< Lo astrologo
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Personaggi Atto II

ATTO I.

SCENA I.

Albumazar astrologo, Ronca, Arpione, Gramigna furbi.

Albumazar. O miei cari compagni e commilitoni Ronca, Arpione e Gramigna, che in questo nobilissimo essercizio della busca, cioè far suo quel che è d’altri, cosí egregiamente e cosí valorosamente vi sète portati meco — tu, Ronca, roncheggiando; tu, Arpione, arpizzando; e tu, Gramigna, stendendo le tue radici per tutto e gramignando quanto afferri; — e come novi Seleni — che il giorno attendeva alle cose publiche e la notte scriveva le leggi d’Atene — voi virtuosamente spendendo l’ore, il giorno insidiando alle borse e falsando monete, scritture, processi e polize al banco, e la notte dando la caccia alle cappe e a’ ferraioli, facendo sentinelle per le strade per dare assalti alle porte de’ palazzi e batterie alle botteghe — che sono le nostre sette arti liberali: — come uomini di sottilissimo ingegno e valorosissimi guerrieri sempre sète tornati a casa trionfanti e carichi di spoglie ostili e di trofei de nemici, e ne avete conseguiti grandissimi onori.

Ronca. Ed io ne ho aúto parte degli onori, che fui fatto re di Cartagine, con la corona in testa circondando la cittá a cavallo, con riputazione a suon di trombe, con giubilo de’ figliuoli e con allegrezza e concorso di tutto il popolo, non mancando chi mi scacciava le mosche dalle spalle.

Arpione. Ed io ne sono stato governatore tre volte della Galilea, e con uno scettro di quaranta palmi in mano ho administrato giustizia a quei popoli.

Gramigna. Nè io manco di voi: sarei fatto re della Piecardia, che giocando desiderava danari e mi vennero tre bastoni, ma Rubasco, nostro compagno, per mostrarsi uomo piú valente di me, volse prevenirmi e me li tolse di mano.

Ronca. E come cavalli di buona razza ne portiamo i segni alle spalle, con bolle e patenti espedite a gloria del mestier nostro.

Albumazar. E con la dottrina che vi ho insegnato, avete fatto cosí felici progressi nell’arte, come non dar credito alle parole d’altri ma avere sempre l’occhio alle mani, non attendere quello che si promette, non aver fede né osservar fede né dar fede alle fedi d’altri, avere le bugie piú pronte che le lagrime delle donne, tenerne sempre apparecchiati gli magazzini sotto la lingua; che questi sono i condimenti dell’arte nostra e le mercanzie che tengono aperto il nostro fondaco, ricordandovi che la commoditá è madre della ladreria.

Ronca. Veramente confessiamo, con sí importanti e gloriosi ricordi noi non esser indegni discepoli di un tanto maestro; e per segno, nel tribunale della ladreria non abbiamo mai avuto una sentenzia contra.

Albumazar. Or da cosí onorati principi — se non mentono i segni della físonomia che ne’ vostri fregiati visi si veggono, come uomini della prima bussola, — ne ho fermo proposito che sète per ascendere a gradi piú alti e far piú gran salti e avere carichi su le spalle i maggiori che sian al mondo, ove spero a vedervi giunger presto come meritano le nostre opere.

Ronca. E noi preghiamo i cieli che siate a parte de’ nostri onori; e confessiamo che ne lodate e desiate bene oltre il nostro merito, né possiamo trovar parole cosí degne per ringraziarvi del buon animo e della buona dottrina che abbiamo appresa da voi.

Albumazar. Come è grande iniquitá tacere il merito, cosí è maggiore invidia ristringerlo con brevi giri di parole. Ma io non ho usato con voi questo prologo per inanimarvi all’impresa, perché conosco che avete piú bisogno di freno che di sproni; ma per avisarvi che siamo in Napoli, cittá piena di ladri e furbi, e se in altri luoghi vi nascono, qui vi piovono: però bisogna star in cervello piú del solito.

