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LEZIONE II.
Della lingua italiana tanto storicamente, che letterariamente.
Abbiamo detto che la letteratura è annessa alla lingua: sviluppiamo questo principio. Ogni nazione ha una lingua sua propria, per mezzo di cui rappresenta i suoi pensieri, e quindi i pensieri sono più o meno chiaramente espressi, a ragione del valore della parola. Ond’è di necessità lo stabilire esattamente questo valore, che consiste come si è già esposto nel significato primitivo, nel conflato delle idee accessorie, e nel suono meccanico che ora è di valore assoluto, ora relativo. Quindi dalla combinazione delle voci ogni lingua riceve tempra, armonia, ed organismo tutto suo proprio. Né alla grammatica è sempre dato di decidere su questo punto, ma più spesso al consenso de’ grandi scrittori ed alla natura della lingua medesima. Trattasi pertanto di conoscere il significato primitivo, e la fisonomia della lingua. Lasciamo le indagini intorno alle origini delle lingue a chi sa meglio di noi ragionare; giacchè appena mancano i fatti, e l’analogia è intermedia, noi useremo di arrestarci. Giudichiamo puttosto come gli autori l’hanno usata.
Noi siamo italiani, onde osserveremo la nostra lingua nella sua origine, e ne’ suoi andamenti. Non può comprendersi come la lingua italiana non provenga dalla latina; perchè anche volendola formata dal dialetto Siciliano o Provenzale, si conferma lo stesso, provenendo questi dialetti dalla lingua latina.
Ora notiamo due principali differenze nella lingua italiana confrontata colla latina. La prima consiste nelle terminazioni, la seconda negli articoli.
Ognuno sa che la M la S la R la T erano il termine più generale delle parole latine, come può osservarsi, a cagione di esempio, nel primo periodo di Tacito. Noi in vece non finiamo mai con una consonante; e se leggesi talvolta (avvertasi che qui parlasi della prosa) scritto, maggior, dolor, amor ecc. per maggiore, amore, dolore ecc., è sempre da riputarsi barbarismo.
Ma in ogni lingua sono sempre due i dialetti, l’uno il plebeo; l’altro il letterario, l’illustre. Il primo non lascia memoria di se, che nella tradizione vocale, ne’ libri dei giureconsulti, ne’ scrittori comici, i primi per necessità, i secondi per satira. Perciò troviamo praestibus bunda; tuus pater bellissimus ecc.; giacchè la plebe romana non parlava come scrissero Cicerone, Orazio, Virgilio ecc., ma un dialetto suo proprio, per cui elidevasi quasi sempre la M e la S, come si può osservare in Plauto, ne’ giureconsulti, e fin nello stesso Lucrezio, che pure ha fama di colto scrittore, e nei frammenti di Lucilio. Questa osservazione si può fare anche nel dialetto lombardo, in cui si dice bell per bello, fam per fame, giust per giusto.
Si perde adunque il vero significato di molte voci nella lingua come è parlata dal popolo. Ma quando le invasioni di Barbari seppelliscono le belle arti, e invadano le biblioteche, la lingua de’ letterati si perde anch’essa; onde non rimane di se che il volgare dialetto, pure guasto dalla modificazione dei secoli, che passano dal barbarismo alla coltura. Ecco lo stato della lingua latina nel X secolo ed undecimo, due secoli e mezzo circa prima di Dante. Da questo venne che nella lingua latina si scrisse allora diversamente da quello che si pronunciasse. I Francesi ne danno pure esempio di questa necessaria modificazione, scrivendo per esempio autrefois,e pronunciando otfoà ec.
