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ATTO V.
SCENA I.
Cricca, Pandolfo.
Cricca. (Andarò al padrone e li darò la buona nuova; mi sforzerò di fargliela credere, benché sia certo che durerò poca fatica, che egli avrá piú voglia di crederla che io di farglila credere).
Pandolfo. Averci desiderio sapere che ha fatto il vignarolo.
Cricca. (Farò vista di non vederlo e farò vista desiderar di trovarlo per fargliela entrare piú bene). Oimè, che mai si trova quel che si cerca e si incontra sempre chi si ischiva: non posso trovare il mio padrone per dargli cosí buona novella!
Pandolfo. Veggio Cricca; parmi intendere che mi voglia dare una buona novella: l’ho per un prodigio del mio bene.
Cricca. Ho caminato in tanta fretta per trovarlo che appena posso trar il fiato; le scarpe ne hanno fatto la penitenza che sono tutte rotte.
Pandolfo. Lo dice con voce alta, con bocca larga e allegra: segno di cosa allegra. Certo il vignarolo sará stato ricevuto per Guglielmo e mi avrá concesso Artemisia per isposa. Lo vo’ intender meglio: o Cricca, o Cricca!
Cricca. Non è in casa né in piazza né in loco alcuno dove soglia pratticare.
Pandolfo. Cricca, volgeti qua, non mi vedi?
Cricca. Padrone, è tanta l’allegrezza che non vi potea vedere: ho cercato ogni buco per trovarvi.
Pandolfo. Che? sono un granchio o un topo che cerchi per i buchi per trovarmi? Dimmi presto, che buona nuova mi rechi?
Cricca. Vo’ dartela a poco a poco acciò non scemiate per allegrezza. Il vignarolo...
Pandolfo. Che cosa?
Cricca. ... è giá fatto padron della casa; ...
Pandolfo. Oh che allegrezza! parla presto.
Cricca. ... e vi manda a dire...
Pandolfo. Che cosa? non mi far morire.
Cricca. ...che veniate con Eugenio vostro figliuolo, ...
Pandolfo. E poi?
Cricca. ... accioché egli consenta al vostro matrimonio.
Pandolfo. Ben bene! me ne vo ora con Eugenio mio figliuolo.
Cricca. Padrone, voi non mostrate tanta allegrezza quanto io stimava.
Pandolfo. Se ben taccio con la bocca grido con il cuore: l’allegrezza mi ha talmente occupato i sentimenti che non so dove mi sia. Camina, corri, vola!
Cricca. Ho tanto caminato, corso e volato per darvi la buona nuova, che avrei vinto il pallio; ma dove volete che corra, camini e voli?
Pandolfo. Trova Eugenio; e tu, che sai l’umor suo, disponilo che contenti il voler di Guglielmo.
Cricca. Oh come gli amanti son presti a seguir i loro desidèri!
Pandolfo. Su presto, che fai? mena le mani.
Cricca. Bisogna menar i piedi, non le mani.
Pandolfo. Mi sento venir meno.
Cricca. Vi perdete nella felicitá.
Pandolfo. Pensando che ho da incontrarmi con Artemisia io moro.
Cricca. Che fareste se aveste ad affrontarvi con un toro, se avendo ad affrontarvi con una vacca morite?
Pandolfo. Oimè, l’astrologo ha saputo trovare il felice punto per transformare il vignarolo! E perché cosí fedelmente s’è portato meco, lo farò felice per tutto il tempo della sua vita, cosí come io viverò con la mia desiderata Artemisia. Ma ecco il Vignarolo inguglielmato overo Guglielmo invignarolato: se non vi sera alcuno, suo figlio stima che sia suo padre.
SCENA II.
Guglielmo, Pandolfo, Lelio, Eugenio, Artemisia, Sulpizia.
Guglielmo. Sia ben trovato il mio caro Pandolfo!
Pandolfo. E voi benvenuto, mio desideratissimo Guglielmo! Come il medesimo desiderio ha spronato l’uno e l’altro, voi a partire ed io a desiderare il vostro ritorno; cosí la fortuna ave oprato che di nuovo ci rivediamo con sommo contento dell’uno e dell’altro, se ben che voi m’avete fatto aspettare, eh?
Guglielmo. Eh, fratello, ho patito tanti disaggi che volendoli raccontare mi moverei a compassione; ma perché son qua salvo, son pronto e volontaroso adoprarmi ne’ vostri servizi piú che mai.
