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CANTO DECIMO
Sorge fra tanto oltre ai terreni alberghi
Co’ crepuscoli al piè la notte amica;
E di mille colori ornati e cinti
Le si sveglian sul capo astri e pianeti.
5Malinconica e muta ella riguarda
Ai rei travagli della terra, e spira
Le brezze ai fiori ed ai mortali il sonno.
Salve, o splendida notte, aerea madre
Di soave quíete, o che ti piaccia
10Covrir d’ombre pietose amor furtivo,
O svelar a’ mortal occhi l’audace
Visíone degli astri e l’universa
Armonia, che ne fura invido il sole.
Dalle cupe foreste, ove si aggira
15Il signor de’ miei canti, io chiamo indarno
La bellezza dei tuoi Soli e le gemme
Dei tuo’ cento diademi: a lui non uno
Splende dei raggi tuoi; sol dentro al petto
Gli arde la luce delle sue speranze.
20In compagnia de’ suoi fantasmi, a pena
Ei dell’ombre s’accorse; e, vòlto il passo
Fuor del dritto sentiero, a una deserta
Riarsa balza d’ogni vita priva
Era intanto venuto. Irte d’intorno,
25Come a guardia del loco orrido e scuro,
Rupi e monti s’ergean squallidi a guisa
Di biancicanti scheletri; fuggía
L’ingrato aspetto e s’ascondea la luna
Fra le nubi correnti, e imprigionato,
30Come chiuso leon che tenti un varco,
Tra l’aspre rocce ruggía rauco il vento.
Ivi l’Eroe si assise. Un’insüeta
Punta di fame gli mordea le parche
Viscere, e dentro al seno arido e stanco
35Una brama di vive acque e d’aperto
Aere e di luce gli serpea. Sgomento
Non però n’ebbe al cor; ma con superbo
Animo accolse la terribil prova,
Poichè gli è grato comportar travagli
40Pari a ogni altro vivente, a cui l’amica
Forza del pane il mortal corpo allena.
Vago di nuovi casi, occhio ei non piega
Ad alíar di lusinghevol sonno,
Ma nel caro pensier volge le prove
45Dei suoi buoni mortali; e traforate
Alpi vagheggia e aperti istmi e volgenti
Per gli abissi del mar parlanti elettri.
Su per l’aduste rocce ode in quel punto
Come un confuso affaccendarsi e rotto
50Fruscío di penne e sibilar, che agguaglia
Suon che mandi uman labbro e noto segno
Di cacciator, quando tra’ folti grani,
Onde mareggia interminato il campo,
Modula il fischio a ravvíar l’amico.
55Ma voci eran d’augelli, a cui concessa
È una strana virtù: fischiano al vento
Siccome uomini veri, e illudon l’alma
Di qualche afflitto pellegrin, che pèrso
Ogni spirto di lena e abbandonato
60Di speranza ogni lume e di salute,
Su l’inospite landa il corpo gitta.
Ben al grido fallace a mala pena
Sul digiun ventre ei talor sorge; all’aura
Tutta la fuggitiva anima intende;
65E forse in quel momento al cor gli torna
Il dolce aere natio, la derelitta
Casa paterna e della madre il pianto.
Sorge, aspetta, ricade, si strascina
Delirando fra’ sassi; a un grido estremo
70Schiude invan l’arse labbra; Adugna e morde
L’avara terra; e il ciel rigido intanto
Sovra il capo di lui splende e sorride.
Così le disperate anime insulta
La beffarda natura!
Al suon fallace
75Sorse l’eroe, nè stette in forse. — Or tutto
Convien, diss’ei, che il mio vigor s’adopri;
Arida e morta è questa valle, e segno
Di salute non ha; vadasi. — E preso
L’aspro sentier, non pria l’orme sostenne,
80Che un ampio fiume e la foresta attinse.
Chiare e sonanti dirompeano l’acque
Fra due tra loro opposti e coronati
Di fosca selva smisurati monti,
Al cui piè si stendea facile e molle
85D’erbe infinite ed odorose il piano.