Gramigna. Se ben tutto il popolo fosse birri, bargelli, manigoldi, e tutta la cittá prigioni, galee, berline e forche, lo faremo star a segno; e doppo la nostra partita vi resterá un seminario de’ pari nostri.

Albumazar. Non aspettava altra risposta da’ vostri animi generosi, che giá vi veggo scolpiti nelle fronti i trofei e trionfi; né restarò defraudato delle gran speranze di voi. Io son per proporvi un partito.

Ronca. Ecci guadagno?

Albumazar. Per altro non m’affatico.

Ronca. Eccoci pronti, o piú pazzi e piú bestie che mai!

Albumazar. Appena giunsi qui in Napoli, che fui richiesto da uno certo Pandolfo, vecchio ricco di danari e mobili di casa, che sta innamorato; che se l’etá gli scema il cervello, l’amor gli lo toglie in tutto. E quello che importa, è che dá credito alla astrologia e alla negromanzia: che si può dire piú? che se fosse uno Salomone, il dar credito a queste sciocchezze bastarebbe a farlo la maggiore bestia del mondo. Mirate fin dove giunge la umana curiositá o per dir meglio asinitá! Or io facendo dell’astrologo che partecipa un poco del negromante, che pizzica dell’alchimista e del far molini, con l’aiuto de’ miei cari compagni spero lasciare memorabili segni della nostra pratica in casa sua, né dubito punto della riuscita.

Ronca. Quei danari e quelle tapezzarie saranno a noi acutissimi incitamenti ad esser piú destri e piú scaltri e piú solleciti che mai.

Albumazar. Giá da’ vostri ladri cenni, furbeschi atti e muti zerghi conosco il pensiero che si ravoglie nel cuore: state attenti a’ miei pronostichi e fateli riuscir veri. Avisatemi di quello che intendete; che, acquistata che avremo la credenza appresso lui, li faremo la casa piú netta e lucida di uno specchio.

Ronca. Attendete a far bene voi la parte vostra, che da noi vedrai effetti che avanzaranno la tua stima.

Albumazar. Eccolo che viene. Arpione, discostati, ascolta ciò che dice e riferiscimelo; Gramigna, trattienti su la porta e vedi narrargli qualche miracolo de’ miei, perché io me ne entro.

SCENA II.

Pandolfo vecchio, Cricca servo, Gramigna.

Pandolfo. Cricca, io vo’ farti consapevole di uno mio secreto: e se le tue manigolderie, che hai usato contro di me fin ora, l’usarai in darmi sodisfazione, ti impadronirai del tuo padrone e mi conoscerai piú amorevole che mai; che mai piú per l’adietro mi è accaduta una simile occasione.

Cricca. A che bisognan tanti proemi? pare come che ora m’aveste a conoscere.

Pandolfo. E perché è gran tempo che ti conosco, per ciò ho usato tanto proemio.

Cricca. Per chi donque mi conoscete?

Pandolfo. Per un grande uomo! Se non fussi un gran furfante e se avessi la coda dietro, saressi un diavolo per un uomo, che vuoi far piú per Eugenio mio figliuolo che per me.

Cricca. E se mi avete in tale stima, non vi fidate donque di me, che io non posso esser altro di quello che io sono.

Pandolfo. Potresti volendo, sta in tuo poter l’essere; e però ti ho detto: — Se sarai cosí prudente e savio come sei manigoldo, e farai per me quello che cerchi fare per mio figliuolo, avrai altra ricompensa da me ora, che non speri col tempo da mio figliuolo. — Però se sarai d’accordo meco e secondarai il mio desiderio, buon per te; che se mi accorgo che mi fai delle tue, guai a te.

Cricca. Eccomi cosí manigoldo come voi dite, per ubidirvi e pormi ad ogni rischio per amor vostro.

Pandolfo. Ma perché dubito che cosí sia in mio favore come tu diventar uomo da bene, vo’ che mi giuri prima.

Cricca. Giuro a... .

Pandolfo. Tu non sai di che giurare, e dici: — Giuro a. —

Cricca. Giuro tutto quello che volete e non volete.

