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Non credo, per aver scritto gli Epigrammi e le Satire raccolte nel presente volume, di aver commesso una cattiva azione. Ho espresso con schiettezza le mie idee; ho riso di ciò che a me pareva risibile; ho sfogato le mie stizze, e ciò mi ha fatto bene.
Debbo però convenire di aver obbedito ad una istigazione diabolica, allorquando, in un accesso di volgare cupidigia, ho accordato ad un editore la permissione di scroccare ai curiosi la somma di due lire per l’acquisto di un libro destituito di ogni pregio letterario, e assai pericoloso per chi ci tiene alla quiete ed alla salvezza dell’anima.
Dirò, a disgravio di coscienza, che appena consegnato il manoscritto, non risparmiai preghiere nè lacrime per impedirne la pubblicazione. L’editore fu inesorabile. La sola concessione che mi venne fatta, fu quella di affiggere al frontispizio il titolo di Libro proibito, con facoltà di deplorare, in poche righe di prefazione, l’imprudenza peccaminosa di chi osasse, malgrado il divieto, spinger l’occhio dentro le pagine.
Io compio dunque uno degli atti più ripugnanti all’orgoglio di uno scrittore; io grido con tutta l’enfasi de’ miei rimorsi: Non leggete!
Ripeto che in questo libro vi è nulla che possa allettare le persone educate alla buona letteratura. Figuratevi! Un libro di versi senza un raggio di poesia. — E quali versi! Degli endecasillabi, dei settenarii, degli alessandrini, ecc., ecc., foggiati al vecchio stampo, servilmente ligi ai dettati di una prosodia che ha fatto il suo tempo, e incappucciati, per giunta, di quella grottesca majuscola, che fu il massimo obbrobrio di tutti i poemi apparsi in Italia da Dante a Manzoni.
Non vi parlerò della lingua e dello stile. Immaginate quanto si può commettere di più avverso al gusto moderno. Tutta roba da scarto, ciarpami, ferrivecchi, anticaglia. I soliti vocaboli dei soliti dizionari, impastoiati colla sintassi più abusata; infine, la volgarità ributtante di chi presume possa ancora oggidì riuscire accetto, o per lo meno tollerabile, ciò che ha la insolenza di farsi capire.
Ma questo è nulla. Chi dice libro satirico, dice libro immorale. Per sferzare il vizio con effetto, è d’uopo denudarlo; e questo non si può fare senza offendere in molti casi quell’ultima virtù delle persone corrotte, che si chiama il pudore.
Lettore: se tu sei, come non dubito, un libertino consumato da ogni più sozza libidine, dà retta a un buon consiglio: non andar più oltre — getta al fuoco il volumetto e riprendi la via del bordello. Un par tuo non deve guardarsi che dal vizio stampato — è la sola forma di vizio che può farti arrossire.
Ma tu non badi; mi pare anzi di scorgere ne’ tuoi occhietti scintillanti di lussuria, che le mie parole non sortirono altro effetto fuor quello di eccitare ne’ tuoi sensi un più vivo appetito di lettura.
Ti comprendo.
La tua è una pudicizia del miglior genere, la pudicizia di moda. Tu vuoi mordere al frutto proibito, assaporarlo, deliziarti clandestinamente dei sughi solleticanti; e darti poi l’aria di un Sant’Ermolao, affacciandoti alla finestra per gridare allo scandalo, come se alcuno avesse attentato a qualche tua recondita virtù, risparmiata in collegio dal precettore gesuita.
Va pur là, povero illuso! Ma bada che la mia immoralità non è di quella che ha virtù afrodisiaca. È la immoralità preadamitica che chiama le cose col loro nome che ignora le perifrasi vellicanti. Qualche cosa di nudo, di brutalmente nudo ti apparirà nelle mie pagine, ma i turgidi seni e l’altre peccaminose rotondità che io ti avrò messe innanzi, non ti daranno verun solletico ai sensi, e nessuna visione erotica verrà la notte ad agitare il tuo sonno. — Dei seni di stoppa, delle nudità angolose e grottesche, delle turpitudini che fan ridere. — Quale disinganno! Si può dare, per un libertinaccio par tuo, una letteratura più esecrabile? Un ascetico seminarista non ne caverebbe tanto lievito che bastasse al consumo de’ suoi esercizi segreti. Dopo tutto (avverti bene), la barzelletta erotica non occupa un largo posto nel mio libro. Ciò che rende le mie satire diabolicamente pericolose è lo scetticismo di cui sono ammorbate. Scetticismo politico, scetticismo letterario, e — turati ben bene l’orecchio — scetticismo religioso.
Per indurti a bruciare il volumetto, dovrebbe bastarti questa dichiarazione, che nessuna istituzione divina o sociale, nessun sentimento, nessun principio, nessuna autorità è qui rispettata. Ma vi ha di peggio; nè credo esprimermi con una metafora troppo ardita affermando che i miei epigrammi sono una grandine di insulti scaraventata sui cosidetti uomini seri e universalmente stimati da un oberato che non ha più nulla da perdere. Animo! Provati a leggere, ma lagnati poscia di te solo, se allo svolger delle prime pagine, riceverai sul muso qualche grazioso complimento che avrà il sapore di una ceffata.