Pandolfo. Ed io prontissimo ubbidir a tutto quello che mi viene commandato da voi. Ma dove è Eugenio mio figliolo?
Guglielmo. Sará qui fra poco, che l’ho inviato a chiamare. Eccolo che viene.
Eugenio. Voi siate il benvenuto, signor Guglielmo!
Guglielmo. Voi ben trovato, Eugenio, mio caro figliolo! Ma perché siamo qui tutti in pronto, è ben che vengano ancora le nostre figliuole, accioché siano elleno ancor contente di quanto abbiamo a fare.
Pandolfo. Oh come dite benissimo! Eugenio, va’ su e chiama Sulpizia.
Guglielmo. E tu, Lelio, figliol mio, chiama Artemisia.
Pandolfo. (O buon vignarolo, con che bel prologo ha cominciato! Sará maggior l’obligo che avrò all’astrologo, che l’ha trasformato de volto, l’ha megliorato d’intelletto).
Guglielmo. Eccoci qua in pronto.
Lelio. E noi altri pur a tempo.
Guglielmo. Caro Pandolfo e voi carissimi figlioli, volendosi trattar cose di matrimoni, i quali si terminano con la vita, e gli errori che si commettono in quelli sono irremediabili, è ben di ragione che si trattino con il consenso di tutte le parti e che ognuno dica il suo parere libero e aperto, che non si dica doppo il fatto: — Dovea dir cosí, dovea far cosí. ...
Pandolfo. Benissimo, caro Guglielmo.
Guglielmo. ... E però non ho voluto trattare di matrimoni se non in presenza e col consenso di nostri figlioli e figliole, li quali doppo le nostre morti avranno a succedere alle nostre facultadi; accioché doppo le nostre morti non abbino a dire male di noi e maledirci, come veggiamo fare alla maggior parte de’ figlioli quando sentono alcuno disgusto per cagione de’ loro padri. Però voglio che prestino il libero consenso a questa mia sentenza e mi dia ciascuno di voi auttoritá in particolare di poter determinarlo; che altrimente non son per dire parola in questo fatto.
Eugenio, Io per me, signor Guglielmo, vi delibero potestá di determinare di questi matrimoni come vi piace, e starò pazientissimo ad ogni sua sentenza comunque si sia; e cosí afferma Sulpizia mia sorella.
Sulpizia. Io confermo tutto quello che dice mio fratello.
Lelio. Ed io, padre mio caro, come vi son stato ubidientissimo in tutta la vita, cosí vi sarò in questo e in qualsivoglia altra cosa che mi commandarete; e il medesimo vi promette Artemisia mia sorella.
Artemisia. Mi contento di tutto quello di che si contenta mio padre e mio fratello.
Guglielmo. E voi, signor Pandolfo?
Pandolfo. Ed io prima di tutti. E per maggior sicurezza della mia voluntá, sapendo quanto gli animi giovanili siano pronti e leggieri a promettere e poi a pentirsi, vuo’ che le promesse si confermino, che non abbiamo a rampognar poi e a litigare: — Non la intendeva cosí, non mi pensava cosí.
Artemisia. Oh come dice bene!
Lelio. Anzi benissimo!
Pandolfo. Io voglio essere il primo a giurare. E giuro la sentenza, che uscirá dalla bocca vostra, averla sempre per rata e ferma e osservarla in ogni modo.
Eugenio. Ed io ne arcigiuro.
Lelio. Ed io ne stragiuro.
Sulpizia. Io giuro osservare tutto quello mi vien comandato da mio padre.
Artemisia. E vo’ medesimamente osservarlo, piú che se fosse mio padre.
Pandolfo. Orsú, Guglielmo caro, ognun pende dalla vostra bocca, non s’aspetta altro che la vostra sentenza: voi sète il giudice, la ruota e tutto il tribunale, e il vostro decreto sará inappellabile.