Piomba il fiume dall’alto, e se tu il miri
Biancheggiar da la lunge entro la pace
Dei radíanti plenilunj, un’ampia
Vela il dirai, che il marinar su’ negri
90Aprici scogli a rasciugar distese;
Ma se più ti fai presso, un fragor cupo
D’immense acque tu senti; al ciel, conversa
In polve minutissima, tu vedi
Balzar la ripercossa onda, e in un velo
95Confonder gli astri ed annebbiar la valle.
Quivi l’eroe non si appressò; ma in parte,
Ove men cupe si schiudean le sponde,
E avean meno di bosco ombre e paure,
La fresca linfa disíando, scese
100Per la lubrica china; insinuossi
Fra’ canniferi greti, e nelle cave
Palme attingendo i prezíosi umori
Ricreò l’arso petto; ambe nell’onda
Con giocondo piacer le braccia infuse,
105E battendo le pure acque, più volte
Ne spruzzò, ristorando, il volto e il crine.
Ma non pria lasciò l’onda, e si ríebbe
Del cammin tanto e dell’ingrata arsura,
Che un vicino il percosse ululo e un lungo
110Scoppio di strida e di commosse voci
Strane, acute, incessanti. Ad improvvisi
Urti crollavan bruscamente i rami
Della prossima selva, e quindi e quinci
Confusamente saltavan strillando
115Le aggredite bertucce. Il piè ritrasse
Dal margo sdrucciolevole, e lo sguardo
Lucifero ficcò nell’ombre: oscuro
Chiudeasi l’aere, se non che due roggi
Punti fendean, come infocati dardi,
120Sinistramente della notte il seno.
Muti muti all’incerto aere procedono
Or cheti e lenti, or saltellanti e rapidi,
Or tra’ cespugli del sentier s’involano,
Or più vicini e più funesti appaiono.
125Sta Lucifero intento; e certo omai
Che insidíosamente a lui si appressa
Il terribil giaguaro (un’omicida
Belva, che a par del tigre agile e grande,
Salta agli alberi in cima e all’onde in mezzo,
130E boschi e fiumi d’ogni strage infesta)
Tenea l’anima accorta in due sospesa:
O che indietro si tragga e si nasconda
Nel contiguo canneto; o su l’aperto
Sentier l’avida belva aspetti al passo.
135Senno miglior questo gli parve; e tutta
Con alato pensier l’alma percorsa
E con subito sguardo il loco intorno,
Alla lotta si accinse. Era in quel punto
Tra’ fitti rami penetrato un vivo
140Raggio di luna. Un aspro, arduo macigno
Ivi a caso giacea: dai circostanti
Gioghi a valle caduto, una regale
Possa parea, cui da’ superbi troni
Una vendetta popolar sconfisse.
145A lui corse l’eroe; con ambe mani
L’afferrò, lo levò: le ferree braccia
Sovra il capo distese; un dietro all’altro
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(pag. 178)
Pontò i validi piedi, e tal si tenne
Il nemico aspettando. Un sordo grido
150Manda la belva, e caccia fuor degli occhi
Sanguinosi baleni: a terra il bianco
Ventre ingordo distende; i fulvi arruffa
Peli del dorso, e di serpente a guisa
Strisciando si divincola. Qual suole
155Paziente pescador, che intento all’amo,
Entro a le trasparenti acque del lago
Vede a un tratto guizzar cefalo o trota,
Quanto più può su’ nereggianti sassi
Fermo, senza respir tiensi; l’avvezza
160Destra, che regge la pieghevol canna,
Serra validamente, e vista appena
Pullular l’onda e tendersi la lenza,
Fuor, con subita stratta, all’aere avverso
Trae, guizzante nell’amo, argenteo il pesce;
165Così tutt’occhi e senza voce o moto
L’astuto eroe la belva ispida aspetta,
Che con feroce voluttade allungasi
Su l’erboso sentier, vibra l’accorto
Sguardo, e sbuffa così che par che rida.
