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George Gordon Byron - Manfredo (1817)
Traduzione dall'inglese di Silvio Pellico (1883)
Atto secondo
Atto primo Atto terzo

ATTO SECONDO.


SCENA I.

Capanna nelle Alpi di Berna.

MANFREDO e il CACCIATORE.


Cacciatore. No, no, riposati, non devi ancora uscire. La tua mente e il tuo corpo sono egualmente incapaci, almeno per alcune ore, di fidarsi un all’altro; quando starai meglio, io sarò tua guida, ma per qual parte?

Manfredo. Non importa: conosco benissimo la mia strada, e non ho d’uopo di guida.

Cacciatore. Il tuo aspetto e il tuo contegno ti palesano d’alto lignaggio, uno di quei capi supremi di cui le rupi sormontate di castella guardano sulle profonde valli; — qual di esse ti chiama signore? Io non conosco altro che le loro porte; il calle della mia vita mi conduce di rado a scaldarmi agli enormi focolari di quelle vecchie sale, banchettando coi vassalli; ma i sentieri che vanno dalle nostre montague alle loro porte, io li conosco dall’infanzia; — qual è fra queste la tua?

Manfredo. E che importa?

Cacciatore. Ebbene, signore, perdona alla mia domanda, e sii di miglior cera. Vieni, gusta il mio vino; è d’un’antica vendemmia; molte volte ha sciolto il gelo delle mie vene in mezzo alle nostre ghiacciaje, or faccia altrettanto alle tue. Vieni, rispondi al mio brindisi.

Manfredo. Via, via! v’è del sangue sull’orlo! Non cadrà dunque mai — mai nella terra?

Cacciatore. Che intendi dire? i tuoi sensi vaneggiano.

Manfredo. Dico che è sangue — il mio sangue! la vera calda corrente che scorrea nelle vene di mio padre e nelle nostre, quando eravamo nella nostra gioventù, ed avevamo un cuore, e ci amavamo un l’altro come non avremmo dovuto amarci, e questo sangue fu versato; ma ancora si rialza colorando le nubi che mi chiudono fuori del cielo, dove tu non sei — ed io non sarò mai.

Cacciatore. Uomo di strane parole, se hai qualche peccato che ti altera la mente o popola al tuo sguardo il vuoto di fantasmi, qualunque sia il tuo terrore e il tuo patimento, v’è conforto ancora — l’ajuto dei santi uomini e la celeste pazienza.

Manfredo. Pazienza, pazienza! lungi da me; — questa parola fu fatta pei bruti da soma, non per gli augelli di rapina; raccomandala ai mortali di una polvere simile alla tua, — io non sono del tuo ordine.

Cacciatore. Grazie al cielo! io non vorrei esser del tuo per la libera fama di Guglielmo Tell; ma qualunque sia il tuo male, convien sopportarlo, e questi selvaggi impeti sono inutili.

Manfredo. Non lo sopporto? — Guardami. — Io vivo.

Cacciatore. Questa è convulsione e non vita in salute.

Manfredo. Ti dico, o uomo, ch’io ho vissuto molti anni, molti lunghi anni, ma essi sono un nulla in paragone di quelli ch’io devo numerare; secoli — secoli — spazio ed eternità — e coscienza di me stesso colla fiera sete della morte — e non disfatto mai!

Cacciatore. Eppure sulla tua fronte il suggello della mezza età è appena impresso, io sono molto più vecchio di te.

Manfredo. Credi tu che l’esistenza dipenda dal tempo? Sia; ma le azioni sono le nostre epoche; le mie hanno fatto i miei giorni e le mie notti di una durata infinita immortale, e sempre simili come la sabbia sul lido, innumerevoli atomi; deserto sterile e freddo su cui le feroci onde si rompono, ma nulla resta fuorchè carcami e naufragi, sassi ed alghe amare.

Cacciatore. Oimè! è fuor di senno — ma pur non devo abbandonarlo.

Manfredo. Così lo fossi! — allora le cose ch’io vedo, non sarebbero che un sogno agitato.

Cacciatore. Che vedi tu, o che pensi tu vedere?

Manfredo. Me stesso e te — contadino delle alpi — le tue umili virtù, l’ospitale tua casa, uno spirito paziente, pio, altero e libero; il rispetto di te medesimo fondato sopra innocenti pensieri; i tuoi giorni di salute e le tue notti tranquille; le tue pene nobilitate dal pericolo, quantunque innocenti; la speranza d’una lieta vecchiaja o d’un quieto sepolcro con una croce e una ghirlanda sulla sua verde zolla, o l’amore dei figli de’ tuoi figli per epitafio; questo io vedo — e allora guardo qui dentro. — A nulla giova, — l’anima mia ardeva già prima!

