< Macbeth
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William Shakespeare - Macbeth (1605-1608)
Traduzione dall'inglese di Andrea Maffei (1863)
Atto primo
Interlocutori Atto secondo

ATTO PRIMO.



SCENA I.

Una landa.
Tuoni e lampi.
Tre STREGHE

prima strega.
Quando verremo noi tre di nuovo
Ad un ritrovo?
Nel tuon? Nel lampo?
O nella pioggia?
seconda strega.
Quando si taccia
L’urlo del campo;
Quando ne faccia
Noto il conflitto
Chi sia vincente, chi sia sconfitto.
terza strega.
Pria della sera
Dunque.
prima strega.
La posta?
seconda strega.
Quella pianura.

terza strega.
Vi dee Macbetto condur la schiera.
seconda strega.
Noi gli diremo la sua ventura.
prima strega.
Ma la maestra garrirne potria
Se noi co’ detti d’un falso destino
Tronchiamo al prode la nobile via
Per invaghirlo del torto cammino.
terza strega.
Potrà seguirlo, potrà lasciarlo,
Chè forza alcuna non gliel disdice;
Ma detestarlo
Colui deggiamo, perchè felice.
seconda strega.
Se a frenar gli appetiti non vale,
Provi l’uomo la possa infernale.
terza strega.
Noi gittiamo il mal seme nel core;
Ma dell’opra l’uom sempre è il signore.
seconda strega.
L’uomo è di proba, gentil natura,
Nè questo merta, io penso, prova sì dura.
seconda e terza strega.
Tutti i demoni lieti non sono
Se cade il giusto, se inciampa il buono?
(Tuoni e lampi.)
prima strega.
Gli spirti intendo.

seconda strega.
Grida il Maestro!
tutte e tre le streghe.
Padòc ne appella!
Vegnam! vegnamo! Sole e procella
L’un l’altro a muta. Bello è l’Orrendo,
Orrendo il Bello. La nostra via
Siano i vapori, la nebbia sia.
(Spariscono fra tuoni e lampi.)


SCENA II.
Il re, malcolm, donalban, seguito.
Incontrano un guerriero ferito sostenuto da due soldati.


re.
Traggono un Cavalier dalla battaglia:
N’avrem nove recenti.
malcolm.
È quello stesso
Che da’ nemici mi salvò. — Ben giungi,
Mio compagno di guerra! A noi racconta
Come lasciasti la battaglia.
cavaliere.
Incerta
La vi lasciai. Gli eserciti nemici
Mi pareano, Signor, due notatori
Che l’uno all’altro s’avviticchi, e tenti
Rallentar l’avversario, e fargli vana

L’arte e la possa. Macdovaldo, iniquo
Spirto ben degno d’impugnar la spada
Del tradimento, i Cherni e i Galluglassi
Guidò dall’occidente a’ nostri danni.
Come torrente per dirotte pioggie
Impetuoso, quella furia irruppe
Nelle nostre colonne, e le scompose.
La pugna era perduta, allor che giunse
Il tuo supremo condottier Macbetto.
Col brando il valoroso un varco s’apre
Attraverso la mischia, afferra il braccio
Del traditore, nè da lui si spicca
Anzi che dal cocuzzo in sino al mento
Diviso egli non l’abbia, e nella spada
Fitto, veggenti noi, l’infame capo.
re.
O mio prode cugino! o glorïoso
Mio cavalier!
cavaliere.
Ma come uscir miriamo
Dalla plaga medesma, onde i suoi raggi
Ne manda il sole, i nembi e le tempeste,
Dal sen della vittoria un gran periglio
Ne sopravvenne. Ascolta, o Sire! In fuga
Vôlti appena i nemici, e noi sull’orme
De’ fuggitivi, Sveno, il re norvegio,
Ne assalì, ne arrestò con ben armati
Freschi guerrieri, e ne volea di mano
La vittoria strappar.

re.
Di questo assalto
Provâr Banco e Macbetto, i duci nostri,
Forse timor?
cavaliere
Come l’aquila teme
Del passero, o mio re, come il lione
Del coniglio. La fronte ancor bagnata
Dalla fatica del primo conflitto,
Gittàrsi i prodi nel secondo. Ancora,
Quand’io mossi dal campo, ardea la lotta
Ostinata e crudel. Ma faticato,
Sire, io mi sento; e gridano soccorso
Le mie ferite.
re.
Onore esse ti fanno
Non men che i detti tuoi. — Si mandi e tosto
Per l’uom dell’arte che le curi. Oh, vedi
Che vêr noi s’avvicina!