170Ma quand’ei stanco d’aspettar l’assalto
Tentò celere un passo, e scagliar finse
L’elevato macigno, urlò, ritrassesi,
Il corpo agglomerò, sul ventre osceno
Strisciò a ritroso il mostro irto, e qual dardo
175Si vibrò. Mugolare odi all’intorno
La valle ampia e tremare arbori e rupi,
Non però il core dell’eroe: di tutto
Polso ei sostien l’alto macigno; al bieco
Assalitor l’oppone, e contro il petto
180Gliel dà così che lo travolge. A terra
Piomba la belva, e non sì tosto il suolo
Sfiora co ’l dorso, che di pria più fiera
Salta, e si avventa a più mortale assalto.
Sangue ha negli occhi, e sanguinosa bava
185Vomita e sbuffa, e rugghia, e d’ogni verso
Pazzamente si vibra, e senza posa
L’eroe tempesta, e gitta all’aria i morsi.
Scaglia alfin questi il sasso, e tanta è l’ira
Smisurata del cor, che giù d’un crollo
190Rovina anch’ei su la percossa belva.
Or funesta è la lotta: in un sol groppo,
Corpo a corpo avvinghiati e braccia e branche,
Si avviluppan fra l’ombre; echeggia il cielo
Di rauche voci e di ruggiti; a rivi
195Sgorga il sangue su l’erbe; ed essi avvinti
Ferocemente in amplesso di morte
Balzan, piomban, s’avvoltan, si precipitano
Fra le spine, fra’ sassi e le nemiche
Tenebre. All’orlo d’un burron vicino
200Vengon così. Pende sul negro abisso
Una fitta boscaglia, a cui la foga
Dei sonori torrenti ignude lascia
Le nodose radici. Ivi, protette
Dai folti rami, e dal burron difese,
205Godean sede tranquilla e secol d’oro
Una tribù d’amene scimmie. Il novo
Caso le tolse agevolmente ai sonni,
E la lotta avvisando, a salti, a strilli
Facean pazza baldoria; e qual con mano,
210Qual con la coda attorcigliata a un ramo,
Quale a un piè, quale ai fianchi alla vicina,
L’una all’altra atteneansi, e fean pendente
Catena sui pugnanti ospiti, a cui
Or tirano sul capo una selvaggia
215Noce, e svelte risalgono fra’ rami,
Or fin sul dorso a’ combattenti scendono
E li aízzan co’ graffi e con le strida.
Non però si ristanno, o svolgon l’ira
I due che in aspro abbracciamento avvinghiansi
220Presso al burron. Preme l’eroe co ’l dorso
Il ciglion della balza; a lui su ’l petto
Insta la belva: con la bronzea destra
Ei l’abbranca alla gola; al perigliante
Corpo con l’altra fa puntello, e attiensi
225Alle dense radici. E già su ’l volto
Qual d’aperta fornace il vampo ei sente
Delle putide fauci; a caldi sprazzi
Piovegli sui schizzanti occhi e l’acceca
Una bava sanguigna; un rugghiar cupo
230L’assorda; e già dell’arrotate zanne
Contro alle tempie sue crocchian le punte,
Quando tutta con acre urlo chiamando
La rabbia al cor, la forza ai polsi, un lancio
Dà su ’l dorso così, che sorge a un punto
235Libero in piè, mentre da lui travolta
Precipita la belva, e giù nel fondo
Burron piomba rugghiando, e l’aere introna.
Lacero e stanco il vincitor si asside
Su le fresche erbe, appo la sponda. A rivi
240Giù per lo collo gli discorre ai fianchi
Misto al sangue il sudor; corto e sonante
Dal suo petto affannoso esce il respiro;
Un cozzar di confuse opre e di cose
Gli turbina sugli occhi e il cor gl’ingombra;
245Finchè a balzi, a sussulti, e tutto cinto
Di bizzarre faville e ceffi strani
Sopra gli piomba, e al suol l’avvince il sonno.