Pandolfo. Poiché sei cosí frettoloso al giurare, sarai piú volontaroso a non osservare.

Cricca. Se ben dovrei pregarvi che non vi fidiate di me, pur per il desiderio che ho di servirvi vi prego che ve ne fidiate.

Pandolfo. Sappi, il mio caro Cricca, che fra i mancamenti della mia vecchiaia il maggior è l’amore... .

Cricca. Che umor di malinconia o di pazzia!

Pandolfo. Non mi interrompere: so che vuoi dire che son vecchio di settant’anni.

Cricca. Questo volevo dirvi.

Pandolfo. (Se son vecchio son tagliato a buona luna, e il legno tagliato a buona luna dura gran tempo gagliardo e non fa tarli: «Il vino vecchio è miglior del nuovo», «Gallina vecchia fa buon brodo», «Lardo vecchio bona minestra».

Cricca. Il fatto sta che voi non sète né lardo né legno né vino né gallina.

Pandolfo. Non sai tu quel proverbio: «Trista quella casa dove non è un vecchio»?

Cricca. Sí, per consiglio, ma non per marito. Vi guastarete lo stomaco.

Pandolfo. Son di buona complessione.

Cricca. Bisogna essere di buono cervello; se non, farete la morte del grillo che muore sul buco.

Pandolfo. La borsa fará parere il vecchio giovane alla donna: le darò danari al doppio.

Cricca. È vero che non la pagherete se non di doppioni.

Pandolfo. Il malanno che ti venga! io vorrei che tu mi alleggerissi e non mi aggravassi i miei guai. Per che ti dissi al principio che tu hai sempre avuto dell’asino.

Cricca. Se ho avuto dell’asino in consigliarvi, da or inanzi avrò del savio nel tacere. A’ padroni bisogna dire che i suoi vizi e mancamenti sieno virtú, se vuoi sperare utile; che facendo il contrario, è molto pericoloso. Vorrei che vi valeste di quei consigli con li quali consigliate gli amici vostri.

Pandolfo. «Sempre fu grand’abondanza di consiglieri e carestia d’aiuti». Vorrei piú tosto che mi escusasti che reprendesti: vo’ aiuto e non consiglio. Se vuoi consigliarmi, ammazzami e finiscila presto: tanto è possibile lasciare questo capriccio quanto me stesso. In somma Artemisia... .

Cricca. Artemisia? proprio erba per i vostri denti!

Pandolfo. «A cavallo vecchio erba tenerella».

Cricca. Ben che lo confessiate che sète cavallo. Che volete donque? che vi sia ruffiano?

Pandolfo. So che a te non si potrebbe fare piú gran piacere che essere richiesto di ruffianeria; ma io ti vo’ per aiutante.

Cricca. Dite su.

Pandolfo. Tu sai che ci convenemmo insieme con Guglielmo, io dargli Sulpizia mia figliuola per moglie, ed egli a me Artemisia sua figliuola, chiedendomi due mesi a fare le nozze, finché andasse e tornasse di Barberia. ...

Cricca. Ed in un’ora non poteva andare e ritornare dalla barberia?

Pandolfo. Come in una ora si va nell’Africa?

Cricca. Io pensava dalla barberia a farsi radere la barba.

Pandolfo. ... Or io passava questo tempo al meglio che poteva con la speranza del suo ritorno, quando ecco nel piú bello delle speranze vien nuova che è sommerso nelle sirti. Quanto dolor n’abbi sentito lo lascio considerare a te.

Cricca. Seguite.

Pandolfo. Non potendo io piú sopportare, la feci chiedere a Lelio suo figliuolo, il qual mi fe’ rispondere che in casa sua non si dilettavano di anticaglie ma di modernaglie, e molte altre parole ingiuriose. Nè a me per tante ingiurie si è raffreddato l’amore, né posso lasciare d’amarla; ma or mi s’appresenta una occasione di conseguire il mio desiderio a dispetto di Lelio. ...

Cricca. L’occasione avrei io caro d’intendere.

