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«Ho pianto in sogno»
Parte terza - II Parte quarta - I

CAPITOLO III.


«Ho pianto in sogno»


— Ah Dio, Silla, che orrore! — disse la signora De Bella entrando come un nembo di seta in cui due piedini nervosi tempestavano a colpi sordi. — Buona sera. È un pezzo che mi aspetta? come va? — Ella gittò sulla spalliera d’una poltrona la sua pelliccia bianca e porse a Silla una manina nuda, luccicante d’anelli. Anche la sua bocca ridente, i suoi occhi celesti scintillavano. Ella era in tulle nero e sott’abito di seta azzurra, scoperte le spalle e le braccia che aveva bellissime, senza un braccialetto, nè un medaglione, con due grandi anelli di turchesi e perle agli orecchi, un fiore azzurro in seno, un altro nei capelli biondi, molto incipriati, raccolti sopra la nuca come un gruppo di grossi serpenti. Aveva un profumo tepido di «veloutine» che parlava della sua pelle morbida.

Silla s’inchinò.

— Come va? Che bravo Silla! Non si pentirà d’esser venuto, sa? Ho tante cosettine carine carine a dirle. Sieda! Ma che orrore, neh! Come, non era in teatro Lei? Ah, non c’era. Senta bene. Adesso verrà qualcuno. Sa, dopo teatro, ho dei buoni amici che vengono a prendere il thè. Stasera ci sarà M... che, quando viene, fa sempre un po’ di temporale sul mio piano. Lo conosce? Non ha niente del pianista tipo, ma suona bene. Lei prenderà un posticino vicino a me: vicino vicino. — Cara! — (Si ricordi, parleremo).

Ella si alzò e andò incontro a una signora annunciata in quel momento, che al primo entrare artigliò Silla con una occhiata fredda e poi si rivolse sorridendo a salutar la padrona di casa.

— Che orrore, eh? — disse donna Giulia.

Presentò Silla e riprese:

— Che orrore, cara te!

— Io lo sapevo prima. Hai visto la Mirellina?

— Euh, euh! Doveva venir qua stasera. Ma come hai fatto te a saperlo?

Il cameriere tornò ad annunciare. Entrarono quasi di seguito parecchie signore e parecchi cavalieri. Le signore cinsero Giulia di un grazioso cicalio di salutini, di risatine discrete, di parolette sfumate morbidamente. Le curve spalle bianche raccolte in mezzo alla sala parata di raso azzurro, sotto la opaca luce aurea che si spandeva dai globi smerigliati delle lampade, parevano petali caduti là da un’alta invisibile magnolia grandiflora. Degli occhialetti scintillanti di curiosità oblique, delle sgraziate braccia nere s’insinuavano nel gruppo cercando un sorriso, una stretta di mano di Giulia. La sua testolina bionda oscillava, scattava a destra e a manca con brevi sussulti di riso, come la testa di un uccellino vispo. Il gruppo si sciolse, si disperse nella sala.

Silla aveva incontrata quella gente in altre case, tempo addietro, quando soleva frequentare la società molto più che non facesse ora. Le signore appartenevano alla nobiltà di secondo ordine e alla alta borghesia. Giovani e belle quasi tutte, avevano in gran parte l’aura di nascosti amori passati e presenti, di cui la gente sapeva quel tanto che basta ad accendere le fantasie sensuali, a mostrar loro negli occhi d’una donna certi languori, certi ardori che forse non ci sono. Tre o quattro di quei giovani stessi che prima attorniavano le dame e poi si erano aggruppati intorno all’una e all’altra di esse, venivan creduti amanti felici di altrettante signore presenti. Nessuno l’avrebbe indovinato al loro contegno, salvo forse a qualche rapido sguardo di sospetto geloso, saettato di quando in quando da un capo all’altro della sala. La meno prudente era una nobile signora sui quarant’anni, scollata sino a mezzo il dorso, sfoggiatamente elegante. Ell’era venuta dopo le altre, sola, un momento prima del suo amante, un giovane ufficiale d’artiglieria. Quando l’infelice parlava a qualche signora, colei lo mordeva cogli occhi.