SCENA III.
i precedenti, rosse e lenox.


donalban.
Ecco l’egregio
Signor di Rosse. Oh quale ansia traspira
Dal volto suo! L’uom solo ha quell’aspetto
Di grandi cose apportator.
rosse.
Che Dio
Salvi il re!
re.
Buon Signore, onde ne vieni?
rosse.
Da Fife, o mio Sovrano, ove il norvegio
Vessillo, che pur dianzi alteramente
Fluttuava spiegato, i tuoi guerrieri
Posero a terra. Sveno (in lega occulta
Col Signor di Caudorre, il più malvagio
De’ traditori) non lasciò che sfugga
La buona occasïon delle intestine
Nostre discordie, e con sùbita mossa
Piombò sulle tue schiere affievolite
Da que’ dissidii cittadini. Il cozzo
Fu lungo e pertinace. Alfin la destra
Fiaccò dell’invincibile Macbetto
La norvegia baldanza, e, per unirti
Tutti in un solo i detti miei, vincemmo.
re.
Sia lode a Dio!
rosse.
Quel re la pace implora.
Ma di por nella fossa un solo estinto
Egli non otterrà, se pria non versa
Dieci mila monete, ad impinguarti,
Sire, il tesor, nell’isola di Santa
Colomba.
re.
Più non dee quello sleale,
Quel ribelle Caudor la nostra fede
D’ora innanzi tradir. Vanne! pronuncia
La mortal sua condanna, e salutato
Venga Sir di Caudorre il valoroso
Macbetto.
rosse.
Obbedirò.
re.
Quanto egli perde,
Il nostro invitto condottier guadagni.
(Partono.)


SCENA IV.
Pianura deserta.
le tre streghe s'incontrano.


prima strega.
Sirocchia, che festù?
seconda strega.
Navi perdei nel mar.
terza strega.
(alla prima)
E tu che gisti a far?
Raccontaci, di’ su!
Prima strega.
Un pescatore,
Che pochi e rozzi cenci vestia,
Ora fa l’anno, trovai per via.
Tranquillo in core,
Quasi un tesoro con sè recasse,
Gli ami inescava, tendea le nasse.
Senza un lamento,
Pago il mendico di scarso pane,
Cantava a sera, cantava a mane.
Di quel contento,
Di quel molesto canto di gioja,
Tosto mi venne dispetto e noja:
Ed una sera,
Dov’ei la rete gittò nell’acque,
Gran copia d’oro versar mi piacque.
La lusinghiera
Splendida pesca, di meraviglia,
Poi d’allegrezza gli empì le ciglia;
Sì che al nemico diede ricetto,
E tacque il canto nell’umil tetto.
Le altre due streghe.
Stolto! al nemico diede ricetto
E tacque il canto nell’umil tetto.
Prima strega.
Come il figliuolo
Prodigo, ci visse; guadò la sozza
Gora del vizio fino alla strozza.
Ma quasi il volo
Mammona avesse, dall’insensato
In poche lune tolse commiato.
Credette all’oro, nè dell’usura
Che vuol l’inferno si prese cura.
le altre due streghe.
Credette all’oro, nè dell’usura
Che vuol l’inferno si prese cura.
prima strega.
Quando l’amaro
Disagio il colse, quando lontani
Gli òmeri ei vide dei cortigiani,
Lo abbandonaro
Co’ falsi amici l’onor, la fede;
Ed al nemico dell’uom si diede.
Anima e braccia
Proferse al capo d’una masnada,
E vil si fece ladron di strada.
Del pazzo in traccia
N’andai quest’oggi dov’io la rete
Gli empìa quel giorno d’auree monete.
Là sulla sabbia
Trovai quel tristo, lacero, smunto,
Come da lunga febbre consunto.
E colla rabbia
Di chi dispera: «Sii maladetto,
Gridar lo intesi, metallo abbietto!
Ogni mio bene tu m’hai distrutto.»
Così gridando balzò nel flutto.

le altre due streghe.
(con riso beffardo.)
Così gridando balzò nel flutto.
Prima strega.
Un tamburo! Ascolta, ascolta!
Vien Macbetto a questa volta!
tutte e tre.
Con mani intrecciate
Le suore fatate
Per l’onda, pel suolo
Trascorrono a volo.
In tondo si move
Ciascuna di noi;
Tre volte per te,
Tre volte per me,
Tre volte da poi
Per giungere al Nove;
E basti così.
L’incanto seguì.


SCENA V.

LE STREGHE, MACBETH E BANCO.