Pandolfo. ... È giunto in Napoli un certo todesco indiano di lá della Trabisonda, dalla fin del mondo, astrologo mirabile e negromante; ...

Cricca. Come uno negromante vuole acquistar nome si finge di lontani paesi, come ne’ nostri non vi fussero di simili animalacci.

Pandolfo. ... e chiamasi Albumazzaro metereoscopico. ...

Cricca. Il nome solo bastarebbe a farlo essere appicato senza processo!

Pandolfo. ...Come è solo nella scienza, è cosí solo nel nome. Prima, mi vo’ far indovinar se Guglielmo sia morto o vivo. Se è morto, che lo faccia risuscitare per un giorno, finché conchiuda il mio matrimonio, e poi farlo tornare a morire; ...

Cricca. E voi credete a queste bugie?

Pandolfo. Le credo, arcicredo, stracredo.

Cricca. Non sapete che la negromanzia è refrigerio di quelli miseri che si trovano in qualche strabocchevole desiderio?

Pandolfo. Overo che trasformasse qualche persona in Guglielmo, ...

Cricca. Che non trasformi voi in una bestia!

Pandolfo. ... e che quel facesse le mie nozze. Ma di quanto ti ho detto, non bisogna che lo publichi e bandischi, che mi rovinaresti i disegni, e giocarebbeno poi fra noi de’ sgrognoni senza discrezione e di bastonate straordinarie: e giá te le puoi por nel libro delle ricevute.

Cricca. Vi prometto operarmi in tutto quel poco che posso.

Pandolfo. Ed un poco manco ancora, purché non vogli tradirmi. Or andiam a casa sua.

Cricca. L’ora è tarda: sará meglio andarci domani.

Pandolfo. Il «domani», il «farò» e l’«andarò» sono figli del niente: bisogna andare ora.

Cricca. Or riposano i vecchi.

Pandolfo. L’innamorato non ha riposo mai.

Cricca. Informatevi prima chi sia, che forse sará qualche truffatore.

Pandolfo. Guarda noi dire, che intende quanto si dice di lui e ci fará andare in visibilium.

Cricca. Chi?

Pandolfo. L’astrologo.

Cricca. E che, gli astrologhi sono Orlandi?

Gramigna. (Arpione, va’ a casa e riferisci ad Albumazzaro quanto hai inteso, ché io restarò alla porta).

Cricca. Or andiamo dove volete.

Pandolfo. Ecco la casa: dimanda costui.

Cricca. Costui mi pare da Fuligno.

Pandolfo. Che vuol dir «fuligno»?

Cricca. «Degno di una fune e d’un legno»!

SCENA III.

Gramigna, Pandolfo, Cricca.

Gramigna. Che dimandate voi?

Pandolfo. Sète di casa?

Gramigna. Son servo dell’astrologo divino.

Cricca. Avrá ben bevuto l’astrologo, poiché è di vino.

Gramigna. «Divino», cioè che sa delle stelle, dalli cieli e di cose celestiali, e perché indovina.

Pandolfo. Si potria parlare col vostro indovino?

Gramigna. È ritornato stracco dalla caccia de spiriti e di intelligenze, e n’ha portato piú di cento carafelle piene; e or sta con quadranti, astrolabi e metereoscopi e altri stromenti, osservando la congiunzione de’ pianeti.

Cricca. Dunque i pianeti si congiungono in cielo e s’impregnano? e che cosa partoriscono?

Gramigna. Buoni influssi quando son maschi, cattivi quando son femine.

Cricca. Che flussi: di sangue o di cacaiole?

Pandolfo. Dice «influssi» e non «flussi», bestiaccia! Doppo l’osservazione avremo audienza noi?

Gramigna. Si porrá a tavola a mangiare e bere.

Pandolfo. Che berrá? che mangiará questa mattina?

Gramigna. Una Venere allessa e un Mercurio arrosto.

Pandolfo. Perché Venere prima e poi Mercurio?

Gramigna. È uomo fuor del naturale.