Cacciatore. E cangieresti la tua sorte colla mia?

Manfredo. No, amico! Non vorrei nuocerti, nè cambiare la mia sorte con alcun essere vivente: io posso sopportarla; benchè miserabilmente, pur è ancora sopportabile — questa vita che gli altri inorridirebbero di sognare, e morrebbero dormendo.

Cacciatore. E con questi — questi premurosi sentimenti per le pene d’un altro, puoi tu essere nero di delitti? — non dirlo. Può alcuno che abbia pensieri sì gentili aver preso vendetta sopra i suoi nemici?

Manfredo. Ohi no, no, no! I miei torti si rovesciano su coloro che mi amano, su coloro ch’io maggiormente amai; non estinsi mai un nemico, fuorchè in mia giusta difesa — ma i miei amplessi furono fatali.

Cacciatore. Il cielo ti dia riposo! e la penitenza ti renda a te stesso; le mie preghiere saranno per te.

Manfredo. Io non ne ho di bisogno, ma posso tollerare la tua pietà. Or parto — n’è tempo — addio! — Eccoti dell’oro e i miei ringraziamenti.— Non replicare — ti è dovuto.— Non seguirmi. — So la mia strada — il pericolo della montagna è passato: — una volta ancora te l’impongo, non seguirmi! (Manfredo esce.)


SCENA II.

Un’ima valle nelle Alpi. — Una cateratta.

Entra MANFREDO.


Manfredo. Non è mezzodì; — i raggi dell’arco solare1 attraversano ancora il torrente coi varii colori del cielo, e rotolano l’ondeggiante colonna di foglio d’argento giù perpendicolarmente sulla rupe, o scagliano in lungo le loro linee di spumante luce, e qua e là, simile alla coda del pallido corsiero, del gigantesco cavallo che dev’essere cavalcato dalla morte, come dice l’Apocalisse. Altri occhi fuorchè i miei non bevono questa vista di delizia; vorrei essere sempre solo in questa dolce solitudine, e dividere col Genio del luogo gli omaggi di queste acque. — Evochiamolo. (Manfredo prende un po’ d’acqua nella palma della mano, e la getta in aria, mormorando lo scongiuro. Dopo una pausa, la Fata dell’Alpi sorge sotto l’arco che fanno i raggi del sole al torrente.)

Manfredo. Leggiadro Spirito! la tua chioma è di luce, e gli occhi tuoi scintillano di gloria; nella tua bella forma le figlie meno mortali della terra crescono a sovrumana statura, in un’essenza di purissimi elementi. I tuoi colori sono quelli della gioventù; — la tua carnagione è simile alla guancia d’un fanciullo dormiente, ondeggiato dai battimenti del cuore materno, o simile alle tinte rosee che lascia il crepuscolo estivo sulla virginea neve delle ardue ghiacciaje, quasi rossore della terra in abbracciamento col cielo. — Tai colori splendenti sul celeste tuo volto umiliano le bellezze dell’arco solare che s’inclina sopra di te. Leggiadro Spirito! nella chiara tranquilla tua fronte, dove è specchiata la serenità dell’anima che dimostra l’immortalità di essa, io leggo che tu perdonerai a un figlio della terra — le astruse potenze della quale gli permettono qualche volta di conversar con loro — s’egli si prevale dei suoi incanti per chiamarti e vagheggiarti un momento.

Fata. Figlio della terra, io conosco te e le potenze che danno potenza a te; io ti conosco per un uomo di molti pensieri e di molte azioni nel bene e nel male, estremo in ambidue, fatale o fatato nei tuoi patimenti. Io ho aspettato questo,— che vuoi da me?

Manfredo. Contemplare la tua bellezza,— nient’altro. L'aspetto della terra mi ha tolto il senno, ed io prendo rifugio ne’ suoi misteri, e penetro nel soggiorno di coloro che la governano — ma essi non possono ajutarmi. Io ho cercato da loro ciò che non poteano concedere, e or non cerco più altro.

Fata. Qual potrebb’essere la domanda che non possano soddisfare i potentissimi, i regolatori dell’invisibile? Manfredo. Una grazia; ma che giova ripeterla? sarebbe vano.

Fata. Io non la conosco; il tuo labbro la pronunzi.