Guglielmo. Signor Pandolfo, voi non sète come i giovani, i quali come bestie non mirano piú oltre che cavarsi li loro sensuali appetiti; ma in quella etá che i calori della concupiscenza son giá spenti, né si devono destar con invigorirli con novi incendi di sozzi e disonesti pensieri ma mortificando la concupiscenza. Risvegliatevi da questo amor terreno in cui gran tempo dormito avete, e aprite gli occhi alla luce della veritá; e se non potete con la propria virtú, innamoratevi della gloria che vi solleverá, che la madre della vera gloria è la propria virtú. Raccordatevi de’ vostri maggiori, delle loro grandezze, e cercate d’imitargli con tutti i vostri studi; di vostro padre che fu uno ritratto e una imagine del ben vivere, e con quanti degni e onesti costumi vi ave allevato: e che questa vita è molto indegna della gravitá e prudenza di che avete dato tanto presagio nelli anni giovanili, onde l’onor passato vi dovrebbe spronare a piú alti gradi di onore. ...
Pandolfo. Che ha da fare questa prattica con la sentenza che avete a dare?
Guglielmo. ... E ben sapete che le principali cose che si ricercano nel matrimonio sono le conformitá delle etadi e de’ costumi; né si devono violentare i figliuoli o le figliuole a tôr chi noi vogliamo. Or considerate che conformitá di etade è fra te e mia figliuola, che ella è di sedici anni e tu di ottanta, che vi potrebbe essere due volte nipote. Considerate che diranno le genti, che un gentiluomo pari vostro, ben nato, ornato di saggi fregi di onore e vivuto con tal splendidezza di vita, e poi all’ultima vecchiezza volersi ammogliare: o che siate vecchio rimbambito o che il cervello vada a spasso, e altre ingiurie piú vituperose. Considerate che naturalmente i giovani odiano i vecchi; e che un uomo stracco dal tempo non possa star al martello con una giovanetta, se non per altro, almeno per la disonestá del fatto e per l’esempio, che si dá a’ giovani, di poca modestia. ...
Pandolfo. Finiamola di grazia.
Guglielmo. ... Io vo’ che Artemisia mia figliuola sia moglie di Eugenio vostro figliuolo; e Sulpizia vostra figliuola, avendola prima giudicata degna di me, sia moglie di Lelio mio figliuolo: l’una perché ambedue sono ne’ primi fiori della loro giovanezza, l’altra perché gran tempo fra loro si sono amati modestissimamente, e non facciam cosí gran torto a’ loro onestissimi amori. E voi, signor Pandolfo, abbracciate la pazienza e sposatela! ...
Pandolfo. Vi ringrazio che con tante lodi medicate le ferite che piovono sangue. (Ah, vignarolo traditore, per buon rispetto ritengo le mani e la lingua in presenza di costoro!).
Guglielmo. ... E ricordandovi i tradimenti della prima moglie dovereste abborrir la seconda; che non dican le genti che sète cavallo di dura bocca, che non avendone domata la prima cercate la seconda. So bene che non tantosto sarebbe a casa che ve ne pentireste; onde, avendo a pentirvene, sará meglio che non la togliate. ...
Pandolfo. (Se non ti faccio pentire! presto finiranno queste ventiquattro ore e tornerai quel di prima).
Guglielmo. ... Pandolfo mio caro, siate piú tosto ragionevole che ostinato, e non inquietate voi stesso e gli altri con i vostri sproporzionati amori; e se ritornate in voi stesso, conoscerete che la sentenza data da me è in vostro favore e piú a proposito per voi. Mi raccomando.
Pandolfo. O diavolo, o trenta diavoli, o traditore, o gaglioffo can mastino, se non te ne farò patir la penitenza, possa morir squartato! Me l’hai accoccata: giá il dolore e l’affanno è tanto che mi stringono il cuore che non so come non muoia. O Amor traditore e maladetto, o femine manigolde, o vecchiezza traditora! si è consertato mio figliuolo con Lelio, con Cricca e col vignarolo, l’aranno subornato, e mi hanno aggirato con le loro astuzie e inganni, che tutti si sono rivolti contro di me. Quando mi pensava aver acquistato il premio di una famosa e illustre vittoria, mi trovo essere perditore. O cieli, o stelle, o mondo iniquo, o fortuna disleale! ma perché debbo dolermi del cielo e delle stelle, del mondo e della fortuna, se non di me stesso che son stato ministro del mio male? che una cosa di tanta importanza non dovevo commettere in mano di un furfante, villano, ignorante, traditore. Conosco l’errore quando non ho piú rimedio: non mi è altro restato di conforto che la vendetta. Mi son lasciato burlare, offendere e tradire da chi non è buono offendere e tradire una formica. Queste mie braccia e queste mani mi siano tagliate se non me ne vendicherò! se dovessi morire lo aspettare, il trovarò, il castigherò a mio modo! — Ma ecco che se ne vien il furfante di modo se non avesse fatto nulla.