Cricca. Guardisi che non moia d’altro caldo che di sole.

Pandolfo. Mangiando che beve?

Gramigna. Liquore di pianeti, rugiade di stelle fisse, distillazioni di destini, quinte essenzie de fati, sugo di cieli.

Pandolfo. Come li raccoglie? come se li beve?

Gramigna. La notte, quando sta contemplando il cielo, li piovono su la gran barba, ed ei se li succhia e se li beve; l’avanzo si conserva, per quando ha sete, in certe botte grandi cerchiate di zodiachi, coluri equinoziali e orizonti; altri in certe botte mezzane cerchiate di tropici iemali ed estivali; e altri in certi barili cerchiati di cerchi artici e antartici.

Cricca. Di che paese è questo vostro mangiapianeti e cacaflussi?

Gramigna. Di uno paese di Lamagna detto Leccardia.

Pandolfo. Sa egli quando fa la luna nova?

Gramigna. Questa notte sará la luna nova.

Cricca. Che nova? che vecchia? è quella medesima che fu fatta col mondo.

Pandolfo. Quanto abbiamo questo anno di aureo numero?

Cricca. Nè numero aureo né argenteo lo posso mai trovare nella mia borsa.

Pandolfo. Giovane, se la mia non è scortisia di dimandare, narratemi alcuno de’ suoi miracoli.

Gramigna. Dirò cose mirabili di stupore.

Cricca. Purché le vediamo.

Gramigna. Lega le donne con uno incanto...

Cricca. Ed io le so legare con un suono senza canto.

Gramigna. ...che vi seguono dove volete: ...

Cricca. Le lego io una fune al collo e le strascino.

Gramigna. ...dico con due parole che li dice dentro l’orecchie.

Cricca. Io so certe parole, l’una piú potente dell’altra, che se non fanno effetto alla prima, lo fanno alla seconda, e se no, alla terza; che è potentissimo. La prima volta le scongiuro per dieci ducati; se ricusan, per cento; e se pur restie, per mille: e con questo terzo scongiuro fo trottare i monti, non che le donne.

Gramigna. Lega un uomo che non possa usare con la sua moglie.

Cricca. Lo lego ancor io con una fune che non usará con la moglie né con altri.

Gramigna. Fa nascere in un subito in testa ad un uomo un par di corna piú di uno cervo.

Cricca. Ogni donna maritata lo sa fare.

Gramigna. Fa diventare li uomini bestie, asini e becchi, e le donne vacche e scrofe.

Cricca. Ci diventano senza l’arte sua ogni giorno.

Gramigna. Fa pronostici infallibili.

Cricca. Pronostica sempre male che indovini.

Gramigna. Fa un’acqua, che tuffandosi dentro l’uomo s’innamora piú.

Cricca. Ogni acqua fa questo effetto, affogandovisi dentro.

Gramigna. Ti fa buttare da un luogo eminente senza pericolo di romperti le gambe.

Cricca. Il boia lo sa fare meglio di lui: gli butta dalla forca senza pericolo delle gambe.

Pandolfo. Bastano questi. Muoio se non lo vedo: Cricca, batti la porta.

Cricca. Batto. Tic toc.

SCENA IV.

Albumazar, Cricca, Pandolfo, Gramigna.

Albumazar. Chi diavolo batte?

Cricca. Te ne porti in carne e in ossa! Doveva scongiurare ora e aspettava li diavoli, perché dimanda: — Chi diavolo batte? — È Farfarello.

Gramigna. Avete battuto troppo gagliardo, perché li astrologhi sono lunatichi.

Pandolfo. Perché «lunatichi»?

Gramigna. Sempre contemplano e parlano con la luna.

Albumazar. Non sono calato piú presto perché stava parlando con una intelligenza mercuriale.

Pandolfo. Bascio le mani della Vostra Strologheria, padron mio caro.

Albumazar. Bene vivere est laetari! siate venuti in buon’ora, in miglior minuto, in bonissimo secondo, in felicissimo terzo, quarto e quinto, in nomine planetarum, stellarum, signorum et omnium caeli caelorum!

