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I
PREFAZIONE E ARGOMENTO DEL «BALDO»
nell’edizione
di VIGASO COCAIO
I
VIGASO COCAIO ALLI LETTORI
Girolamo Folengo mantoano, ed a me discepolo nella professione grammaticale, fu da suo padre mandato a Bologna in studio, per udire il grande aristotelico Pereto Pomponazzo, ma volse ch’io parimente andassi con esso lui, solamente per guardarlo che non perdesse il tempo e i denari. Ma, sendo egli già cresciuto e fatto tale che più non mi avesse a temere, come vivace molto e faceto e compagnone, si diede in preda alla sviata giovanezza, e posponendo li termini logicali, tutto si congiunse alle muse latine, volgari e macaronesche.
Io assai feci per ogni modo riducerlo alla voluntá del padre, ma sempre indarno m’affaticai. Compose egli dunque, sotto il nome d’uno furfante detto Limerno, in ottava rima La fanciullezza di Orlando paladino, opera ingeniosa ed assai mordace. Poi sotto nome di Merlino Cocaio diede principio ai gran fatti di Baldo in verso eroico e macaronesco, e fecene un volume di venticinque libri. Quattro libri poscia della Moschea, pur sotto il medesimo nome, gli uscirono dalle mani in verso pentametro e macaronico. Successe a lei la Zanitonella con altre cosette facete. Alfine come bizaro e fantastico che era, mandò fuora sotto nome di Triperuno il Chaos in stile ora latino, ora volgare, ora de macaroni. Fatto tutto questo, per un gran disordine e pericolo della vita fummo costretti tornarsi alla patria con la zucca piena più di lasagne che di filosofia. Laonde ebbe egli dal padre tal rimbrotto e reprensione, che in guisa di disperato andò errando per lo mondo, fatto in prima cortegiano, poi soldato, poi romito. Alfine, con un suo fratello più di lui dotto, si chiuse in una solitudine a darsi totalmente a i sacri libri, ove sotto nome di Teofilo Folengo compose in in ottava rima la Umanitá di Cristo figliuol di Dio, ove nel principio si dole assai aver perduto gli anni sotto il titolo di Merlino, quando dice:
Vero è ch’un pensier grave ognor m’elice
vento dal petto e pioggia fuor degli occhi,
d’aver seguito invan l’adulatrice
mia voglia e quella piú d’alcuni sciocchi.
Scrissi giá sotto ’l nome, onde l’ultrice
fiamma del ciel par sempre in me trabocchi.
Nome di leggerezza, or me ne spoglio,
e quel che sona amor di Dio ritoglio.
Per lo nome di «legerezza» s’intende «Merlino»; per quel che sona «amor di Dio», «Teofilo». Ancora in un volumetto di Epigrammi ha inserto questo, assai elegante e fuora de macaroni:
Quae quondam, fateor, docili mihi floruit actas
magnificum poterat laudis adire iubar.
At mens decipitur iuvenum, quae lubrica saepe
unde decus poscit, dedecus inde referi.
Cum mihi praeteriti subeunt insomnia Baldi
tam pudet ut pudeat non puduisse satis.
Infelix tamen ipse minus fortasse viderer,
lusissem varios si sine dente modos.
Ed anco nel suo Iano latino in verso eroico, cosí pentendosi, parla:
Ergo erit ut semper vulgo plaudente iocosum
musa ferat Baldum? musa arida, musa choraeis
aonidum seclusa, decus quae prodigit omne,
futile dum rauca disperdit arundine carmen?
Or dunque, perseverando col frate suo in cosí buono e securo stato, al fine d’una febre maligna infermato, rese l’anima al suo fattore; la qual cosa udendo io, subito fui col fratello a ritrovar le molte carte da lui scritte. Trovammo che per cagione di ricantare avea rifatta la Macaronea, come si può leggere tutta tramutata, e di gran lunga piú dotta, faceta e onesta della prima, con un tetrastico latino, il quale è:
Tam mihi dissimilis sum factus et alter, ut illud
primum opus alterius constet, hoc esse meum.
Causa recantandi phama est aliena, malorum
iudicio et calami cuspide fossa mei.