Come nei procellosi artici mari,
Quando aquilon più li flagella, a stormo
250L’irte díomedèe saltan su’ flutti;
Gavazzano fra’ nembi, e col profondo
Mugghio dell’oceàn mescono il grido:
Vede il nocchier fra le stridenti antenne
Svolazzar le sinistre ali, e maligni
255Spirti le crede, e si raggriccia e agghiada;
In simil guisa dell’eroe dormente
Nel turbato pensiere ispide e immani
Venían fantasme, e gli scoteano i sonni.
Ma come avvien nell’incostante ottobre,
260Mentre un subito nembo apresi e versa
Sopra l’umile vigna acqua e gragnuola,
Fuor delle plaghe occidental si desta
Una provvida brezza; un sorridente
Occhio d’azzurro si dischiude in cima
265Della bruna montagna; a par di dardo
Dall’arruffate nubi esce un diritto
Raggio di Sol, che i sommi arbori indora;
Brillan le foglie susurrando, e tutti
Odoran timo e nepitella i campi;
270Tal fra’ torbidi sogni una leggiadra
Visíone d’amor placidamente
Sorgea nella commossa anima, e il dolce
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(pag. 182)
Lume spandeavi d’una rosea calma.
Come talor nei lucidi cristalli,
275Che ne stanno di contro, una diletta
Forma veggendo, a lei con l’alma in festa
Drittamente corriam, nulla avvisando
La virtù del riflesso; in simil guisa
Entro a un candido sogno avvolta e viva
280Nel pensier del dormente Ebe splendea.
Balzagli il core a tanta vista, e aperte
Le braccia: — Oh! vieni, le dicea, deh! vieni
Su ’l petto mio, dolce alimento e pace
Dei travagliosi giorni miei! S’infiamma,
285Sol ch’io ti guardi, nel mio sen la vita
Delle speranze mie; splendon più vivi
Gli ardimenti del core, e più vicino
Nel mio baldo pensier veggio il tríonfo! —
Co ’l perdono negli occhi ella assentía
290Di sedergli d’accanto. Ei torna ai sogni
Del primo amor.
— Da pochi giorni il sole
Sul mio capo splendea: festa di fiori
Era tutta la terra; e tu, regina
D’ogni candor, mi sorridesti come
295Sorridon l’alme, allor che un’amorosa
Forza le chiama ad apparir negli occhi.
Oh che giorni d’ebbrezza! —
Ella a quei detti
Pensosa e scura divenía.
— Ricordi,
Ei riprendea con sospirosa voce,
300Oh! ricordi quei dì? Facil conquista
Mi parve il ciel, poi che t’amai. Mi svelsi
Crudelmente da te; deserta e chiusa
Nei díafani sonni ti lasciai,
Ma un trono eressi all’amor tuo, che in petto
305Portar vogl’io fin che no ’l ponga in cielo! —
Ella piangea. Qual trepida fiammella,
Che s’assottigli all’apparir del giorno,
A poco a poco si facea più bianca
La pietosa fanciulla, e a poco a poco
310Il mite aspetto e i rosei pepli e gli atti
Trasfigurando, un’orrida assumea
Mostruosa sembianza: ispide e tetre
Di sozza barba ambe le gote; attorti
Di tizzi ardenti e di serpenti i crini,
315E fra’ serpenti, in mezzo al fronte, un torvo
Occhio senza palpèbre immoto e tutto
Fiammeggiante d’intorno. A questa guisa
Sorgea dal suol nera, diritta, immensa,
E un gemer lungo al sorger suo risuona
320E scricchiar d’ossa e maledir. Non ode
L’irto fantasma, e ognor sorge e si spande,
E l’aria ingombra e il cielo ultimo attinge.
Tocca il cielo co ’l capo, e con la negra
Pelosa man, che vasta apresi, afferra
325L’etereo sole, e lo palleggia. Un denso
Nembo di notte si rovescia allora
Sopra la terra derelitta; ingordi
Mille sepolcri si spalancan; passa
Sibilando la Morte; e un fiero echeggia
330Gracchiar di corvi e sghignazzar di Numi.