Pandolfo. La stupendissima fama del valor vostro ci chiama: noi siamo venuti per ricevere da voi un favore, e vi prego da quel grande uomo che sète a non mancarmi, e ve ne avrò singolare obligo.

Albumazar. Eccomi pronto alla caritá.

Cricca. Purché non sia pelosa!

Albumazar. Voi desiderate saper d’un certo Guglielmo si sia vivo o morto, il quale vi avea promesso Artemisia sua figlia per sposa, e voi a lui Sulpizia per contracambio, e se ne andò poi in Barberia.

Pandolfo. Me l’avete tolto dalla punta della lingua. Ma che motivi or vedo?

Albumazar. Giá sormontava negli assi e poli de’ cardini celesti e vaneggiava tra gli eccentrici, concentrici ed epicicli: cercava alcuni punti felici per voi, ...

Cricca. Anzi per voi, e siano di spiedi e pontiroli!

Albumazar. ... e se il sole era entrato nel segno del Cancro: ...

Cricca. Il canchero e il fistolo che ti mangi!

Pandolfo. Tu prendi il granchio, Cricca! dice «Cancro» e non «canchero».

Cricca. Il granchio lo prendete voi e il canchero!

Albumazar. ... egli è morto, mortissimo, perché il raggio direttorio è gionto alla casa sesta, ...

Cricca. Dice che vi bisogna far un rottorio dietro la testa, perché purghi li mali umori.

Albumazar. ...e negli luoghi della morte è gionto il suo afelio, ...

Cricca. Poveretto! dice che è morto e fete!

Albumazar. ... e passa dal tropico estivale all’iemale. ...

Cricca. È stropicciato e lo stivale li fa male!

Albumazar. ... e giá la luna scema se ne va alla volta di Capricorno.

Cricca. Guardatevi, padrone, tôr cotal moglie! quando la luna scema è cornuta e va al capricorno, vi minacciano corna: sarete un cornucopia.

Albumazar. Tu sei pazzo e presentuoso; e se non ti emendi, ti farò pentire della tua pazzia e prosunzione!

Pandolfo. Taci, bestia! quei vocabuli sono arabichi e turcheschi.

Cricca. Astrologo, di che ciera ti paro io?

Albumazar. Ho visto mille appicati in vita mia, ma non ho veduto la piú maladetta e scommunicata físonomia e ciera della tua; e se tu fossi un poco piú alto da terra, direi che sei stato appicato giá. Ma se ben mi ricordo, vidi l’altro giorno uno che s’andava scopando per la cittá: o tu sei esso o egli te.

Cricca. S’ho cattiva cera di fuori, dentro ho buono miele.

Albumazar. Cera da far candele: la forca prolongar la potrai ma non scampare! — Ma ditemi: costui è vostro servo?

Pandolfo. Sí bene.

Albumazar. Fate sonare la campana a mortorio.

Pandolfo. Ancor non è morto.

Albumazar. Sará ucciso fra poco e li sará passato il cuore da mille punte. E cosí conoscerai se sono buono o cattivo astrologo; e quando l’avrai scampata, allor schernisci me e la potentissima arte dell’astrologia.

Pandolfo. Padron caro, non mirate costui che è mezzo buffone, e però ha preso con voi questa confidanza. La prego per lo suo valore che non miri la costui pazzia; e rimediate se potete.

SCENA V.

Ronca, Arpione, Cricca, Pandolfo, Albumazar.

Ronca. Ah, traditore, fermati, dove vai?

Arpione. Sarò io cosí assassinato da voi?

Cricca. Ah, di grazia, signor Albumazzaro!

Albumazar. Non te lo dissi io?

Ronca. Non ti lasciarò mai se non ti farò passare il cuor di mille punture.

Arpione. In mezzo la strada, di giorno, assassinio sì grande!

Ronca. Tu non scapperai vivo dalle mie mani.

Arpione. A me questa, eh?

Cricca. Misericordia misericordia!