SCENA III.
Vignarolo, Pandolfo.
Vignarolo. La fortuna mi è stata tutto oggi contraria.
Pandolfo. Ed or piú che mai, manigoldo, gaglioffo, traditore, assassino!
Vignarolo. O misero me e infelice, che volete fare?
Pandolfo. Parte misero e infelice come hai tu fatto me misero e infelice!
Vignarolo. Merito io questa ricompensa da voi?
Pandolfo. Quella ricompensa che hai tu dato a me!
Vignarolo. Deh! non... , deh! non... , per amor... .
Pandolfo. Per amor del diavolo!
Vignarolo. Perché mi fate ingiuria?
Pandolfo. Perché l’hai fatta tu a me: «l’ingiuria che si riceve, è figlia dell’ingiuria che è stata fatta prima». Io ti fo ingiuria non uccidendoti, e per non ingiuriarti ti vo’ uccidere! E questo desiderava io: che niuno si possa tramettere che io non ti tratti come meriti.
Vignarolo. Oimè! oimè!
Pandolfo. Ti dole forsi che non fo quanto meriti?
Vignarolo. Che ti ho fatto io?
Pandolfo. Mi dimandi ancor che mi hai fatto?
Vignarolo. Perché mi volete uccidere?
Pandolfo. Per trarti il cuor dal petto e bevermi il tuo sangue!
Vignarolo. La cagione?
Pandolfo. Il voler renderti la cagione è un voler tramettere tempo per ascoltar le tue scuse: la cagion è che vo’ trarti le budella!
Vignarolo. Volete far esperienza di tutte le vostre forze contra di me?
Pandolfo. Perché non è uomo a cui con tutte le forze non cerchi far il peggio che possa.
Vignarolo. Al vostro fattore?
Pandolfo. Al mio disfattore. Nè con queste parole scamperai la vita, né il pentire né il cercare perdono ha piú luogo appresso me.
Vignarolo. Che vi ho fatto io?
Pandolfo. Pur hai animo di parlar, traditore?
Vignarolo. Che tradimento vi feci io mai?
Pandolfo. Lo nieghi ora, furfante?
Vignarolo. Lo niego, perché non feci mai tradimento.
Pandolfo. Or finge il balordo, perché con far il balordo mi hai sempre ingannato.
Vignarolo. Non fingo il balordo né inganno, né e mio officio né a voi si conviene.
Pandolfo. Or me inganni e burli piú che mai.
Vignarolo. Non vi burlo, né volendo potrei farlo. Parlatemi chiaramente né mi tenete il coltello tanto alla gola.
Pandolfo. Or che diresti se non fosse stato in presenza a’ testimoni?
Vignarolo. E perché vi fûr testimoni, però dico il vero.
Pandolfo. Cosí tradirsi chi si confida nella tua fede?
Vignarolo. Vi son stato fedele in tutto quello che è stato commesso alla mia fede.
Pandolfo. Sei stato fedele a loro, non a me!
Vignarolo. In che vi ho mancato di fede?
Pandolfo. E pur cerchi sapere in che mi sei stato infedele?
Vignarolo. La causa?
Pandolfo. È perduta; e mi hai data contra la sentenza. Che avresti potuto farmi peggio? mi hai fitto il coltello nel cuore, mi hai ucciso; e per sí cattiva sentenza che t’hai fatto scappar di bocca, peggior opre mi scapparanno dalle mani!
Vignarolo. Che «causa», che «sentenza» dite voi?
Pandolfo. Di farmi perdere la mia sposa. E che vo’ far della mia vita senza lei?
Vignarolo. Quanto ho fatto tutto ho fatto per vostra sodisfazione.
Pandolfo. Di quella sodisfazione che tu mi hai dato, te ne pagherò io in castigarti come io fo; e se non ti uccido, è per mancamento di forza, non di volontá.
Vignarolo. Non è stato per mia colpa ma per vostra sorte.
Pandolfo. Quello che è stato per tuo cattivo animo non attribuirlo alla sorte.
Vignarolo. Ho fatto quanto ho saputo; e se avessi piú saputo, piú avrei fatto.