Così il lungo digiuno e la fatica
D’una ad un’altra visíon trabalza
Il pensier dell’eroe; quando, in lui fiso,
Il signor dei celesti: — Ora è stagione,
335Disse in cor suo, che il mio rival conquida! —
Gli aurei letti lasciò, senz’altro aiuto
Che il mordace desio; s’avviluppò
Nel manto, azzurro come ciel d’autunno;
Alla fredda canizie un largo impose
340Tricuspide lucente, e sotto al braccio
Un turchino assettando orbe stellato,
Simbol dell’universo, al più vicino
Dei presèpi del ciel cheto avvíossi.
Ivi, poichè di Giosuè la verga
345Del sole il cocchio a mezzo il ciel sostenne,
E impietriti restâr di sotto al giogo
I fulminei cavalli, una falange
D’umili sì ma intelligenti onàgri
Pasce in greppie d’argento orzi ed avene
350Di tal virtù, che nel lor sangue infonde
Gajo tripudio e giovinezza eterna.
Non appena sentîr sovra la soglia
La presenza del Dio, tutti in un punto
Drizzâro i colli ed affilâr le orecchie
355Lievemente anelando; e a lui rivolti
Con dolci e riverenti occhi, la voce
Del comando attendean. Videli il Nume
Lucidi e belli, e ne gioì; ma il cenno,
Che tutto può, volse a te solo, o illustre
360Asin di Betelèmme, a cui su’l dorso
(Premio dell’opra, onde immortal tu vivi)
Crescon due luminose ali, per cui,
Pregio da tutti invidíato, e solo
Da Dio concesso alle beate essenze,
365Varchi il cielo senz’orme e l’aer fendi.
Tu presentisti il divin cenno, ed ambe
Le ginocchia piegando appo alla ferma
Con chiovi adamantini aurea predella,
Gli occhi serrò, diede la voce, e via
375Lascia il ciel, passa l’aere, e giunge in terra.
L’eroe trovò, che scosso il sonno, e fermo
Più nel pensier che nelle membra affrante,
Ritentava il cammin. Presso un cespuglio
Lasciò il volante corridor; si eresse,
380Quanto potè, su’l curvo dorso; un grave
Cipiglio assunse, e a misurati passi
Movendogli d’incontro, in tuon solenne:
— Lucifero, gli dice, ov’io con l’ira
Dar fin volessi all’ira tua, me stesso,
385Che Dio di tutto e re del ciel pur sono,
Qui non vedresti al tuo cospetto: avvinto
Dal cenno mio sotto al mio piè, potría
Scatenarsi al mio cenno il saettante
Fulmin, che a par d’ogni superba altezza,
390Le sdegnose e proterve anime avvalla.
Ma l’ira mia tu la conosci; or sappi
La mia pietà. Stanco non già, ma schivo
Di pugne io son: di nostre pugne assai
Travaglio ebbe la terra; assai di umane
395Vite olocausto ebbe il mio sdegno. Io miro
Con paterno dolor quest’infelice
Schiatta dell’uom, che lusingata e vinta
Dai tuoi falsi giudicj, erra perduta
Fuor della via d’ogni salvezza, e il frutto
400Di tue promesse e la vittoria aspetta.
Ma, stolta, indarno aspetterà! Smarrito
Fra queste ombre tu stesso, ecco ti aggiri
Tu, che da le fallaci ombre presumi
Redimer l’alme dei mortali, a cui,
405Ira e invidia non già, ma provvidente
Consiglio mio gli ultimi veri asconde.
Sgombra dunque la terra: abbian riposo
Le genti alfin; torna ai tuoi regni, e intero
Scenderà su’l tuo capo il mio perdono. —
410— Di perdon parli e di pietà, proruppe
Disdegnoso l’eroe, tu che di tutte
Le sciagure dell’uom colpevol vivi?