Ronca. Fuggi quanto vuoi, che noi ti giungeremo, traditoraccio.

Cricca. Oh oh!

Pandolfo. Cricca, che hai che gridi cosí forte?

Cricca. Son morto, non mi date piú, son morto giá!

Pandolfo. Come sei morto se tu parli?

Cricca. Poco ci manca a morire, ci è rimasto un poco di spirito.

Pandolfo. Che hai?

Cricca. Sono trafitto da piú di mille punte di pugnale e di spade: di grazia, mandate per un cerusico!

Pandolfo. Non temer, no.

Cricca. Non vedete che ho piú buchi nel corpo che un crivello? il sangue, le budella, il fegato, il polmone e il cuore sono tutti fuora.

Pandolfo. Alzati, che sei sano.

Cricca. Come sano se ho piú di centomila ferite?

Pandolfo. Ove son le ferite, ove i buchi? ti ho tòcco pur tutto e non ci è nulla.

Cricca. Son tutto una ferita, tutto un buco, ogni cosa che tocchi è ferita o buco, però non troverai nulla.

Pandolfo. Io non tocco né vedo piaga.

Cricca. Pian piano, di grazia, non toccate che mi fate male, non mi fate morire innanzi tempo.

Pandolfo. Io dico che non hai male alcuno.

Cricca. Se pur guarisco non sarò mai piú uomo.

Albumazar. Sei vivo per me. Or alzati, ch’è passato quell’influsso maligno, e guai a te s’io non avessi remediato. Or va’ e schernisci l’arte dell’astrologia!

Cricca. Chiamatemi un medico che mi medichi.

Albumazar. Ti dico che stai bene: alzati su.

Cricca. Se ben pare che stia bene cosí di fuori, di dentro son tutto morto, oh oh!

Pandolfo. Cricca, tu non hai male alcuno.

Cricca. Ancorché parli e mi muova, pur non posso credere che sia vivo. Signor astrologo mio, ti chiedo perdono.

Albumazar. Impara a schernir gli astrologhi!

Pandolfo. Seguiamo, signor Albumazzaro.

Albumazar. E perché la luna, come dicemmo, da Capricorno passa in Acquario e in Pesce, il vostro Guglielmo è morto nell’acque e se l’hanno mangiato i pesci.

Pandolfo. Or io vorrei... .

Albumazar. So meglio indovinare il vostro cuore che voi stesso non sapete. Voi vorreste che lo facessi risuscitare, e che tornasse a casa sua e vi attendesse la promessa, e poi tornasse a morire?

Pandolfo. Questo è il mio desiderio.

Albumazar. «Sed de privatíone ad habitum non datur regressus»: cioè col fiato delle stelle e de’ pianeti far risuscitare un uomo dalle ceneri, oh che stento, oh che manifattura! Ci bisogna una intelligenza planetaria delle grosse, che sono fastidiose e fantastiche, come quella di Giove e del Sole; e queste sorti di spiriti tanto ti servono quanto si pagano bene: e se voglio essere ben servito bisogna che io paghi meglio, senza le molte difficultá che porta seco questa impresa.

Pandolfo. Purché sia sodisfatto del mio desiderio, non guardare a spesa nessuna.

Albumazar. Faremo l’istesso effetto con l’arte prestigiatoria. Terremo una intelligenza di bassa mano, che vuole poca spesa, e con l’aiuto di quella faremo che un vostro servo o amico pigli la forma di Guglielmo, e gli falseggiaremo solamente il sembiante, che non si sappia discernere se il vero sia falso o il falso vero.

Pandolfo. Io vi prego, strapriego, arciprego, o mio negromantissimo astrologo, o mio astrologhissimo negromante, che prendiate di me calda e amorevole protezione; e in ricompensa vi darò questa catena d’oro che ho al collo, che vale scudi cinquecento.

Albumazar. Non lasciarò far ogni cosa per aiutarvi.

Pandolfo. Vi raccomando il corpo e l’anima mia!

