride, per la sua duplice bellezza che le venne da Dio e che le venne dagli uomini, cioè nelle opere imperiture e nella incantevole seduzione degli orti, dei giardini, dei parchi e delle campagne? Bisogna, forse, prima di giungere oltre le sue porte antiche, se non si nacque e si crebbe con un’anima antica, formarsela per uno sforzo della fantasia, per uno sforzo dell’intelletto, per una elevazione miracolosa, per una esaltazione di ogni energia intellettuale? Ciò che non si ebbe dal temperamento, ciò che non si ebbe come bizzarro dono di nascita, si domanderà a una coltivazione forzata, rapida, imperiosa e soggiogante? Sì, tale miracolo interiore anche si può fare. Si può entrare in Firenze, avendo cancellato, almeno per un certo tempo, tutte le forme moderne della propria vita segreta, ed essendosi creato uno stato d’animo, capace di tutto intendere e di tutto commuoversi. In un sogno, si può vivere a Firenze, pensando ancora di veder passare sul Ponte Vecchio, i contadini e le contadine di Toscana, dai larghi volti calmi che il Masaccio amava, accanto ai gentiluomini riccamente vestiti di velluto per piacere alle loro donne, ma custoditi da maglie d’acciaio il petto e il cuore, contro i colpi dei loro nemici: in un sogno, in qualche piccola via molto vecchia e molto taciturna, si può vedere, con la potenza della immaginazione, apparire una di quelle leggiadre figure muliebri che furono nel tempo, oggetto di amor gentile, di amor brutale e, forse, oggetto di morte; in un sogno, in un’ora mattinale, nelle chiese sonore e deserte, si può evocare, fremente, innanzi a sè, il primissimo idillio di Beatrice e di Dante, quello che unì, per sempre, nel tempo, in un casto nodo, la fede e l’amore, quello che dette, per sempre, all’amore italiano, questo carattere religioso che mai più perderà; in un sogno, levando gli occhi a un’antica finestra di un palazzo ignoto, in una ignota strada, si può rivedere la pallida figura di Colei, della Ignota che ebbe compassione di Dante dolente, e che egli amò, per la sua pietà, lasciando allo amore, in eredità, per sempre, questa radice, così salda, così invincibile, la pietà! Tutto in un sogno, le figure più accentuate di passione, di dolore, di amore, di estasi; tutte in un sogno, le forme potenti di un pensiero grande, tramandato d’uomo in uomo, vittorioso o vinto, di avvenimento in avvenimento. Ma, in verità, il sogno è breve; di un colpo, la visione scompare; di un colpo, voi vi ritrovate freddo, arido, vuoto, in una strada di Firenze, innanzi alle lente acque del suo fiume, innanzi al verone di un edifizio, sotto gli archi di un portico; nulla più ferve, nulla più freme, nulla più palpita, in voi; arido, arido come una pietra è il vostro spirito, stanco, ed esausto. Ah che nulla è più raro che avere, in dono un’anima antica: e che nulla è più fugace del miracolo, per cui un’anima muta, un istante, la sua essenza!

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