Faceva caldo là dentro, benchè fossero aperte due larghe porte che mettevano in due altre sale illuminate: la sala dei grandi ricevimenti, gialla, grandissima, zeppa di suppellettili e quadri antichi: e la sala da musica, rosso-cupa, dove s’intravvedeva la voluttuosa Bajadera di C..., in marmo di Carrara. Nella sala azzurra v’era un tepore profumato di bellezza viva, segretamente disposta ad amare. Quei vapori salivano al cervello di Silla e, sopravvenendo dopo lunghi mesi di vita solitaria e studiosa, glielo offuscavano, gli dicevano quale fosse la felicità intensa, la vera, la sola, sia pur fugace, che è offerta all’uomo, sia pur da un cattivo genio; essere follemente amato da una di quelle donne altere con lo squisito condimento di tutte le eleganze e della colpa.

— La Mirellina non si vede — disse qualcuno.

Era la terza volta che si ripeteva questo discorso, ma la nobile signora venuta per l’ultima non l’aveva inteso.

— Che orrore, neh, Laura? — le disse la padrona di casa.

— Cara... — rispose donna Laura che badava ad altro. — Giboyer, neh?

— Oh giusto! — rispose Giulia ridendo. — Non parlo mica della commedia.

— Laura non poteva vedere — osservò un’altra signora.

— Ah, sicuro, perchè ci stai sopra.

— Ora capisco! — esclamò donna Laura. — Altro che orrore. Me l’ha detto mio marito. Vi vedevo tutti guardare e non capivo il perchè. Vedevo un ciuffo de’ capelli rossi di don Pippo e un braccio nudo dall’altra parte.

— Io però — osservò un’altra signora dopo aver dato un leggero colpo di ventaglio al suo vicino che le sussurrava qualche cosa all’orecchio — io trovo che la Mirellina ha avuto torto di andar via.

— Si è tradita da sè — soggiunse un giovane elegante che afferrava sempre l’occasione di tradurre le frasi degli altri, tanto per parlare.

Ne seguì un dialogo animato fra tutti. Chi biasimava, chi scusava questa "Mirellina" ch’era partita dal teatro perchè il suo amante v’era comparso con una signorina di ventura. Si parlava molto ma evitando ogni espressione troppo viva riguardo alla dama, velando e smorzando le parole per non offendere, senza volerlo, alcuni dei presenti di quelli che avevano simili intrighi.

— È stato un capriccio di Pippo — disse un giovinotto. — Ella ne ha perdonati tanti a suo marito; dunque?...

Ci fu un breve silenzio, come quando taluno dice cose poco opportune.

— E lei, chi è, propriamente? — chiese la signora che non aveva capito bene.

Parecchie voci le risposero; qui non c’eran più riguardi. Era una russa, no, un’inglese, no, un’americana. Ciascuno degli uomini pretendeva essere informato meglio. Si chiamava Sacha Ferline. Nome falso. Era venuta a Milano a studiare il canto, stava all'Hôtel de la Ville, e spendeva moltissimo; in questo eran tutti d’accordo. Don Pippo n’era innamorato. Tutt’altro! Alcuni parlavano di certe attrattive, sorridendo misteriosamente. Le signore pigliavano un’aria seria, si parlavano tra loro con gli occhi maliziosi.

Il cameriere annunciò la signora Mirelli.

Fu un soffio agghiacciato. Giulia, che stava preparando il thè, corse rossa rossa incontro a donna Mina Mirelli, una bella piccina, rotonda, pallida, con gli occhi neri.

— Oh, cara, cara! — diss’ella. — Non ti speravo più.