Albumazar. Ma fermatevi, che mentre sto ragionando con voi ho visto certe linee nella fronte, e mi pare che tutte le stelle siano congiurate a’ vostri danni e sono corrucciate e incolerite contro di voi. ...

Pandolfo. Oh che dite! son morto! Voi state attonito?

Albumazar. ... E perché le linee son tante colorite che paiono sanguigne, l’effetto sará tra poco: un gran sasso vi caderá sopra il capo, che vi spolpará tutta la carne e l’ossa e se n’andará in vento.

Pandolfo. Cacasangue! questo è altro che amore: il cuore sbatte cosí forte che pare che sia un tamburo. Astrologo, me vobis commendo.

Albumazar. Abbiate pazienza: cosí comanda quel pianeta di cui voi sète preda.

Pandolfo. Misericordia, pietá di me!

Albumazar. Sappi che le stelle e i pianeti sempre guerreggiano fra loro e fanno amicizie e inimicizie, e se stessero in pace per un momento, il mondo ruinarebbe. E come noi potremo opporci al cielo che non disponga delle cose mondane?

Pandolfo. Voi con la vostra sapienza... .

Albumazar. Bene dixisti, ché il sapientissimo Tolomeo egiziano disse: «Sapiens dominabitur astris» . — Gramigna, calami giú quel cappello e talari di Mercurio, fatti sotto ponto di Mercurio ascendente nel suo segno.

Pandolfo. Io non mi partirò tutto oggi da’ vostri piedi.

Albumazar. Eccolo, ponetelo in testa, e tenete in mano questa imagine marziale, impressa quando egli felicissimo ascendeva su l’orizonte nel segno d’Ariete di marzo, di martedí, all’ora prima di Marte, che vi fará libero d’ogni male.

Pandolfo. Accetto volentieri la grazia che mi fate.

Albumazar. Orsú, andate, abbiate l’uomo che volete transformare e tornate a me, che vi renderò pago d’ogni vostro desio.

Pandolfo. Cosí facciamo.

Albumazar. Io intanto col mio stromento iscioterico per via d’azimut e almicantarat cercherò felici ponti per voi.

Pandolfo. Restate in pace!

Albumazar. Andate: che le stelle vi siano propizie e vi riempiano la casa d’influssi benigni, propizi e fortunati!

SCENA VI.

Pandolfo, Cricca.

Pandolfo. Cricca, in somma l’astrologia è una grande arte: mira come subito in vedermi m’indovinò quanto mi stava nel cuore, e come intese quanto dicevi poco innanzi e lo burlavi e non gli volevi credere. Ecco ne hai patito la penitenza, e tristo te se non lo pregavo per la tua vita.

Cricca. Veramente non pensava che fosse astrologo da vero: lo stimava qualche razza di furfante, come se ne trovano tanti che si vantano d’esser astrologhi e ingannano la vil plebe.

Pandolfo. Beato te che sei uscito di periglio, che a me par che d’ora in ora mi cada il mondo in testa! Per tutto oggi non farò questione. Se alcuno mi dirá: — Sei un furfante, — dirò: — Son un furfante e mezzo. — Che importa quella parola? bisogna vivere e fare li fatti suoi.

Cricca. Andiancene presto a casa.

Pandolfo. Vorrei aver un campanil in testa per stare piú sicuro. Oh oh, son morto!

Cricca. O povero padrone, per parecchi giorni non avrai pedochi in testa, che tutti saranno pesti o fuggiti per la paura!

Pandolfo. Dubito che il mio cervello non sia balzato un miglio fuor della testa.

Cricca. Ancorché paia cosí a te, spero che non sia nulla se il medesimo intervenne a me.

Pandolfo. Oimè! che non mi assicuro d’alzarmi.

Cricca. Alzatevi, che vi ha difeso la celata fatta a ponti di stelle.

Pandolfo. Parmi che non abbia male, o salamonissimo arcidottore.

Li suoi pronostichi mi hanno tanto inanimito che m’assicuro d’ogni cosa che mi promette.

Cricca. Andiamo.




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