Macbeth.
Un giorno come questo orrendo e bello
Veduto io non ho mai.
Banco
Quanto da Fore

Distiamo ancor?... Chi son quelle figure
Laggiù con grigia scarmigliata chioma,
Con forme di gigante ed alla vista
Spaventose così? Di questa terra
Non sembrano native, e pur vi stanno.
(Alle streghe.)
Vivete? e cose siete voi che l’uomo
Ardisca interrogar? D’avermi inteso
Manifestate, chè di voi ciascuna
L’indice pone sul labbro cadente.
Dirvi donne io vorrei, ma quella barba
Viril nol mi concede.
macbeth.
Favellate,
Se pur favella avete voi, chi siete?
prima strega.
Salve, Macbetto, Sir di Glami!
seconda strega.
Salve,
Macbetto, Sire di Caudor!
terza strega.
Macbetto,
Salve, chè re sarai!
banco.
(a Macbeth).
Che veggo, amico!
Mal reggete sui piè? Raccapricciate
Per un saluto che dovria sonarvi
Dolcissimo agli orecchi?
(Alle Streghe.)
Oh, per l’eterno
Vero, parlate! Siete spirti? o quali
Mostrate all’apparenza, umane forme?
Salutaste pur or con vaticinj
Di fortuna presente e di futura
Regal grandezza il mio fratel di spada,
Ma nulla a me diceste. Ove uno sguardo
Vi sia dato lanciar per entro il chiuso
Germe del tempo, e chiaro a voi si mostri
Qual grano uscirne e qual perir vi debba,
Rispondete ad un uom che non vi cerca
Favor, nè teme l’ire vostre.
prima strega.
Salve!
seconda strega.
Salve!
terza strega.
Salve!
prima strega.
Minor, ma pur maggiore
Di Macbetto.
seconda strega.
Non tanto e più felice
Di lui.
terza strega.
Re, non sarai, ma regi figli
Verran da te. Salvete entrambi adunque
Macbetto e Banco.
prima strega.
Banco, salve! Salve,
Macbetto!
macbeth.
Un motto ancor, favellatrici
Tenebrose! Morendo in questa notte
Sinello, il padre mio, mi diè di Glami
La Signoria. Ma di Caudor? Respira
Pieno di vita tuttavia quel Sire.
Che poi cinga il mio capo una corona,
Incredibile è più, giacchè due figli
Ed eredi ha Duncano. Onde vi scese
Questo saver? Parlate! E qual cagione
Vi move ad impedir la nostra via
Su questa landa inospital co’ vostri
Profetici saluti? Io vi scongiuro...
(Le Streghe spariscono.)
banco.
Bolle ha la terra come l’acqua, e bolle
Queste saranno. Ove n’andràr?
macbeth.
Nell’aria.
Quel che parve sustanza insiem col vento
Si confuse e vanì. Perchè non sono
Qui tuttavia!
banco.
Che dite? E veramente
Quelle cose fur qui? Nè la radice Gustammo noi che l’intelletto offusca?
macbeth.

Se diam fede al presagio, i vostri figli Porteranno corona.

banco.
E pria voi stesso

La porterete.

macbeth.
Di Caudor per giunta

Terrò la Signoria. Non l’han predetto?

banco.

Così come voi dite... Or chi s’accosta?

SCENA VI.
I PRECEDENTI, ROSSE, ANGUS.
rosse.

Glorïoso Macbetto! Al re Duncano La gran nova sonò del tuo trionfo; Come hai rotti i ribelli e quel feroce Macdovado abbattuto; e parve al nostro Grazïoso Signor che tu salissi Al grado estremo della gloria umana. Pur dall’augusto labbro assai più calde Le tue lodi sgorgaro, allor che seppe Di quella lotta singolar col prence Norvegio, onde tu fosti il salvatore

Della corona. Al re giugnean gli araldi,

Come grandine spessi, ognun col peso
Delle invitte tue prove, ed assordando
Gli veniano l’orecchio stupefatto
Della tua gloria.
angus.
Or messi a te vegnamo
Del grato animo suo; ma la mercede
Da noi non aspettar. L’avrai tra poco
Dallo stesso Duncano, a cui di guida
Noi ti sarem.
rosse.
Soltanto, e come pegno
D’onori assai più grandi, a cui la regia
Riconoscenza ti destina, imposto
N’ha pur dianzi il tuo re di salutarti
Sir di Caudorre; e noi con questo novo
Titolo, o valoroso, e tal ben sei,
Ti salutiamo.
banco.
(fra sè)
Oh come! Il ver potria
Dal demonio partir?
macbeth.
Non vive il Sire
Di Caudorre? E vestir mi si vorrebbe
Dell’altrui dignità?
rosse.
L’uom che già Sire
Fu di Caudorre è vivo sì, ma colto