— Che vuoi? Mio marito ha mandato a chiamarmi a teatro per Max. Sai com’è mio marito. Max aveva tossito una volta, non era niente. Intanto io mi son tutta rimescolata... buona sera, Laura... E son venuta a compensarmi da te... — buona sera, Emilia. Ho fatto bene? — Buona sera, buona sera. — Tutti si erano ricomposti, facevano ressa intorno a donna Mina per salutarla, con un fervore insolito. Giulia tornò al suo thè. Dame e cavalieri rimasero in piedi, conversando di certe cose, della commedia, del principe di Piemonte che vi assisteva, di madamigella Desclée a cui le signore facevano qualche piccola censura. Gli uomini approvavano per cortigianeria; in cuor loro andavano tutti pazzi della Desclée. Silla che l’aveva udita una volta sola, ne prese la difesa; parlò del suo sguardo magnetico, del sorriso, della voce intelligente, di quel je t’aime dolce e grave che faceva pensare alla voce della regina Yseult nel verso di Maria di Francia:


La voix douce et bas li tons.


Non era corretto, in quella riunione, il calore del suo parlare. Molti ne sorrisero: pure, a taluna, questo giovane che ragionava con tanto fuoco della grazia e della bellezza non dispiacque. Lo punsero con qualche epigramma a fior di labbro, accentato di freddezza beffarda; ma poi più d’una gli rivolse la parola chiedendogli a bruciapelo, indiscretamente, delle sue opinioni e dei suoi gusti. La contessa Antonietta V..., una brutta sentimentale, amante di Heine e di Schumann, se lo trasse vicino per dirgli in segreto che lo approvava, che la Desclée era la donna da lei più invidiata sulla terra, che quella gente lì non capiva niente. Disse che avrebbe voluto sapere da lui se andassero d’accordo in tante altre cose, lo invitò ai suoi lunedì e finì porgendogli, con un sorriso, la sua tazza di thè vuota.

— Guarda l’Antonietta — disse una signora a donna Mina. — Adesso comincia a parlar d’amicizia. Non credi?

— Ma lui, chi è? — rispose donna Mina, distratta.

— Un certo Silla, nipote di filandieri, credo, che fila dei libri clandestini.

Giulia gittò due parole nell’orecchio a un giovane, che andò quindi spargendole qua e là, sottovoce, e poi s’accostò sorridendo al maestro M... che sorseggiava il suo thè in disparte. Il giovane pareva domandare qualche cosa e il maestro schermirsi. Più persone gli si strinsero attorno insistendo con la voce e il gesto. Donna Giulia gli mandò senza muoversi una delle sue vocine toccanti. Allora colui si arrese e mosse, tra i — bravo — sommessi, verso la sala da musica, gemendo.

— Ma... non saprei... veramente. — Giulia gittò altre due parole nell’orecchio del suo primo ministro e, passando presso a Silla, gli disse piano e rapidamente, senza guardarlo:

— Lei resti qui con me.

Tutti si avviarono nella sala da musica.

— Cosa suonerò? — disse il maestro, seduto davanti a un magnifico Erard, con le mani sulle ginocchia, guardando la candela di sinistra.

— Ci suoni Frühlingsnacht — gli sussurrò con la sua voce timida la contessa Antonietta, che suonava ella pure stupendamente.

— Oh, troppo poco — disse l’agente segreto di donna Giulia.— Ci vuole un gran pezzo di concerto.

A quel tempo regnava ancora Thalberg. Qualcuno propose la sua fantasia sulla Sonnambula.

— Ecco il temporale — disse donna Giulia a Silla, mentre il maestro tuonava sulla tastiera per isgranchirsi le dita, come un Giove invecchiato.

Ella si gittò in una poltrona dove non potevano vederla dall’altra sala. I suoi capelli biondi, le spalle ignude spiccavano mirabilmente sul raso azzurro. Battè con la punta del ventaglio di madreperla e pizzo una scranna vicina. Silla obbedì.

— C’è una signorina — diss’ella — che s’interessa molto di Lei.

— Di me?

— Di Lei. La prego, Silla, non faccia il modesto. Non mi piacciono gli uomini modesti. Di lei, sicuro. Una signorina molto bella, molto nobile, molto elegante, di molto spirito, molto amica mia insomma. Faccia un inchino. Questa signorina ha letto il suo — Sogno — anonimo e le è piaciuto molto, pare, come è piaciuto a me.

Silla fece un secondo inchino.

— E questa signorina — diss’egli sorridendo — si chiama...?