Trovammo oltre a questo un poema vario latinamente scritto, avendo egli omai li macaroni a stomaco e nausa. Il quale pensammo di far imprimere dapoi questo, acciò si vegga espressamente quanta sia la differenzia tra il nome di Merlino e quello di Teofilo. Molti componimenti in questo sono imperfetti, ed uno massimamente di tre libri in verso eroico sopra quella operetta intitolata a Catone, il quale incomincia: Si Deus est animus. Trovammo finalmente, parte limata, parte confusamente scritta, la sua Palermitana in terza rima; opera invero tanto delettevole quanto dir si possa, come speramo farla vedere se non in tutto, almeno in parte con satisfazione d’ogni buon poeta e forse teologo. Fu egli ancora molto studioso delli vari componimenti dell’eccellentissimo ingegno del conte Matteo Maria Boiardo da Scandiano, il quale non pur cantò d’Orlando innamorato con quelle sue onorate e stupevoli invenzioni, ma diverse altre operette gli uscirono dalle mani, che veramente lo dichiarano esser stato un altro Omero in volgar stile, né possibile fia giamai ch’alcuni lo debbiano denigrare e sepellire, come cercano fare. Ed è pur vero che esso Merlino, trovandosi a ragionare con messer Lodovico Ariosto in Ferrara dell’opera sua divina, cioè del Furioso Orlando, intese da lui che nulla o poco avrebbe fatto, se la minuta, o vogliamo dire essemplare, del maestro suo Boiardo non gli fosse pervenuta alle mani: e questo si può vedere, quanto ha egli bene seguitato le lasciate istorie, come se lo spirito del conte fosse stato in lui; laonde veramente la prima laude merita il dottissimo inventore, come si è fatto in qualsivoglia industria ed arte. Il Boiardo ha dato materia grande all’Ariosto di farse quello che è: Virgilio tosco; ed esso Ariosto si è degnato con le divine sue rime tener buon conto del suo amato ed onorato precettore. Ed invero meritevolmente poteva intitolare il suo Furioso e chiamarlo: La fine de l’Orlando innamorato del gran Boiardo, composta pel suo discepolo messer Lodovico Ariosto. Ora che diremo che, se non vi si provede, non passeranno molti anni che niuna o poca nominanza sará del Boiardo, quando che alcuni si hanno fatto signori della opera sua, ed a sé posto il titolo dell’Orlando innamorato? Accadde dunque che Merlino, vedendo le rime del Furioso essere in quella altezza ponno salire, cosí di arte come di eleganzia castigatissima, gli venne desio di riformar eziandio quelle del Boiardo, essendone pur molte non respondenti alle norme limatissime d’oggi. Ma venutogli detto che un gran poeta avea tolto tanto incarico, anzi di ridurcele, come si presumea, in quella leggiadria di quelle dell’Ariosto, non volse piú oltre seguire per sua modestia e per non parere che volesse concorrere, abbassandosi molto piú forse di quello dovea fare. Ma poi, vedendo tal opera tutta tramutata, volteggiata e fatta lontana dalla prima, e che il titolo primo in fronte del libro totalmente levato era dal Boiardo ed imposto ad altro autore, non puoté non sdegnarsi amaramente contra tanto ardire. E quando il bel principio vidde tramutato, ebbe compassione all’autore di quello, che piú tosto ha reso biasmo a se stesso che laude, non sapendo forse egli che ’l conte, componendo la opera sua in quelli tempi che erano smarrite le regole della grammatica toscana, ogni giorno ne recitava un canto al duca di Ferrara, alla duchessa e tutta la corte dell’uno ed altro sesso. Però cominciò il suo bel poema:
Signori e cavallier che v'addunate.
Per questo dunque se mise il nostro Merlino a seguir l’impresa lasciata, e dove gli parea che il detto poeta limato e racconciato avesse assai bene le cose non cosí leggiadramente scritte, ha voluto dar questo onore a lui, molto piú grande che lo scorno contratto in volersi far autore di quello giamai fatto non avea. Or dunque abbiamo trovato questa altra bella fatica, e presto col suo onorato titolo verrà in luce, non senza laude di quel poeta, uomo invero di molto ingegno. Ma per tornar finalmente a parlamenti piú giocondi e festevoli, dico che1 era pur cosa sconvenevole il perdere una opera di Merlino da lui fatta cosí bella, cosí vaga, cosí piacevole; e forse maggior danno fòra suto che se anticamente si fosse perduto Vergilio, o pur ne’ tempi nostri Dante e Petrarca. Peroché non altro d’aver perduto Vergilio ne seguiva che la perdita di un buon poeta in una lingua, la quale rimaneva in molti altri che ben la parlavano e meglio vi scrivevano. Cosí dico di questi scrittori della lingua tosca, la quale non è però altro che una lingua sola e da altri belli ingegni, come ogni dí si vede, con loro scritture adornata e tersa. Ma perdersi questo (o Dio, che danno incredibile!), si perdeva un bellissimo ed ingegnosissimo autore di molte lingue insieme. Perché in questa è tessuta la latina, intersiata la toscana, messa a fregi quella de macaroni. E che piú? la franzese, la spagnuola, la tedesca, la bergamasca, la cavaiola, e infino a quella de furfanti vi può fare un fioretto e avervi loco. Ma quello che sopra tutto importa è che questa si meravigliosa lingua è riposta in questo tale autore, come in specchio ed idea di tal idioma. E senza lui è fredda, muta, stroppiata, disgraziata e peggio assai che non sono i macaroni senza botiro. Ringraziate dunque lui primamente, che ha composto sí miracoloso poema; da poi me (se non avete altro che fare) che l’ho recavato disotto terra, essendo egli sepolto in altro che nel formaggio, e l’ho fatto stampare e publicare al mondo, accioché ognuno possa assaggiare e mangiare di questa giotta vivanda. Venite dunque tutti ch’avete fame: vedete, leggete, mangiate, sfamatevi, e ricordatevi sovra tutto non esser cosa al mondo piú macaronesca che esser macarone a macaroni.
Buon pro vi faccia.
II
ARGOMENTO SOPRA IL «BALDO»
La cagione che indusse il nostro poeta a poetare in questa sí degna opera fu la prodezza, il valore, la generositá d’un scolaro mantoano della famiglia Donesmonda, chiamato Francesco, come il gran cavalier Francesco Gonzaga, ultimo marchese di Mantova, ordinò fosse nominato del nome suo, tenendolo proprio desso al fonte del battesimo. Essendo egli pur in studio di Bologna, era un stupore della sua valorositá, gagliardezza, liberalitá, bellezza, leggiadria, animositá, con un ingegno prontissimo ad ogni quantunque difficultosa impresa. Pertanto, tirandosi come fina calamita tutti e’ buon compagni dietro, diede con molti fatti materia e soggetto al nostro Merlino di fingere questo volume, sì come una scorza sotto la quale sta occulta la veritá di molte e molte cose. E cosí per la sua baldanza chiamollo Baldo, e li compagni secondo il vario costume loro nominolli chi Cingaro, chi Falchetto e il resto.
- ↑ È a cominciare da qui che Vigaso Cocaio ha incorporato nella sua prefazione la lettera di Niccolo Costanti, che nella Cipadense sussegue all’Errata-corrige e chiude il volume [Ed.]