Manfredo. Ebbene, ancorchè ciò mi tormenti, non importa; il mio dolore troverà una voce. Fin dalla mia gioventù il mio spirito non camminò mai colle anime degli uomini, nè guardò con occhi umani la terra; la sete della loro ambizione non era la mia; lo scopo della loro esistenza non era il mio; le mie gioje, i miei dolori, le mie passioni e le mie facoltà faceano di me uno straniero; quantunque io ne portassi la forma, non avea simpatia colla carne respirante, nè fra le creature di creta che mi circondavano ve ne fu altra che una — ma di quella parlerò poi. Dissi che cogli uomini e co’ loro pensieri non ebbi se non poca comunione; ma invece, la mia gioja era nel deserto a respirare la difficile aria della gelata cima delle montagne, dove gli uccelli non osano fabbricare, nè l’ale dell’insetto sorvolare sul granito nudo d’erba; o a scagliarmi nel torrente e rotolarmi sul rapido vortice della nuova onda spezzantesi del fiume o dell’oceano, nel loro gonfiarsi. In queste cose la mia giovenil forza esultava; oppure in seguire, durante l’intera notte, la commovente luna, le stelle e il loro svolgimento; o in cercare gli abbaglianti lampi finchè i miei occhi ne fossero offuscati; o nel guardare, ascoltando, sopra le sparse frondi, quando i venti dell’autunno susurravano il loro canto della sera. Tali erano i miei diletti, e principalmente lo star solo; chè se gli enti, dei quali io era uno — abborrendo di esser tale — traversavano la mia via, io mi sentiva degradato dietro loro e ridiveniva tutto creta. E allora io errava solingo e scendeva nelle fosse della morte, cercando la sua causa nel suo effetto, e traeva dalle aride ossa, dai cranii e dall’ammucchiata polvere le più illecite conclusioni. Allora io passava le notti degli anni in scienze che non si studiarono fuorchè nell’età remota; e con tempo e fatica, e terribili prove e penitenze tali che hanno possanza sopra l’aria e gli spiriti che misurano aria e terra, e spazio e il popolato infinito, i miei occhi facev’io famigliari coll’Eternità, come, pria di me, fecero i Magi e colui2 che dalle loro abitate fontane trasse fuori Eros ed Anteros a Gadara, come io traggo te; — e col mio sapere crebbe la sete del sapere, e il potere e la gioja di questa chiarissima intelligenza, finchè —

Fata. Continua.

Manfredo. Oh! non ho fatto che prolungare le mie parole, vantando questi vani attributi, perchè siccome io m’avvicino al massimo de’ miei cordogli.... — Ma si prosiegua. Non ti ho nominato nè padre, nè madre, nè amante, nè amico, nè alcuno degli enti con cui portai la catena dei vincoli umani; s’io gli ebbi, essi non parvero tali a me. — Eppur ve ne fu uno.—

Fata. Non contenerti — prosiegui.

Manfredo. Ella era simile a me nei lineamenti, — i suoi occhi, la sua chioma, le sue fattezze, tutto fino al suono della sua voce, dicevasi che fosse simile al mio; ma tutto raddolcito e temperato nella bellezza; ella aveva gli stessi solinghi ed astratti pensieri, l’avidità delle occulte cognizioni e una mente da comprendere l’universo; nè queste cose sole, ma con esse alcune facoltà più gentili delle mie, la pietà e i sorrisi e le lagrime — che io non aveva; e la tenerezza, — ma questa io l’aveva per lei; l’umiltà, — e questa non l’ebbi mai. Le sue colpe furono mie; — le sue virtù furono proprie di lei. — Io l’amava, e la distrussi!

Fata. Colla tua mano?

Manfredo. Non colla mia mano, ma col cuore — che lacerò il suo cuore, — questo si fissò sopra il mio e inaridì. Ho sparso sangue, — ma non il suo; — eppure il suo sangue fu sparso — lo vidi — e non potei ristagnarlo.

Fata. E per colei — per un ente della razza che tu dispregi, d’un ordine sul quale vorresti innalzarti, mischiandoti con noi e coi nostri, tu rinunzi ai doni del nostro alto sapere, e retrocedi alla vile mortalità?— Via!