Pandolfo. Sei stato piú tristo che non pensava; hai fatto tanto il balordo meco, solo per ingannarmi: al fine poi la colpa è tutta tua.
Vignarolo. Frena un poco l’ira, che possa dire le mie ragioni.
Pandolfo. Di’ ciò che vuoi.
Vignarolo. Vorrei sapere di che vi dolete di me, se mi son affaticato tutto oggi per vostro bene?
Pandolfo. Perché mi hai tu sentenziato contro in favor d’altri!
Vignarolo. Tacete voi ora: quando io fui giudice o consegnerò che vi avesse dato sentenza contro in favor di altri?
Pandolfo. Taci or tu: «che Artemisia fosse sposata con mio figliuolo, e Sulpizia con Lelio».
Vignarolo. Volete voi che io parli o non parli?
Pandolfo. Vo’ che parli tanto che crepi!
Vignarolo. Però tacete voi.
Pandolfo. Ma taci tu, lassa parlare a me. Tu mi promettesti di entrare in casa di Guglielmo e darmi Artemisia per sposa, e poi la desti ad Eugenio. Tu ne hai fatta una a me, io un’altra a te: siamo patti pagati e cassate le partite.
Vignarolo. Se non tacete voi non ci accordaremo mai.
Pandolfo. Parla con il tuo malanno!
Vignarolo. Ed io vi rispondo che mai fui trasformato in Guglielmo dall’astrologo; e quello con il quale avete parlato è il vero Guglielmo, oggi tornato di Barbarla.
Pandolfo. Oimè, che dici?
Vignarolo. Quanto è passato.
Pandolfo. Dunque, non fosti tu che mi desti la sentenza?
Vignarolo. Non ho detto che mai fui piú di quello che sono ora?
Pandolfo. Se cosí è perdonami, vignarolo mio!
Vignarolo. Cacasangue! dopo avermi pistato due ore, dici: — Perdonami! — Il vostro perdono non mi entra in corpo: è un toglier il dolore?
Pandolfo. Se non vuoi perdonare tu a me, perdonare io a te.
Vignarolo. Il vostro perdono non lo voglio, perché non lo merito.
Pandolfo. Perdonami a me, che lo merito io. Ma dove sono gli argenti e i drappi che ti ha consegnato l’astrologo?
Vignarolo. Che argenti, che drappi?
Pandolfo. Or questo sarebbe un altro diavolo!
Vignarolo. Quando disse che voleva trasformarmi, mi bendò gli occhi; e quando mi tolse la benda, trovai la camera sgombrata.
Pandolfo. Oimè! oimè! oimè!
Vignarolo. Di che piangete?
Pandolfo. Della sposa che ho perduta, delli argenti e della perdita di me stesso!
Vignarolo. A che vi giova il pianto? siate presto acciò l’indugio non vi toglia il rimedio.
Pandolfo. O infelice me piú di quanti uomini sono al mondo! vado a trovar l’astrologo, benché l’impresa è da disperarsi. Tu entra e taci.
Vignarolo. Entro e taccio.
SCENA IV.
Astrologo, Gramigna, Arpione, Ronca.
Astrologo. (Son stato al Cerriglio e non ho trovato l’apparecchio né i miei furbacchi; dubito che non abbino furbacchiato ancor me. Certo che non l’ho fatto da par mio: fidarmi de ladri! Ma eccoli). Voi siate i benvenuti!
Ronca. Dubito che sarete il mal trovato.
Astrologo. Buon giorno, discepoli miei cari, se lo meritate!
Gramigna. Mal giorno e mal anno al nostro caro maestro, che so che lo meritate!
Astrologo. Se non lo meritate, ve lo toglio e non ve lo dono.
Ronca. Noi saremo piú cortesi di te che te lo diamo, e non lo potemo togliere perché l’avemo giá dato.
Astrologo. Che ne è di Sfrattacampagna?
Ronca. Ha rubato la parte sua e sfrattata la campagna.
Astrologo. E la mia parte?
Arpione. Tutti abbiamo fatto il debito nostro: Ronca se l’ha roncheggiata. Gramigna sgramignata ed io arpizzata; e ce andiamo verso levante come uomini di quel paese.
Astrologo. Non me la darete dunque?
Ronca. È fatta commune giá, non può tornarsi piú.
Astrologo. Dubito che me la vogliano fare.
Gramigna. Non bisogna dubitarne: e ve l’abbiamo fatta giá.