Ma stolta è l’ira: ombra tu sei di nume,
Sol vivente in parole; ond’è, che irato
415Non ti temo, e pietoso io ti dispregio.
Lasciami dunque alle mie cure: avranno
Pace le genti, e non da te; nè pace
Neghittosa e servil; di guerra stanco
L’uom non sarà pria di saper che vuota
420Larva sei tu senza subbietto, e quale
Or t’addimostri al guardo mio. Potessi
Questi sordi, confitti arbori intorno
In uomini cangiar! Vedrían qual vana
Risibil cosa e imbelle ombra tu sei! —
425Tacque, e torse le spalle. Un vampo d’ira
Salì al volto del Nume; e la bollente
Rabbia del cor tutta in un punto avría
Fuor versata nei detti, ove non fosse
Sopravvenuta al suo pensier la luce
430D’un prudente consiglio. A mala pena
Ei si contenne, e gl’iracondi sguardi
Figgendo al suol, morse le labbra, e disse:
— Sei forte, il so; ma della tua fortezza
La superbia è maggior, minore il senno.
435Odimi; sai, che da nemico petto
Sorge talora util consiglio, e saggio
Io non dirò chi lo rifiuta. Ha un segno
Anche l’ira dei forti, e chi si ostina
A produrla oltre inutilmente, indegne
440Sciagure ad altri, e a sè perigli ordisce.
Or credi a me: son paventose e fiacche
L’anime umane, e han di servir mestieri.
Ad uom cresciuto in servitù mal giova
Spirar liberi sensi: a sua rovina
445Va tosto incontro; perocchè di tutti
Malnato istinto è il dominar; nè vale
Esser libero d’altri, ove ad un tempo
Di sè stesso è ciascun servo e tiranno.
Però, se il ben cerchi dell’uom, nè stolta
450Ambizíon move i tuoi sensi, al mio
Giogo abbandona i servi miei: la forza,
Qual ch’ella sia, legge è del mondo; il resto
Altro non è che nome vuoto e nulla! —
Sorrideva Lucifero, e un sol detto
455Non gli fuggía. Con subito consiglio
Pone allora il buon Dio l’aureo emisfero,
Dal manto ampio si svolge, e simulando
Fra labbro e labbro un giovíal sorriso,
Per man prende il nemico, obliquo il guarda
460Con gioconda malizia, e: — Inver, gli dice,
Vecchia golpe tu sei! Che tu mi cianci
Con codesti tuoi fumi? A par di me
Tu gli uomini conosci, e di sonanti
Nomi li gonfj, sol che a Dio ribelli
465Spingan la fronte, e tu su lor ti assida!
Giù dal volto la larva! Hai di me al pari
Desio di regno; e di regnar mal pago
Sovra il trono dell’ombre, una più bella
Sede nel mondo e maggior gloria ambisci.
470Or ben: regnar vuoi su la terra? Affido
La terra a te. Vuoi che tremanti e prone
Pendan le genti dal tuo labbro? il fronte
Pieghin popoli e re sopra la polve
Del tuo santo calzàre? Abiti e modi
475Cangia. V’è tal sovra la terra, a cui
Nullo agguaglia in poter: brando che uccide
È la parola sua, fulmine il guardo;
A lui d’umani sagrificj intorno
Vaporano gli altari; incatenato
480Ai carri suoi geme il Pensier. L’aspetto
Di lui tu prendi, e nome e gloria e regno
Di pontefice avrai! —
Commiserando
Scotea l’eroe la testa, e in cotal guisa
Con voci amare rispondea:
— Nemico
485Che scenda a patti è mezzo vinto; e a patti
Non sol tu scendi, e vinto sei, ma involto
In una cieca illusíon mi desti
Ira insieme e pietà. Quella gagliarda
Possa d’uom, che tu vanti, io già la vidi
490Regnar nel mondo: le facean sgabello
Le cervici dei re, luce la fiamma
D’umane ostie pasciuta; or su la terra
La cerco invan. So che una turpe e vòta
Larva, inutile ingombro, occupa i templi
495Di Vatican: stupida larva, il cui
Frollo capo cadente invan protegge
Co’l sozzo manto il precettor Lojola;
Ma in lei, me’l credi, è da gran tempo estinto
Il pontefice e il re!