Da sentenza mortal. Sia ch’egli fosse
Coi nemici indettato o coi ribelli,
O cogli uni e cogli altri, alla caduta
Del regno nostro congiurato, è quanto
Dirti non so; ma so che reo fu detto
Di fellonia provata e poi confessa
Dal suo labbro medesmo.
macbeth
(fra sè).
Io Sir di Glami
E di Caudorre!... Il meglio a lor s’atterga.
(Agl’inviati.)
Vi ringrazio, Signori!
(A Banco.)
Or la speranza,
Banco, che re saranno i figli vostri
Ben potreste nudrir, giacchè predetto
Dalle labbra vi fu che me signore
Di Caudor salutaro.
banco
Ove radice
Metta in voi questa fede, arduo non fòra
Farvi, amico, obbliar per la corona
Di re, Caudorre. Avviene (e caso è certo
Meraviglioso) che gl’iniqui spirti
Ne tirano talvolta all’orlo estremo
Della ruina col poter del vero.
Basta un nulla a sedurci, a trarne il piede
Dal buon sentiero e spingerne a delitti, Di cui gli effetti spaventosi il sangue

Farebbero agghiacciar.

(A Rosse ed Angus.)
Dove, o Signori,

Trovasi il re?

angus
Per via; di qui non lungi.
(Banco parlando in disparte con essi.)
macbeth.
(fra sè.)

S’avveràr dell’oracolo due voci. Argomento per me che pur la terza Maggior si compierà.

(A Rosse ed Angus.)
Mercè, Signori.
(fra sè.)

Male e bene recarmi il portentoso Vaticinio potria. Perchè, se male, Dal vero incominciar? Caudorre io sono. Se ben, perchè la forza a sè mi tira Di tal suggestïon che le mie chiome Solleva, e smove dal petto profondo La ferrea tempra del mio cor? Men truce Del pensier che la mente m’attraversa L’opra istessa mi appare; e questa orrenda Larva del mio cerébro, in fantasia Solo omicida, e polsi e fibre e sensi Mi scompiglia così, che morta io sento

Ogni altra cura della vita, e mere

Ombre innanzi mi stan....
banco.
(agli altri).
Mirate il prode
Macbetto! è col pensier da noi lontano!
macbeth.
(agli altri).
M’apparecchia il destino una corona?
L’avrò senza cercarla.
banco.
I novi onori
Si confanno a colui come una veste
Di costume stranier, che male al nostro
Corpo s’attaglia se dall’uso avvezzi
A portata non siamo
macbeth.
(agli altri).
Avvenga il peggio
Che mai possa avvenir. Ci fuggon l’ore
Pur ne’ giorni più foschi.
banco.
Il piacer vostro,
O Macbetto, aspettiam.
macbeth.
Perdono, egregi
Signori! La mia mente era svagata
Da vicende trascorse. Io v’assicuro,
Nobili amici miei, che i vostri ufficj

Scritti son nel mio core, e dì non passa
Che foglio non ne svolga. — Al re, Signori!
(A Banco.)
Pensiamo all’avventura, e meditata
Che l’avremo in noi stessi, a cor sincero
Ne parlerem.
banco.
Come a voi piace.
macbeth.
E basti
Per or. — Venite, amici!
(Partono.)


SCENA VII.
Palazzo del re.

RE, MALCOLM, DONALBAN, MACDUFF e Seguito.


re.
Alla mannaja
Fu tradotto il Caudorre? I nostri messi
Tornâr?
donalban.
No, mio Signore. Io nondimeno
Ad un uom favellai che testimone
Del suo termine fu. La sua gran colpa
Riconobbe il Caudorre, e pentimento
Vero manifestò. L’intera vita
Di quel fellon non ebbe opra più degna,

Più nobile, nel modo umile ed alto
Con cui l’abbandonò. Morì da saggio,
Morì simile ad uom, che della morte
Fatto s’abbia uno studio, e lasci il bene
Prezïoso fra tutti, indifferente
Così come non fosse altro che fango.
re.
La mia piena fiducia ebbe colui;
Pur mi tradía. Non avvi arte che legga
Il segreto pensier nel volto umano.

SCENA VIII.