Arpione. E tu, che pensavi piantar lo stendardo su la torre di Babilona, restarai piantato per ornamento di una berlina, per trofeo di una forca e per ciambello di corde.
Astrologo. Non mi volete dar dunque la parte mia?
Ronca. Non saressimo ladri se non sapessimo rubbar da te: siamo tuoi discepoli, e tu ci hai addottorati.
Astrologo. E l’amicizia?
Arpione. Che amicizia è tra ladri? par che da mò cominci a conoscerci?
Astrologo. E la fede?
Arpione. Che cosa è fede? la prima cosa che tu ci insegnassi, fu che sbandissimo da noi la fede; né mai l’abbiamo conosciuta che cosa sia.
Astrologo. E la promessa?
Ronca. Se le promesse non si osservano fra uomini da bene, né con tanti scritti, testimoni e instromenti, come cerchi la osservanza della promessa tra ladri?
Astrologo. Mi son affaticato tanto oggi per guadagnare... .
Ronca. Un paro di forche! e non ti paia poco che ti doniamo la vita, che non ti ammazziamo o ti diamo in poter della giustizia.
Astrologo. Vi ringrazio.
Arpione. Non bisogna ringraziarci, se lo facciamo per ordinario.
Astrologo. La vostra sufficienza me lo fa credere; ma voi discepoli non dovreste far questo al vostro maestro.
Ronca. Questa volta i discepoli hanno saputo piú che il maestro: noi giovani t’insegniamo a te che sei vecchio d’anni e d’inganni.
Astrologo. Mi date licenza che vi dica una parola?
Ronca. Dinne cento, che noi siamo piú tuoi che tu del diavolo.
Astrologo. Questa vostra impietá mi fará divenir uomo da bene.
Arpione. Non può essere che tu facci tanto torto alla forca che ti aspetta.
Astrologo. Ah, ciel traditore!
Arpione. A te, che sei astrologo, ti hanno ingannato i cieli.
Astrologo. Ed è il peggio: ingannato da voi.
Arpione. Or te ne avvedi: dovevi pensarci prima.
Astrologo. O Dio, o Dio! anzi, che tardi mi accorgo chi sète voi.
Ronca. Siamo stati tanto tempo teco e non ne hai conosciuti?
Astrologo. Ma io ve ne farò pentire, vi accusarò; e non mi curo esser appiccato per far esser appiccati voi.
Ronca. Abbiamo avuto l’indulto per noi e accusatone te: e avemo testimoniato contro di te di tante furfantarie che la millesima parte basterebbe di farti esser appiccato, squartato e abbruciato. Mille pendono dalle forche che non han fatti tanti malefici come tu; tutti li abbiamo caricati sopra di te.
Astrologo. Ed io posso sopportar tal carico?
Ronca. Lo sopportarai maggiore quando il boia ti caricará sopra le spalle!
Astrologo. A te, a te! E non mi volete dar almeno qualche cosa?
Ronca. Ma, per essere stato nostro maestro, vogliamo farti una caritá, darti tanto che compri un braccio di fune per strangolarti; over ponti la via tra piedi e scampa.
Astrologo. Bisogna pur che io me ne vada con Dio.
Arpione. Se non ti par poco, va’ con il diavolo ancora.
Astrologo. Ricordatevi della burla che mi avete fatto.
Ronca. Ricordatene pur tu a cui si appartiene. Fuggi presto, scampa la forca che ti sta al presente innanzi agli occhi e non la vedi: ogni cosa è birri e pregione e manigoldo per te, e guai a te se non voli!
SCENA V.
Cricca, Pandolfo.
Cricca. (Ma dove trovarò il padrone per dargli questa buona nuova, che l’argento è ricuperato dall’astrologo? Vo’ cercargli la mancia. Ma eccolo, che viene). Padrone, allegrezza allegrezza!
Pandolfo. Le allegrezze non ponno capir in me ripieno di tante calamitá, che la maladetta fortuna mi ha colmato di tante miserie.
Cricca. Non offendete la vostra buona fortuna con queste maledizioni, ma concorrete meco in allegrezza, che col soffio della buona nuova sparirá da voi la cattiva fortuna.
Pandolfo. Lo farò se averò tanto potere. (Certo costui mi portará nuova che si sian ritratti dalla sentenza e non averli concessa Artemisia). Dimmi, che allegrezza è questa?