— Oh come corre, come corre! — rispose donna Giulia con una risatina sottovoce. — Questa signorina non si può sapere come si chiama. Questa signorina non conosce Lei. Sa appena il suo nome, perchè gliel’ho fatto sapere io l’anno scorso dopo quel giorno che ci siamo incontrati in via San Giuseppe. Me lo aveva chiesto pochi giorni prima, ma se non era il nostro amico di Berlino e un po’ così... — (Donna Giulia si fece scintillare sulla fronte, con un atto grazioso della mano, gli anelli) — non l’avrei saputo certo. Convien dire che il nome le sia andato molto a genio perchè le ha messa attorno una curiosità, un interesse, una cosa insomma! Sa? Voleva conoscere la Sua vita, le Sue abitudini, le Sue relazioni, tante cosettine a cui ci teniamo noi donne. Io le avevo promesso un monte di informazioni, sperando che quest’inverno Lei si sarebbe lasciato vedere un po’ di frequente. Ma Lei ha fatto l’orso. Dio, Silla, come ha fatto l’orso! Dunque senta; adesso deve venire spesso, spesso, spesso e lasciarsi studiare un po’.

Ella gli stese la mano sorridendo e trattenne quella di Silla.

Donna Giulia aveva una bella riputazione di civetta. Si diceva però ch’ell’era una farfallina d’amianto. La definizione era attribuita a suo marito che non le si vedeva mai accanto nè in casa, nè fuori, e che avrebbe giustificato a questo modo, in un colloquio intimo, la sua fiducia indolente. Silla lo sapeva; gli balenò che la signorina ignota fosse una ispirazione poetica, ma egli presumeva troppo poco di sè per affermare risolutamente quest’idea.

— Verrò certo — diss’egli — ma non per una x così nebulosa...

— No, no, no — lo interruppe Giulia. — Non complimenti. Dio, ne sento tanti, Silla! Dica che verrà molto per la x e un pochino anche per me, non è vero? O per mia cugina Antonietta — soggiunse con un malizioso sorriso. — La conosceva?

— L’ho vista una volta in casa B...

— Ah, va dalla B... Lei? Senta, non cerchi mica la x fra le mie amiche, sa! Non sta a Milano.

— Non sta a Milano? — disse Silla trasalendo.

— No. Zitto adesso. Come è bello questo!

Il piano cantava:


Ah non credea mirarti.


La lenta melodia saliva saliva affannosamente una via dolorosa, cadeva spossata, rilanciavasi avanti, ricadeva con la sua divina grazia di movenze.

— Dio, come pesta — disse Giulia. — Capisco niente — soggiunse in milanese sospirando. — Senta adesso se non pare una canzone napoletana:


Piangeva sempre ca dormiva sola.

Ella si commoveva, il suo petto, le spalle si sollevavano, tradivano un flutto interno. Alla ripresa della melodia mormorò:

— Questo lo fa bene.

Infatti M... eseguiva la variazione del trillo perfettamente. Pareva un tremito melodioso di due ali prigioniere, folli di dolore.

— Non sta a Milano — riprese Giulia, tranquillissima, quando ricominciò più furiosa che mai la tempesta degli accordi. — Oh, sta in una cornice romantica. Si figuri un laghetto perduto tra le montagne, un castello nero nero seduto sulla riva verde, un castellano nerissimo, insomma un’occhiata di Scozia. Io non ci sono stata, sa, ma me lo figuro così. Ci devono essere dei grandi cipressi. D’un solitario poi! Il lago è impossibile, senza ville tranne questa. Se non fa lui un po’ di causerie quando c’è vento, silenzio profondo sempre sempre. La mia amica ha una barchettina e gira sola, magari la notte, come una dea selvaggia. Sa, un magnifico posto per un capriccio, per passarvi un quindici giorni in buona compagnia, dormant peu, rêvant beaucoup, leggendo qualche libro amico, dolce e tranquillo, erborizzando sulle montagne, facendo musica la sera, sul lago; non di questa, però! Povera Sonnambula, che eccidio, quel Thalberg! Ma lei, la mia amica, ci fu relegata sola, con uno zio tiranno...