I PRECEDENTI, MACBETH, BANCO, ROSSE.

re.
O mio caro cugino, e saldo appoggio
Del regno mio! Pesarmi in questo punto
Sentía la sconoscenza. In aer tanto
Sollevato ti sei, che seguitarti
Non potria del mio grato animo il volo.
Vorrei quasi minore il tuo gran merto,
Perché men mi dolesse il non poterti
Dar condegna mercede. Or nulla, o prode,
A dir più mi riman, se non che tutto
Quanto io posseggo non saria bastante
L’obbligo a cancellar che a te mi stringe.
macbeth.
L’opra mia m’è compenso: io già non feci


.
Oltre il dover, nè spetta al mio Signore
Se non che lo accettar benignamente
Un servigio fedel; servigio, o Sire,
Che per vincolo sacro a te dovea
A’ tuoi figli, al tuo regno.
re.
Eroe diletto!
Ben giungi alla mia reggia! Io ti piantai
Tenero arbusto, e studio e lungo amore
Porrò sì che tu cresca. - Egregio Banco!
Di me, della corona e dello Stato
Meritasti tu pure, e non dovrai
Senza premio restar. Che le mie braccia
Ti stringano al mio sen.
banco.
Se qui germoglio
Mettere io posso e maturar, le frutta
Saranno tue.
re.
L’eccesso della gioja
Così mi opprime, che cerco al dolore,
Per averne sollievo, il pianto suo. -
Figli, Congiunti, Cavalieri, e quanti
State presso al mio trono, udite tutti:
Noi vogliam che Malcomo, il nostro primo
Genito, ne succeda alla corona.
Noi gli diamo altresì da questo giorno
La Signoria di Cumberlanda; e solo
Per questa preminenza andar distinto

Dovrà dai cavalieri e dai baroni
Che, pari ad astri luminosi, il soglio
Mi fan bello e splendente.
(A Macbeth.)
Ora, o Cugino,
Al castel d’Invernesse. Ospiti tuoi
Questa notte noi siamo.
Macbeth.
Alla mia donna
Bramo io stesso annunciar di così grande
Ospite la venuta; onde licenza
Di precorrerti, o Sire, a me concedi.
re.
(lo abbraccia).
Ben amato Caudor!
(Parte il re col seguito.)
Macbeth.
(solo).
Malcomo prence
Di Cumberlanda? È questo un sasso enorme
Che mi taglia la via. D’un salto io debbo
Valicarlo o cader. - Velate, o stelle,
La luce vostra, nè raggio diurno
Scenda nel buio del mio cor. Che gli occhi
Non veggano la mano, acciò non sia
L’opra nefanda dal terror sospesa.
(Parte).

<poem>

SCENA IX.
Andito nel castello di Macbeth.
LADY MACBETH sola.

(Legge una lettera.)
« Io mi avvenni in color nel giorno istesso
» Della battaglia, ed ebbi arra secura
» D’un saver più che umano in lor disceso
» Quando mirabilmente il ver rispose
» Al secondo presagio. Interrogarle
» D’altre cose io volea, ma come il lampo
» Sparir. Compreso ancor di meraviglia,
» Ecco i mesi del re venirmi incontro,
» E Caudor salutarmi, al modo appunto
» Che pur dianzi m’avean le tre sorelle
» Salutato; saluto a cui successe
» Quel terzo e sommo di regal fortuna.
» Sollecito mi vedi a farti istrutta
» Di quanto mi seguì, perchè segreto,
» Cara compagna della mia grandezza,
» Più lungamente non ti sia qual alto
» Destin ne attende; e tutto in cor ti chiudi
» Addio.» Glami or tu sei, tu sei Caudorre,
E sarai quello ancor che presagito
Ti fu. Ma la tua debole natura
M’è cagion di timori. Hai troppo mite
Indole per seguir la via più breve.

Privo non sei d’ambizion; vorresti
Farti grande, salir, ma pura insieme
Serbar la coscïenza; a’ mali acquisti
Tu non ripugni, ma dall’arte aborri
Che darli a te potria. Levar la mano
Ameresti ad un ben che ti susurra:
« Fa’ ciò se aver mi vuoi.» Ma cor di farlo
Tu non hai.
(Pensa)
Vola, vola alla tua donna!
Trasfondere saprò lo spirto mio
Nel tuo spirto, o Macbetto, e le mie labbra
Cacceranno da te quelle dubbiezze,
Que’ vuoti spettri di terror che lungi
Tengon la tua man dal cerchio d’oro
Che ti splende allo sguardo e dal destino
Ti si promette.