Dimmi un po’: qual gusto puoi tu riprometterti dal sentirti cantare sulla faccia che in fatto di politica, per esempio, tu la pensi come un boricco; che il tuo liberalismo è una grulleria; che i tuoi grandi principi, le tue incrollabili convinzioni, sono una vacuità compassionevole?
Supponiamo. Uno de’ tuoi maggiori vanti è quello di chiamarti patriota. Se qualcuno pretendesse dimostrarti che il tuo patriottismo è un assurdo; che l’orgoglio di patria fu in ogni tempo un fomite di sanguinose discordie o di orrendi massacri; che la pace e il benessere non potranno mai consolidarsi nel mondo, se prima dai dizionari e dalla mente dell’uomo non venga cancellato un tal nome — non ti pare che all’udire od al leggere tali enormità, il tuo sangue darebbe nell’acido e le tue funzioni digestive ne rimarrebbero alterate?
Supponiamo ancora:
Ti credi inviolabile per aver conquistato sul campo di battaglia il titolo di eroe, perchè qualcuno ti ha proclamato martire della patria. In verità, martire ed eroe sono due qualifiche onorevolissime; ma se io ti dicessi che queste non bastano perchè i galantuomini ti accordino senza riserva la loro stima; se aggiungessi che molti prodi e coraggiosi tuoi pari sono degni della galera; potrebbe coglierti una tal sincope da freddarti sul colpo.
Quali sono i tuoi principii politici? — Quand’io ti avrò dato un saggio dei miei, ti sarà forza convenire che fra noi non è possibile verun accordo. Vediamo! Sei tu democratico? — Lo sono anch’io, ma faccio voti perchè in Italia duri ancora, almeno per mezzo secolo, il regime monarchico costituzionale. Questo però non toglie che io reputi il regime costituzionale una ciurmeria non d’altro feconda che d’imbarazzi ai governanti e ai governati. Naturalmente, colla tua santa democrazia sul labbro, ti professi amico del popolo. Il buon popolo l’amo anch’io, ma non potrò mai associarmi a coloro che adulano con tal nome una mandra di pecore, perchè si lascino tosare senza mettere un belato. Non ho ancora capito quali differenze sostanziali esistano fra i consorti, i puri, i destri, i sinistri, gli intransigenti, i radicali, ecc., ecc. Sotto ogni bandiera militano dei bricconi in buon numero; e sono convinto che i radi galantuomi non hanno bisogno, per pensare ed agire rettamente, di inscriversi in una confraternita, la quale, o tosto o tardi, può diventare una camorra.
Da nessuna cosa maggiormente mi guardo che dall’espormi al contagio delle Associazioni. Mi pare che anche in politica il miglior partito sia quello di mantenersi libero pensatore; e tu sai bene, mio buon amico, che pensare liberamente significa veder nero ciò che gli altri vedono bianco, e viceversa.
Non sperare che io sia mai per trattarti con benevolenza e rispetto qualora tu fossi ministro, senatore, deputato, sindaco, prefetto, commendatore, cavaliere, infine, ciò che si suol chiamare un alto personaggio.
Basterà un bricciolo di senso comune per farti capire che non avendo io nè cariche, nè impieghi, nè titoli, sono dalla prepotenza degli istinti naturali condannato ad abborrirti. Dopo questo, come oseresti sperar grazia se tu fossi uno di quei mostruosi prodotti del diritto ereditario che si chiamano capitalisti o possidenti? Ciò che debba attendersi di ire e di contumelie un uomo che vive di rendita da un uomo che vive del far versi, molti tuoi pari mostrano di saperlo tenendosi scrupolosamente discosti dai libri e da chi li fa.
Perchè tu abbia a formarti un concetto preciso de’ miei principii religiosi, questo solo ti dirò, ch’io fui educato in un seminario, vale a dire in un istituto dove non si fabbricano che dei bigotti e degli atei. Mentirei ignobilmente se affermassi di appartenere alla prima categoria. Non mi dichiaro ateo nel senso letterale della parola, ma siccome il mio Dio non assomiglia punto a verun di quei tipi da gran babbau inventati per far paura alla gente, così me lo tengo tutto pel mio esclusivo consumo.
Tu dirai che vi hanno degli atei i quali professano la più sana morale, ed io ne convengo; resta poi a vedere se quello che comunemente vien giudicato sano, non sia in qualche caso il più gran morbo del mondo.
Vi è una sentenza evangelica nella quale sembrano riassunti tutti i principî e i doveri della giustizia umana — Ama il tuo prossimo, nè fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso. Sta bene. Ho sempre provato una grande soddisfazione nell’amare il mio prossimo; ma se questo mio prossimo è un suonatore di bombardone che mi disturba coi boati del suo istrumento il sonno e gli studi, non mi faccio verun scrupolo di mandarlo al diavolo e di esecrarlo cordialmente. Quanto al non fare agli altri ciò che non vorrei fosse fatto a me stesso, non troverei nulla a ridire se un tal precetto fosse rigorosamente osservato da tutti. Ma se alcuno mi lancia al viso una carota, o mi tende un tranello, o in qualsia modo mira a pregiudicarmi nell’onore o nella roba, credo compiere un atto di sana giustizia rendendogli pane per focaccia. Come vedi, la mia morale è ammorbata nella radice; pensa tu quali potranno essere l’albero ed i frutti.