Cricca. La maggior desiderata da voi.
Pandolfo. Orsú, raccontami tanta allegrezza: forsi si sono mutati di parere e me la vogliono restituire?
Cricca. Vi restituiranno quanto avete perduto.
Pandolfo. La restituiranno?
Cricca. Restituiranno.
Pandolfo. Perché dunque avean negato darmela?
Cricca. Per tersela per loro; ma non è piaciuto la godessero, ed al fin sará pur vostra.
Pandolfo. Quando dunque me la restituiranno?
Cricca. Or ora, quando voi vorrete.
Pandolfo. Perché non andiamo volando? perché trattenermi in parole?
Cricca. Non ve ne trattare se prima non mi promettete la mancia.
Pandolfo. Siati promesso quanto saprai chiedermi, e di straordinario ancora.
Cricca. Voi vedete la mia cappa che ha solamente perduto il pelo, che tutta l’acqua del legno santo e della salsapariglia del Perú non bastaranno a restituircelo.
Pandolfo. Arai cappe, calze e calzoni, e quanto saprai chiedermi.
Cricca. Ma bisogna che vi tratti prima in che modo l’abbi ricuperata.
Pandolfo. Non mi curo del modo: bastami solo che sia mia.
Cricca. Partito che fui da voi, me ne andava per la piazza dell’Olmo, per la via m’incontro in un uomo d’una ciera assai traditora: egli mirava me ed io mirava lui, ed egli pur mirava me. ...
Pandolfo. Che ha da far qui l’allegrezza che vuoi darmi?
-Cricca. Ascolta pure. ... Io mi fermo ed egli si ferma, io fingo di partirmi e lui si ficca dentro una bottega. Passo inanti per conoscere chi sia e veggio una moltitudine ivi dentro. M’accosto piú vicino. Vi veggio un uomo con una notabil barba che lo tenevano legato molte persone, e tutti gridavano: — Birri, birri! ...
Pandolfo. Ed è possibil che questi birri vadano al proposito mio?
Cricca. ... Vengo fuori per trovar altri birri, e per tutto Napoli non posso incontrarne un solo. E quando li fuggo l’incontro per ogni passo. ...
Pandolfo. Lasciamo il ragionar de birri, che ne hai detto a bastanza.
Cricca. ... Non potendo trovar birri, ritorno al luogo e veggio che colui che avea questo, era l’astrologo. ...
Pandolfo. Che astrologo? di che parli tu?
Cricca. Dell’astrologo che ci rubbò li argenti.
Pandolfo. Io stavo col pensiero ad Artemisia e pensava che ragionasse di lei! Che cosa mi volevano restituire?
Cricca. L’argentaria.
Pandolfo. Cancaro mangia te e l’argentaria!
Cricca. Non vi basta l’aver perdute tante robbe; ed è il peggio, della burla che vi è stata fatta: e pur col pensiero ad Artemisia? Or non avete promesso con giuramento darla a vostro figlio?
Pandolfo. Passa inanzi.
Cricca. Io non vo inanti né indietro, che l’inganno è vostro. ...E cosí i drappi e i paramenti e le robbe stan consegnate in poter di un uomo da bene, finché vegnate voi a riconoscerle e riceverle.
Pandolfo. Che si fará dell’astrologo? non bisogna vendicarmene, alterarmene?
Cricca. Disacerbare la vendetta nell’acquisto delle robbe e ricevere in burla la sua forfantaria come l’han presa quasi tutti: ti basta non aver perso nulla, e questa volta aver avuto piú ventura che senno.
Pandolfo. Perdendo quelle, era ruinato del tutto; e poiché la ragion mi ha tolto quel velo dagli occhi che mi rendeva cieco, conosco quanto mal fa colui che è servo de’ suoi appetiti: e conosco veramente piú convenire al mio figlio che a me. Non vo’ piú moglie; e giá bandisco da me tutte le speranze del mondo, e mi restará per penitenza del mio sproporzionato desiderio, che ne arrossirò ogni volta che ne sentirò parlare.
Cricca. Andiamo, padrone, che la tardanza non vi offenda.
Pandolfo. Andiamo presto a ricuperare le robbe e poi attenderemo a’ sponsalizi de’ figli. Tu, licenza costoro.
Cricca. Spettatori, la favola è finita: fate il solito applauso che avete fatto all’altre tre sorelle.
fine del volume secondo.