SCENA X.
LADY MACBETH, PORTINAIO.

lady.
Che mi rechi?
portinaio.
A sera
Qui giunge il re.
lady.
La tua parola è stolta.

Il tuo Signor non è con lui? Se vero
Fosse quel che mi dici, ei me ne avrebbe
Dato a tempo l’avviso.
portinaio
È ver! mi credi.
Il Signore è per via. Precorse un messo
Che seppe a stento e con lena affannata
Il grande annunzio balbettar.
lady
Non manchi
Di ristoro quel messo: un’alta nuova
Ci recò.
(Il Portinaio parte.)
La cornacchia è fatta roca
Col suo gracchiarci la fatal venuta
Di re Duncano. -Or tutte a me venite,
Furie voi dell’abisso, ispiratrici
Dei pensieri di sangue! In me spegnete
Quanto è di donna, e dal capo alle piante
Stillatemi la rabbia e l’efferata
Crudeltà della tigre. Assiderate
Le mie vene; chiudete al pentimento
Ogni varco, ogni via; nessun ritorno
Ai sensi di natura il cor mi svolga
Dal mio fermo proposto. Alle mie poppe
Attaccatevi, o furie, e voi voi tutti,
Spiriti, che insidie e tradimenti ordite
Sotto mille diversi intinti aspetti;
E di tosco non più ma del mio latte

Pascetevi! E tu, notte, oscura notte!
Spegni il lume diurno, e d’infernale
Caligine ti fascia, onde il mio ferro
Non vegga il petto che trafigga, e messo
Dal cielo non scenda, che, squarciato il velo
Delle tenebre tue, mi gridi «arresta!»


SCENA XI
LADY MACBETH e MACBETH


lady
Signor di Glami e di Caudor, ma grande
Più pel terzo presagio, io ti saluto!
Mi levò quel tuo foglio oltre i confini
Dell’angusto presente, e nel futuro
Fiso or lo sguardo inebbriato.
macbeth
O cara
Mia donna! ...In questa sera è qui Duncano.
lady

E quando partirà?
macbeth
Dimani... ei pensa.
lady
Oh mai questo dimani il sol non rechi!
Il tuo volto, o Macbetto, è un libro aperto
Ove leggersi può da chi vi guarda
Perigliosi disegni. Or se giovarti

Vuoi tu del tempo, al tempo ti conforma.
L’occhio, il labbro, la man non manifesti
Che gentile accoglienza. Un fiore al viso
Sii tu, ma un serpe al cor. - Vanne, e procaccia
Di ricevere l’uom che qui s’aspetta
Cortesemente. La maggior fatica
Di questa notte sarà mia; di questa
Notte, che piena e libera possanza
D’oprar ne frutterà per l’altre tutte,
Come per tutti i dì futuri.
macbeth.
A lungo
Ragionarne dovrem.
lady.
Pur che ti vegga
Più sereno, o Macbetto. Una sembianza
Che muta spesso di color, la lotta
De’ pensieri palesa. Ogni altra cura
Lasciar tranquillamente a me tu puoi.
(Partono. Squillo di trombe)


SCENA XII
IL RE, MALCOLM, DONALBAN, BANCO, MADUFF,
ANGUS, LENOX

re.
Sorge il castello in loco ameno. È viva
Qui l’aria, e colla sua dolce frescura
Ristora i sensi e gli accarezza.

<poem>

banco.
E quelle
Ospiti estive, che volano intorno
Ai fastigi eminenti, e fanvi il nido,
Certa prova mi son che l’aria è dolce,
E la plaga salubre. Una cornice,
Una mensola, un trave io qui non veggo
Ove le rondinelle non appendano
L’aereo nido, a’lor piccioli nati
Culla secura. Immiti e tristi climi
Mai non vidi abitar da quelle care
Pellegrine.
SCENA XIII.


I precedenti, LADY MACBETH
re.
Non erro: è qui la nostra
Gentile albergatrice! - A noi molesto
È talvolta l’amor che ne accompagna;
Ma perchè nasce da fonte si bella
Grati gli siam. Per questo della pena
Che vi reca, o Signora, il nostro arrivo
Ci dovete mercè.
lady
Que’ pochi officj,
Sire, che vi rendiam, se pur due volte
E quattro e sei venissero addoppiati,

Sarien povera cosa al paragone
Dell’onor che versate a piene mani
Su questa casa. E noi, che dar possiamo
Per tanti beneficj antichi e novi
Di che voi ne colmaste? Alzar soltanto
Le palme al cielo, e benedirvi in atto
Di profonda umiltà, non altrimenti
Che miseri claustrali orbi di tutto
Fuor che di voti e di preghiere.