Manfredo. Figlia dell’aria! Io ti dico che da quell’ora — ma le parole non sono altro che vento — guardami ne’ miei sonni, o veglia sulle mie veglie. — Ponti a sedere presso di me! La mia solitudine non è più solitudine, ma è popolata dalle Furie; — ho digrignato i denti nell’oscurità fino al ritorno del mattino, e allora ho maladetto me stesso fino al tramonto del sole; — ho pregato per ottener la pazzia come una grazia — ella m’è negata. Ho affrontata la morte — ma nella guerra degli elementi le acque si scostarono da me, e gli accidenti fatali passarono senza nuocermi, — la fredda mano d’uno spietatissimo demonio mi ritenne; mi ritenne per un solo capello che non volle rompersi. Nella idealità, nell’immaginazione, in tutta l’affluenza dell’anima mia, che un giorno era un Creso di creazione — io mi ingolfai; ma mi rispinse quasi un’onda regurgitante, nell’abisso immensurabile del mio pensiero. M’ingolfai nella società.— Io cercai l’obblio dappertutto, fuorchè dove egli si trova, e questo ho ad imparare — le mie scienze, la mia lungamente studiata arte soprannaturale, è mortale qui. — Abito nella mia disperazione — e vivo — e vivo per sempre.

Fata. Io forse potrò ajutarti.

Manfredo. Per ciò fare, il tuo potere deve risuscitare i morti o pormi a giacere con essi. Accingiti, sì — in qualunque forma, in qualunque ora, — con qualunque tormento — sia almeno l’ultimo.

Fata. Questo non è in mia facoltà; ma se vuoi giurare obbedienza al mio volere, e far ciò che t’impongo, io potrò adempire alle tue brame.

Manfredo. No, non giurerò. — Obbedire! e chi? gli spiriti alla di cui presenza io comando, ed essere lo schiavo di coloro che mi servivano. — Non mai!

Fata. È questo tutto? non hai altra più gentile risposta? Riflettivi, e indugia prima di rigettare la mia offerta.

Manfredo. Ho detto.

Fata. Or basta! — mi ritiro dunque: — parla!

Manfredo. Ritirati. (La Fata sparisce.)

Manfredo (solo). Noi siamo i ludibrii del tempo e del terrore: i giorni vengono lenti, rubano le cose nostre e la nostra propria esistenza; eppure noi viviamo abborrendo la nostra vita e temendo nondimeno di morire. In tutti i giorni di questo detestato giogo, — di quest’aggravio di vita che pesa sull’agitato cuore, languente con dolore o palpitante con pena, di questa gioja che finisce in agonia o deliquio, — in tutti i giorni del passato e del futuro, poichè nella vita il presente non v’è, noi possiamo numerare quanto pochi, — quanto pochissimi sono quelli — in cui l’anima non palpiti d’affanno pensando alla morte, e non ne inorridisca cionnonostante come d’un ruscello in inverno, quantunque il freddo non sia che d’un momento. Ho ancora un ajuto nella mia scienza. — Posso evocare i morti, e chieder loro qual luogo sia quello in cui temiamo di essere: la più severa risposta sarà la tomba, e questo è niente. — Se non rispondessero...— Il sepolto profeta rispose alla Maga di Endor; e il monarca spartano trasse dal veggente spirito della bizantina vergine una risposta e il suo destino. — Egli uccise ciò ch’egli amava, non sapendo ciò ch’egli uccideva, e morì non perdonato. Quantunque chiedesse in ajuto il Frigio Giove ed in Figalia movesse gli Arcadi Evocatori a intimare alla sdegnata ombra di deporre la sua ira, o di fissare il termine della sua vendetta, — ella rispose in parole di dubbio significato, ma le adempì.3 S’io non fossi mai vissuto, colei ch’ io amo, vivrebbe ancora — s’io non avessi mai amato colei ch’io amo, sarebbe ancora bella — felice e spargente sugli altri la felicità. Che è dessa? che è dessa ora? — una creatura che soffre pei miei peccati — un ente al quale non ardisco di pensare — o niente. Fra poche ore io non l’invocherò indarno. Eppure in quest’ora pavento ciò ch’io bramo. Finora non raccapricciai mai guardando alcuno spirito, buono o cattivo; — ora io tremo, e sento un singolar gelo che mi si scioglie nel cuore, ma posso fare appunto ciò che più abborro, e trionfare degli umani terrori. — La notte s’avvicina.— (Esce.)


SCENA III.

La cima della montagna di Jungfrau.

Entra LA PRIMA PARCA.


La luna sorge larga, rotonda e luminosa; e qui sulle nevi dove piede umano di mortale volgare non s’impresse mai, noi di nottetempo camminiamo, e non lasciamo traccia; sul selvaggio mare, sul vitreo oceano di ghiaccio delle montagne, noi schiumiamo le scoscese sue onde che prendono l’aspetto d’una rotolante spuma tempestosa, gelata in un momento, — immagine d’un vortice morto; e questa arduissima fantastica cima, avanzo d’un terremoto — dove le nubi passando si fermano per riposarsi — è sacra alle nostre tresche notturne e alle nostre vigilie; qui aspetto le mie sorelle sul cammino che ci conduce alla sala di Arimane. Questa notte è la nostra gran festa. — È strano che non vengano.