Cosi i latini sincoparono Dominus in Donnus, ed in Don, che divenne presso gli Spagnuoli titolo di signoria, particolarmente negli abati. Tralasciata la finale dei vocaboli, diventarono dubbi i casi, ed ecco come nacque la necessità degli articoli, e insieme la completa differenza della italiana colla lingua latina. Da prima però i nostri italiani parlavano e scrivevano latino, finchè per piacere di essere intesi anche dal popolo, stabilirono delle regole nel dialetto volgare, e si decisero di comporre in quello, giudicandolo non indegno di perfezione. In fatti avevano già il vantaggio nelle variate finali dei verbi, che non necessitavano il pronome: e notisi che fra i molti ha pur questo vanto la lingua italiana sulla francese di sottintendere dinanzi alle persone prima e seconda ecc. de’ verbi i pronomi, perchè mentre da noi si dice amo, ami, ama, e amano, si sottintende io, tu, quegli; dove i Francesi scrivendo aime, aimes, aime, aiment, sempre pronunciano ém; sicchè se non vi si aggiunge — je — tu — il — ils, ecc. non si saprebbe da chi venisse l’amore. Valendosi dunque alla meglio i primi letterati italiani delle congiunzioni, e degli articoli, scrissero nella patria lingua: gli articoli però così moltiplicati tolsero alla lingua il natio pregio di pienezza e di rotondità del periodo, di che puossi convincere confrontando, per esempio, la traduzione di Sallustio scritta da Alfieri coll’originale latino. Nei libri di Dante, Petrarca, e Boccaccio stanno i veri fondamenti della lingua italiana. Nel secolo X, l’Italia trovavasi nello stato degli Ateniesi. Si divideva questo nostro suolo in tante repubbliche, ognuna delle quali aveva un dialetto suo proprio; breve però fu la vita di quelle repubbliche da che Federigo I occupò tutta l’Italia. A’ suoi tempi i Provenzali parlavano il dialetto plebeo romano, quindi la loro lingua chiamavasi romana. Allora gl’italiani cominciarono a far uso della propria lingua massime in Napoli come può vedersi per esteso nel risorgimento d’Italia dopo il mille, di Bettinelli. Da quel primo modo di parlare trasse Dante la sua lingua, che poi si elevò e propagò in tutta Italia, e fissò la sua sede in Toscana. Ma le altre parti dell’Italia servivano ancora sotto il giogo della tirannia e della superstizione, quindi taceano gli oratori, limitata la letteratura a leggi scritte, teologia, e cronache.
I Geni si occupavano nelle speculazioni di commercio, o venivano impiegati nelle corti alle cabale de’ gabinetti. Così la lingua italiana non poteva divenire letteraria, e i begli ingegni dormivano, affermando quel detto di Omero: Che Giove non concesse allo schiavo di pensare.
I soli Fiorentini nel secolo XIII redenti da Rodolfo I imperatore si costituirono in repubblica, e per i primi scacciarono i frati fin dai pulpiti. Allora, nel silenzio e nel timore universale, Boccaccio mise in pieno lume la ipocrisia; e gli oratori e i poeti e gli storici fiorirono in seguito liberamente. Ecco come nacquero originali le lettere fra noi. Bisogna per tanto fermare questa lingua nello stato in cui trovasi sotto quei tre principi dell’italiana favella, Dante, Petrarca e Boccaccio. I vocabolari sono depositari delle voci, ma dopo, i vocabolari, e le voci crescono, perchè crescono le idee, così pure dicasi delle regole grammaticali. Ciò che più necessita di guardarsi nelle lingue è che le voci insolite e massime straniere diventino appena rare volte usate e ne’ casi di vera necessità. Altre regole pur necessarie nell’uso di una lingua sono:
I La elezione propria dei vocaboli per se stessi destinati dalla natura della mente umana unicamente a certe idee, perché tolta l’analogia tra il vocabolo e la idea che vuolsi esprimere è pur tolta la chiarezza della espressione.
II La perfetta aderenza nella lingua che le fu madre.
III E finalmente la naturale modificazione che richiede la lingua pel suo proprio carattere, onde si renda chiara ed elegante. Cominciamo da Dante giungendo fino a’ nostri tempi1.
- ↑ 1806 epoca intorno alla quale diceva il Foscolo queste Lezioni in Pavia. Veggasi il § I. de’ Cenni sulla vita e le opere di lui nel presente libro.