re.
E dove
Si nasconde Caudor? Noi ci mettemmo
Sull’orme sue. Precederne la corsa
Era nostro pensier, ma Cavaliere
Senza pari è Macbetto; e il grande amore
Ch’egli ci porta al suo corsier fu sprone,
E di gran tratto n’avanzò. - Mia bella
Castellana, ricetto in questa sera
Voi ci dovete.
lady.
Ah Sire! il tetto vostro
Non il mio qui v’accoglie. A voi rendiamo
Ciò che avemmo da voi.
re.
Venite! e guida
Mi siate al benamato ospite mio.
Egli al cor m’è vicino; e quei favori
Ch’ebbe or ora da me di ben più grandi

Sono il preludio. - Amabile Signora!
Consentite! la man.
(Le dà braccio e parte con lei. Seguono gli altri. Musica interna durante la mensa.
Nel fondo della scena passano e ripassano passi e servi recando vivande.
Dopo qualche intervallo entra Macbeth.)


SCENA XIV.
MACBETH solo.

(pensieroso)
Se capo avesse
La cosa fatta, imprenderla e finirla
Senza indugio, sarebbe ottimo avviso;
E se l’opra di sangue alcuna impronta
Dietro a sè non lasciasse e coll’estinto
Tutto fosse quïeto, ond’io, vibrato
Il fatal colpo, un termine vedessi
Nella vita mortal, di quella eterna
Vorrei porre il pensiero, ed irle incontro
Colla benda sugli occhi. Ah! ma qui pure
Le colpe hanno un castigo! La cruenta
Scola al maestro volentier si torce,
E la equabil giustizia a ber ne stringe
Da quella stessa avvelenata coppa
Che per altri mescemmo.... Un doppio usbergo
Qui guardar lo dovria, perchè vassallo
E congiunto gli son (due forti nodi
Per avvincermi il braccio), e perchè venne
Ospite nel mio tetto; e non che il ferro

<poem>

Traditore impugnar, dovrei le porte
Chiudere all’assassino... E poi sì mite
Fu di questo Duncano il reggimento,
E il grave incarco suo con tanto amore
Seppe adempir, che pari a Cherubini
Sterminatori con voce di tromba
Tutte le sue virtù contro il misfatto
Leverebbero un grido; e quasi infante
Nudo ed inerme, la Pietà, discesa
Dal ciel, sulla tua morte, o re tradito,
Lagrime spremeria da tutti i cuori.
Solo un’ingorda ambizïon mi spinge
A svenarti, o Duncan; furia insensata
Che, pari a cieco corridor, travalca
La mèta e cade.
SCENA XV.
MACBETH e LADY MACBETH.
lady.
Al fine è già la mensa.
Perchè levarti dalla sala?
macbeth.
Ha chiesto.
Egli di me?
lady.
Non ti fu detto?
macbeth.
(dopo una pausa).
Amata
Mia donna, ogni pensier di quella bieca
Opra smettiam. Testè di novi onori
M’ha ricolmato, e nel comun concetto
Il mio nome ingrandì. Non vo’, non posso
Tanta gloria offuscar.
lady.
La speme dunque
Che ti fea sì valente era briaca?
Sonnecchiò forse, ed or s’è desta e trema
Pallida, impaurita, allor che d’uopo
Più le saria di forza e di coraggio
A far quanto già volle? Il veggo, il veggo
Quanto affetto hai per me! Farti nell’opra
Ciò che sei nel pensier, t’inorridisce.
Osi alzar le tue brame al più sublime
Seggio dell’uomo, e poi fiacco e codardo
Vai dicendo a te stesso: «Io ben vorrei,
Ma non ardisco.»
macbeth.
Non seguir, ti prego!
Ciò che degno d’un uom far osa un uomo
Far oso anch’io. Chi passa oltre quel punto
Uomo non è.
lady.
Qual bruto eri tu dunque
Quando il pensiero n’accogliesti? Un uomo