— V’è tal, che avviva
500Anche la morte, Iddio gridò: tu puoi
Resuscitarlo. Torneranno i tempi
Di Gregorio e di Sisto!
— Ai tuoi soggetti,
Se alcun pur n’hai, serba tal gloria: io sono
La libertà. Se udir non vuoi la voce
505Del mio dispregio, a me parla siccome
Si conviene ad un Dio: fulmina! —
Un grido
Mise il Nume a tal dir; nell’ampio manto
Fremebondo si chiuse, e le beate
Groppe al divino corridor premendo,
510Per li campi dell’aria si dilegua.
Torna intanto il mattino, e un’aurea luce
Con lo sparir del Dio penetra in mezzo
Alla densa foresta. Il luminoso
Auspicio accolse e giubilonne in core
515Lucifero; tra’ folti alberi un varco
Esplorò desíoso, e il passo stanco
A un villaggio contenne: un mucchio informe
Di povere capanne, una su l’altra
Addossate su’l fianco a una montagna,
520Che di bosco e di nubi il capo ombreggia,
E giù giù fino al mar scende e digrada.
L’abita e còle una diversa gente,
Varia d’usi e di lingua, a cui, nel nome
Della croce di Cristo, una pietosa
525Missíone d’apostoli e di santi
Giogo impone di ferro e il pan contende.
Di doppia mèsse a lor biondeggia intorno
L’usurpata campagna; s’inghirlanda
Di gemina vendemmia il poggio e il clivo
530Lussureggiante, e terre e mandre a gara
Recan primizie alle lor mense. Al solco
Durissimo fra tanto, all’aere impura
Suda il magro colòno; e se la verga
Del discreto signor non gli distende
535Le bronzee terga e lo flagella a morte,
Ben felice esser dee, che possa un giorno,
Dai travagli consunto e dal digiuno,
Cader sovra l’aratro, e con le ignude
Ossa impinguar del pio padron la gleba.
|
(pag. 190)
540Stanza ospitale il víator non chiese
A signor ben pasciuto, e non sofferse
D’aver mensa comune ad orgoglioso
Trafficator. Fra poveri pastori
Breve asilo ei cercò; si assise al desco
545Della miseria; e a te, povera Sara,
Assentì l’alto aspetto e la sdegnosa
Anima e il dir che umani petti infiamma.
Schiava infelice! Era remota e angusta
Presso al torbido rio la sua capanna;
|
(pag. 191)
550Era nero il suo volto e nero il crine,
Ma aperto e grande era il suo cuore, e tersa
Come raggio di Sol l’anima avea.
Fra le miserie della vita un giorno
Le sorrise l’amor. Furon men leste
555L’opere di sua mano; impazíente,
Immemore divenne; e sì com’era
Schiava due volte, osò levar la fronte
E agli augelli invidiare il volo!
Fischiò sopra alle sue carni la sferza
560Dell’acerbo signor; percosso e vinto
Dal feroce digiuno a lei da lato,
Sotto agli occhi di lei, vittima cadde
Il giovinetto del suo cor. Qual belva
Ella ruggì; morse ruggendo i ceppi;
565Avventossi d’intorno; e allor che in mesta
Calma si assise, e volse il guardo in giro,
S’avvide ognun, che a quella derelitta
Era in una all’amor mancato il senno.
Le consentîr la libertà: più tempo
570Errò, libera pazza; un dì si accorse,
Che scevra era di giogo; e se di nuovo
Co’l pianger lungo a lei fece ritorno,
Qual fido augello, la ragion smarrita,
Tosto sentì che nel suo cor deserto
575Vigile e santa una memoria ardea.
Visse d’allor limosinando, e aperta
Agl’infelici più di lei, sorrise
Come porto d’amor la sua capanna.