Giulia balzò in piedi, interrompendosi, e corse nell’altra sala, mentre M... rosso, sudato, coi capelli cadenti sugli occhi, schiacciava gli ultimi accordi. Ella battè, piano, le mani.

— Perfetto — disse.

Vi fu qualche altro sommesso applauso e molti «benissimo» detti più o meno forte secondo la riconosciuta autorità del giudice. Quelli che non capivano affatto si sussurravano fra loro:

— Benissimo, eh.

— Perfettamente.

La contessa Antonietta cercava Silla con gli occhi. Egli comparve qualche momento dopo, pallido, trasognato. Andò a contemplare la Bajadera di marmo.

— Che le pare di questa musica? — gli sussurrò a fianco la vocina morbida di donna Antonietta.

Egli si voltò bruscamente, come sorpreso; credette che la signora gli avesse parlato della statua, e rispose a caso.

— Bellissima!

— Oh, anche Lei! No, è un orrore. Voglio rifarla io la Sua educazione musicale.

— Antonietta! — disse donna Giulia. — Mi accompagni un po’ di Schumann?

— Certo cara. — Lei stia attento disse donna Antonietta a Silla, sottovoce; e andò al piano, levandosi i guanti, fra un fuoco vivo di complimenti.

Allora l’ufficiale d’artiglieria, un piemontese, piccolo, snello, con due occhi sfavillanti di brio diabolico, venne a stringere la mano a Silla.

— Tu qui! — diss’egli.

Conoscenti d’Università, si erano poi riveduti, ma di rado.

— Sediamo qui in un angolo — soggiunse l’ufficiale — e chiacchieriamo un po’ mentre quegl’imbecilli si rompono la testa col loro Schumann. Come va che ti trovo in società? In tre mesi che sono a Milano non ti ho veduto mai. Qual è la tua?

— La mia?

— Eh, Cr..., sì la tua « maîtresse ». — Sai qual' è la mia? È quel pezzo là in bianco e « mauve » con quel monte Rosa di spalle. La conosci? È contessa, baronessa, marchesa, che so io, il diavolo che la porti. Cambio presto, è troppo gelosa. Un pezzo da quaranta suonati. Ma è ancora bella donna. Cr... se è bella donna! E come sente! La tua non sarà mica quel gambero che suona, eh?

— Sei pazzo, taci — rispose Silla.

— È forse la... la... è inutile, io dimentico tutti i nomi; quella bruna in rosa, insomma? Ah no no! quella là è di B... La padrona di casa, canaglia?

— Ma no, via, taci.

— Bravo, a quella lì ci voglio far la corte io. « Toujours de l’audace ». Ma è impossibile che non ci abbi anche la tua. Cosa si viene a far qui se non si viene a fare all’amore? Guarda che gruppo di belle donne! Posson dar dei punti, per forme, a quel pezzo di marmo lì, ci scommetto; almeno la mia certo; e sono di marmo caldo. Vedi la bruna, che magnifiche occhiate a B...! Guarda tre passi a destra, gira gira adagio finchè trova gli occhi di lui, vi getta dentro un bacio e finisce piano piano il suo quarto di giro.

Intanto donna Giulia cantava con poca voce ma con molta arte un’appassionata musica scritta da Schumann su parole di Heine. Ella usava questa inelegante versione fatta per lei da un poetucolo giovinetto che palpitava presso il piano, guardando la dolce bocca onde uscivano, ebbri di amore, i suoi versi:


Ho pianto in sogno, ho pianto:
Giacevi nell’avel.
Balzai dal sonno; il pianto
Spandeami a’ cigli un vel.

Ho pianto in sogno, ho pianto:
Ero tradito e sol.
Balzai dal sonno, e tanto
Piansi d’amaro duol.

Ho pianto in sogno, ho pianto:
M’eri fedele ancor.
Balzai dal sonno; il pianto
Pioveami a fiumi ognor.


— Lasciami ascoltare — disse Silla, e andò all’angolo opposto della sala. Si trovò presso alla signora Mirelli ch’era pallidissima e aveva le lagrime agli occhi. Donna Giulia cantava:


                         Ho pianto in sogno, ho pianto:
                         Ero tradito e sol.