Eri, o Macbetto, e più che mai t’è d’uopo
Esser tale in quest’ora. Il loco e il tempo
Ti mancavano allor che me ponevi
Nel tuo segreto; di creare entrambi
Gran disio tu mostravi. Or da sè stessi
Entrambi si creàr, ma te disfero.
I miei figli allattai; so dunque a prova
Quanto possa l’amor in una madre
Pel suo bambino che ne sugge il seno.
Ma più tosto che farmi una spergiura,
Che mancar da vigliacca alla promessa
Come tu fai, per dio! che il mio bambino
Svelto avrei dalla poppa, avrei compresse
Le sue gracili tempie, ancor che vòlto
Si fosse a me col più dolce sorriso.
macbeth.
E questa maledetta opra d’inferno
Ne darà la corona? Il Cumberlanda
Fra il soglio e noi non si porrà? Non vive
Donalban? Nell’uccidere Duncano
Ci bruttiam d’un delitto utile solo
Ai figli suoi.
lady.
Conosco i nostri alteri
Patrizi. Il loro orgoglio ad un fanciullo,
Credimi, non si piega; ed una guerra
Fra cittadini avvamperà. Tu sorgi
Allor come il più degno, il più vicino
Di sangue al re defunto, e dell’erede

Regal sostieni i diritti. In nome suo
T’assidi in trono; e riversar da quello
Chi ti potrà? Non perderti nei tempi
Lontani; afferra il buon momento: è tuo.
macbeth.
Ma se il colpo fallisce?
lady.
Animo fermo
E pronta man, nè fallirà. Corcato
Che sia Duncano (e dargli un grave sonno
Debbe il disagio del lungo cammino),
Mescere mi propongo a’ due reali
Camerlenghi un licor di tal possanza,
Che la memoria, fedel guardiana
Del cerébro, diventi un alberello,
Onde il profumo svaporò. Sepolti
Costoro in un letargo, a cui la morte
Darà l’immagin sua, che non potremo
Far noi di quel vegliardo inerme e solo?
Che de’ suoi camerlenghi, a cui la colpa
Del regicidio s’apporrà?
macbeth.
Fanciulle
Non partorirmi! Il tuo petto animoso
Non mi debbe nudrir che maschia prole. -
Chi rei non crederà di tal misfatto
Que’ due che nella stessa intima stanza
Dormir vicini al re, poi che di sangue
N’avrem lorde le daghe, onde la mano

Per ferir n’armeremo?
lady.
E chi potrebbe
Far diverso concetto, allor che noi
Leverem pianti e disperate grida?
macbeth.
Donna, m’hai vinto! A questa orribil opra
Tesa io sento ogni fibra. - Or meco vieni!
Una larva d’amore il sanguinoso
Pensiero occulti, e un traditor sorriso
Celi nell’imo petto il tradimento.
(Partono)

____

nota all'atto primo.




Le scene I e IV di quest’Atto, in cui parlano le Streghe, vennero dallo Schiller allungate. Trovai però in una edizione omessa la romanza del pescatore, e sostituito ad essa il racconto originale delle Castagne, il quale è certo assai più conforme al basso e strano linguaggio di quelle femmine fantastiche.

SCENA IV.

Pianura deserta.

le tre streghe s’incontrano.

prima strega.
Ove andasti, sirocchia?
seconda strega.
N’andai
Maiali a scannar.
terza strega.
Tu, sirocchia?
prima strega.
La donna trovai
D’un uomo di mar.
Acchiocciolata colei si stava;
Tenea castagne fra’ suoi ginocchi,
E le sgusciava, le manicava.
«Donna, le dissi, dammene un pò.»
-«Strega, di queste tu non ne tocchi!»
L’avara scrofa mi brontolò.

Suo marito s’è messo per via,
E sul Tigri fa vela a Soria.
In topolino mozzo di coda
Cangiarmi io vo’:
E, pria ch’ei giunga col legno a proda,
Entro un crivello l’arriverò.
Questo io farò.
seconda strega.
Vo’ darti un vento.
prima strega.
Mercè, mercè.
terza strega.
Sirocchia! un altro n’avrai da me.
prima strega
Governo io stessa gli altri a talento.
So da qual parte
Vengano, vadano,
Senza che interroghi
Bussole o carte.
Per nove torni
Di sette giorni
Voglio sul flutto
Dargli la caccia,
Fin che si faccia
Mucido, asciutto
Come in estate
L’erbe falciate.
Nè sonno, nè posa,
Sia buio, sia chiaro, gustar più saprà:
Ma veglia angosciosa
Sbarrato mai sempre quegli occhi terrà.
E, pari a bandito,
Fra nembi e marosi, stremato, avvilito,
La vita trarrà.
Così languirà.
Che se non posso fondarne il legno,
De’ venti almanco provi lo sdegno.

Ve’, ve’, che cosa mi trovo in tasca!
seconda strega.
Veggiam!
prima strega.
Gli è il dito
D’un uom perito
Colla sua nave nella burrasca.
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