In fatto di letteratura e di musica, tu sei forse uno di quelli che accettano per buona moneta tutto l’orpello delle nuove teorie. Ti vanti progressista, perchè sdegni l’arte schietta dei nostri buoni padri, e vai in estasi per ogni stravaganza generata dalla anemia o dal priapismo degli impotenti. Nemmen su questo ci può essere accordo fra noi.
Non credere che io disconosca le incessanti evoluzioni del pensiero umano. Ammetto che l’arte è soggetta a continue trasformazioni. — Da bravi! grido anch’io! — serviteci del nuovo! Ma badate che quand’uno ha fatto il palato alle pernici ed al barbèra, non gli si può far appetire, a titolo di novità, dei torsi di cavolo fritti, nè dargli a bere del sugo di barbabietole. Se il mio cuoco pretendesse riformare di tal guisa il servizio della mia mensa, pur tenendo conto delle sue buone intenzioni, gli lancierei nella schiena i piatti e le bottiglie.
Le trasformazioni furono spesso un pervertimento che segnò, nella letteratura e nelle arti, il principio della decadenza. Dopo Dante e Bocaccio, ottennero una effimera voga il cavalier Marino e l’abate Chiari; l’Arcadia impecorì tutto un secolo; le fiabe di Carlo Gozzi e i drammi sepolcrali dell’Avelloni soperchiarono per qualche tempo la buona commedia. La storia è là per dimostrare che il barocco, il puerile, il deforme può prendere quandocchessia il sopravvento nello spirito delle nazioni più colte. In tali casi è progressista chi reagisce. Ammirare tutto che si produce di stravagante e di laido per ciò solo che si discosta dall’usato, non è, come si pretende da taluno, incoraggiare il genio a tentare dei nuovi orizzonti; è favorire l’aberrazione, farsi compiici d’uno sfacelo.
Ti ho detto schiettamente come io la pensi in tale materia; a te, ora, l’imaginare quali possano essere i miei giudizî sull’arte che oggidì si va perpetrando in Italia. Questo solo aggiungerò, che ogni qualvolta mi avvien parlare di certi messeri da te probabilmente venerati quali precursori della grande trasformazione, mi vien sulla lingua un bruciore come di fosforo, e vorrei che ogni mia parola si convertisse in uno sbruffo di petrolio.
Ma io comincio ad avvedermi che vado sprecando la mia prosa senza costrutto. Uno spensierato che abbia speso due lire per l’acquisto di un libro, difficilmente si lascia indurre a gettarlo sul fuoco prima di averlo letto. Il proprio denaro ciascuno vuol goderselo; ed io so di molti ghiotti, i quali si assoggettarono a morire di indigestione piuttosto che lasciar sul piatto un bricciolo di vivanda ad un pasto di prezzo fisso.
Tal sia di te. Va pure innanzi, ingolfati nelle turpitudini e negli assurdi, guastati il sangue e il cervello, perdi la salute, getta l’anima al diavolo — buon padrone! Il mio dovere io l’ho compito; non ho più scrupoli nè rimorsi. Però, bada bene. V’è ancora nel mondo un gran numero di persone morigerate e prudenti, le quali stan ferme in questa massima, che comperare un libro sia un atto di rovinosa follia. Non è gente che abborra dal leggere; al contrario, leggon molto, leggon tutto — ben inteso, tutto quello che vien loro donato o prestato. Sono i parassiti della letteratura; il commercio librario non se ne avvantaggia gran fatto, ma se dessi cessassero dal consumo gratuito, l’Italia cadrebbe nell’idiotismo.
Mi preme che queste brave persone, tanto benemerite degli scrittori e degli editori, non sieno trascinate nell’abisso. Vorrai tu essere tanto iniquo da attentare alla loro pace ed al loro benessere? Leggere un libro proibito è una cattiva azione; ma diffonderlo gratuitamente, prestarlo a chi mai non si permetterebbe di leggerlo se ciò avesse a costargli la spesa di un quattrino, sarebbe veramente un obbrobrio.
Tu non vorrai coprirti di una macchia sì vituperevole. Io te ne supplico, pel bene dell’anima tua, per la prosperità non mai crescente delle così dette belle lettere, per le lacrime de’ miei editori. Giurami che a nessuno mai — neanche alle più belle e svenevoli signorine di tua conoscenza — sarai per cedere a prestito il peccaminoso libricciolo. A tal patto, ed anche in considerazione delle due lire che hai spese, io ti assolvo dall’interdetto, e prego Iddio di infonderti quello spirito di tolleranza, che accoppiato al buon senso, paralizza il danno di ogni cattiva lettura.