Pareva veramente una musica mista a qualche triste sogno, con le sue prime note insistenti dolorose. Diceva a Silla come la piova in casa di Edith: « Piangi, il tuo sogno è finito ». Ma egli, sbalordito, credeva di sognarne un altro, amaro anche questo. L’amica di donna Giulia era Marina. Marina avea tanto pensato a lui! Ah, quello sguardo sorpreso al chiaro dei lampi! Forse lo aveva amato. Sperarlo adesso quando egli avrebbe avuto bisogno di dimenticare il mondo e l’anima nelle braccia di una donna, ed ella viaggiava, novella sposa, chi sa per dove! Derisione, derisione! Gli altri erano felici! Gli altri avevano l’amore voluttuoso di cui respirava il profumo, l’amore appassionato di cui ascoltava lo slancio nella musica che mirava su verso il cielo, spossata, in un grido:


                         Balzai dal sonno; il pianto
                         Pioveami a fiume ognor.


Gli altri, gli uomini come quell’ufficiale!

Gli applausi, assai caldi stavolta, lo scossero. Si avvicinò al piano, con la febbre addosso.

Tutti lodavano la musica e le esecutrici che invocarono una parola di lode per il poetucolo, rosso rosso. Egli ebbe da donna Giulia uno special sorriso a cui parve tenesse molto.

— Dunque? — chiese donna Antonietta a Silla, riassettando i guanti alle sue dita affusolate. — Ha pianto?

— No, perchè non piango mai; ma ho sognato di piangere.

Malheur à qui n’est pas ému — diss’ella. — Lunedì le faremo sentir qualche altra cosa.

Ella andò quindi ad abbracciare Giulia.

— Addio, cara — disse.

— Così presto?

Fu il segnale dello scioglimento. Tutte le carrozze erano state annunziate. Baci, sorrisi, paroline affettuose, ringraziamenti. Silla fu degli ultimi che vennero a stringer la mano a donna Giulia. Ella gliela rifiutò.

— Aspetti lì — disse. — La sequestro per due minuti ancora.

E salutò gli altri.

Si voltò quindi al prigioniero. — Pensare — diss’ella — che io ho fatto una brutta parte per Lei, prima di conoscerla! Non mi domandi niente, non voglio essere indiscreta. Dica un poco, Silla, non piglia fuoco per le mie rivelazioni di stasera? Ne aggiungerò un’altra; quest’inverno la signorina voleva il Suo ritratto. Io ho detto: no, carina, si va troppo avanti. Adesso poi se ha pigliato fuoco, spengo. La signorina dev’essersi fatta sposa ier sera ed è felice. Lo porti a me, il ritratto. Sempre il venerdì, sa bene, tra le quattro e le sei.

— Ma...

— Non c’è ma. Vada, vada che non facciamo dire cattiverie. Venerdì!

Egli discese le scale dietro la Mirelli, ch’era con donna Laura. Pareva che avessero lasciato in sala il loro viso amabile e presone uno brusco nell’anticamera. La Mirelli parlava piano, in fretta, guardando in basso. Silla non intese che queste parole:

« Ho capito benissimo. »

C’erano cavalli nell’atrio che si impennavano, scalpitavano, facevano il fracasso d’uno squadrone. Gli staffieri chiamavano le carrozze. Silla scivolò in mezzo a quella confusione e uscì solo.

Stava per mettere la chiave nella toppa della sua porta, quando fu accostato da un fattorino del telegrafo.

— Di grazia — disse questi, — un certo signor Corrado Silla sta in quella porta lì?

— Sono io.

— Tanto meglio. Telegramma urgente. Vuole un lapis?

Silla scrisse la ricevuta sotto un fanale vicino. L’altro se ne andò. Silla aperse il telegramma e lesse:


«Il conte Cesare, gravemente infermo, desidera che Ella venga al Palazzo. M. di Malombra ne La prega. Domani alle 10 ant. Vi sarà un calesse alla stazione.

«Cecilia.»


Egli partì alla mattina.


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