Quando giunse Lucifero, sedea
580Sovra un poco di strame, appo la sponda
D’un povero lettuccio. Un fanciulletto
Pallido, emunto e con la morte in core,
Disteso, ansante ivi giacea. Poggiata
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Alla scura parete eravi un’arpa
585Lurida tutta e con più corde infrante;
A piè del letto un lacero fardello,
Un nero tozzo, e rovesciata a terra
Una picciola brocca. Il moribondo
Mosse il languido e dolce occhio d’intorno,
590E, qual chi una pietosa alma indovina,
Affisò lo stranier tacito, e il biondo
Capo crollando, le sparute e bianche
Mani al petto portò; baciò più volte
Un abitin che gli pendea dal collo,
595E: — Vedete, signor, disse, vedete
Com’han ridotto un misero fanciullo! —
E a mala pena sollevando un lembo
Della grezza camicia, insanguinato
Da recente flagel mostrava il petto,
600E singhiozzando ripetea: vedete!
Mandò un grido l’eroe; ferocemente
Rotò il guardo la schiava; il poverino
Mormorava piangendo:
— Eran pur belli
I monti e il cielo de la mia Cosenza!
605Ero tanto bambin, povero tanto,
E mi parea d’esser felice! Un giorno
Mi diedero quell’arpa: io canticchiava
Con gli augelli del ciel. Quando lasciai
Il mio tugurio, luccicar su’l desco
610Vidi alquante monete: era sì allegra
La mamma mia, ch’io le nascosi il pianto,
Nè le volsi un saluto. Uno straniero,
Ch’altri fanciulli al suo comando avea,
Con sè mi prese: eravam tanti! In giro
615Strimpellando le nostre arpe si andava
Per le città, scalzi, soletti, stanchi,
Senza letto, nè pane, al sole, al vento
Alle piogge, alle nevi ed alla sferza
Del rio padron, cui parea scarso il frutto
620Di quel nostro accattar cotidíano.
L’altrier, consunto dal continuo stento,
Un fanciullo moriva: e tanti e tanti
N’eran morti così! Ci amavam come
Due fratelli infelici: eravam sempre
625L’uno accanto dell’altro. Un dì un allegro
Ritornello io cantava; ei con le scarne
Dita seguía su l’arpa a gran fatica
La mia pazza canzon. Tacquero a un tratto
Le monotone corde: il poverino
630Cadde, nè più si ríalzò. Non ebbi
Più memoria di me: fuggii la vista
Dell’odiato signor. Mi trovò il crudo
Presso al cantuccio d’una via romita,
Che l’amico piangea; mi picchiò tanto,
635Che mi parve morir. Questa pietosa
Dalla via mi raccolse. —
Ed additando
Quell’infelice, che gli stava a lato,
Fra’ singhiozzi tacea. Tacea pur essa
La sventurata, e si stringea sul petto
640L’affannato fanciullo.
In su la soglia
Splende un raggio di Sol; canta e saltella
Un’amorosa cingallegra. Al seno
Le tenui braccia il fanciullin compone,
Guarda in alto, e sorride.
— Oh! non lasciarmi,
645Così fra’ baci gli dicea la schiava,
Non partire sì presto! Abbandonata,
Vedi? son io; son poveretta e mesta;
Io t’amerò come una madre! —
Un balzo
Diè a tal nome il fanciullo; il moribondo
650Sguardo avvivò d’un ultimo baleno,
E fieramente mormorò: — Mia madre?
M’ha venduto mia madre! —
A questa voce
Fugge il vispo augellino, e all’aere immenso
Libera del bambin l’anima il segue.
655Tacita, con selvaggio atto, alla sponda
Del letticciòl si accovacciò la schiava;
E tutto ira e pietà fuori all’aperto
Precipitossi il pellegrin. Gli ferve
Sotto ai passi la terra; al mar si affida
660Subitamente, e nell’acceso petto
Le remote sospira itale sponde.