Una voce al di dentro canta. L’usurpatore prigioniero, precipitato dal trono, giace sepolto nel letargo, dimenticato e solo; io traversai i suoi sogni, scossi le sue catene, lo collegai colle schiere, — egli è tiranno ancora! Col sangue d’un milione d’uomini ei rispose alle mie cure, collo sterminio d’una nazione, — colla sua fuga e colla sua disperazione.

Seconda voce. La nave veleggiava, veleggiava rapida la nave, ma io non le lasciai una vela, non le lasciai un albero; non v’è una tavola della carena o del ponte: non v’è un meschino che si lamenti del suo naufragio; tolto uno, ch’io tenni per un capello mentre nuotava, degno in vero delle mie cure, un traditore su terra, e un pirata su mare, — ma lo salvai per procurarmi maggiori distruzioni.

La prima Parca risponde. La città è addormentata; sorgerà il mattino a deplorarla piangendo su di lei: torvamente, lentamente l’atra peste sovra lei sta sorvolando; migliaja d’uomini sono atterrati: — a decine di migliaja periranno: i vivi fuggiranno dagli infermi a cui dovrebbero lo loro cure; ma nulla può vincere il tocco dal quale saranno uccisi. Tormento è angoscia, morbo e terrore impigliano un’intera nazione, — i felici sono i morti che non vedono la loro desolazione. — Questa è l’opera d’una notte — lo sterminio d’un regno, l’effetto della mia azione; — per secoli ho lavorato, e proseguirò ancora. (Entrano la seconda e la terza Parca.)

Tutte tre. I cuori degli uomini stanno nelle nostre mani; le nostre pedate sono le loro tombe; non diamo che per riprenderli, gli spiriti dei nostri schiavi.

Prima Parca. Benvenute! — Dov’è Nemesi?

Seconda Parca. A qualche grand’opera; ma non so quale, poichè le mie mani son piene.

Terza Parca. Ecco, ella viene. (Entra Nemesi.) Prima Parca. Dove sei stata? — Le mie sorelle e tu siete tarde questa notte.

Nemesi.Io fui trattenuta a riparare troni crollanti, a maritar pazzi, a ristorar dinastie, a vendicar uomini dei loro nemici, e a farli pentire della loro vendetta; a spingere savii alla follia, ed imbecilli a pronunciare oracoli per riordinare il mondo; perocchè in disuso omai erano gli oracoli, ed osavasi dagli uomini ponderare da sè medesimi i loro interessi, pesare i re nella bilancia e parlare della libertà, frutto proibito. — Andiamo! abbiamo già oltrepassata l’ora, — montiamo le nostre nubi! (Sortono.)


SCENA IV.

Sala d' Arimane.

ARIMANE in trono, un globo di fuoco circondato dagli Spiriti.


Inno degli Spiriti. Salute al signor nostro! — principe della terra e dell’aria! — che calpesta le nubi e le acque. Nella sua mano è lo scettro degli elementi che tornano in caos a un suo cenno. Ei respira — e una tempesta agita il mare; egli parla — e le nubi rispondono col tuono; egli guarda — e da’ suoi occhi vibrano i raggi del sole; egli si move, — il terremoto lacera il mondo. Sotto i suoi passi sorgono i volcani; l’ombra sua è la pestilenza; il suo cammino le comete vagabonde pei risonanti cieli; e i pianeti s’inceneriscono all’ira sua. A lui la guerra offre un quotidiano sacrificio; a lui la morte paga il suo tributo; sua è la vita con tutta l’infinità delle sue agonie — e suo lo spirito di tutto ciò che è! (Entrano le Parche e Nemesi.)

Prima Parca. Gloria ad Arimane! sulla terra cresce il suo potere; — ambe le mie sorelle eseguirono i suoi cenni, nè io trascurai il mio dovere!

Seconda Parca. Gloria ad Arimane! noi che curviamo le cervici degli uomini, ci curviamo davanti al suo trono!

Terza Parca. Gloria ad Arimane! — noi aspettiamo il suo cenno. Nemesi. Re dei re! noi siamo tue, e tutto ciò che vive più o meno è nostro, e nostre son pure generalmente le cose inanimate; quando ci occorre di accrescere il nostro potere accrescendo il tuo, noi siamo vigili; — i tuoi ultimi comandi sono stati pienamente adempiti. (Entra Manfredo.)

Uno Spirito. Chi è qua? Un mortale! — Arditissimo e fatale scellerato, inchinati e adora!

Secondo Spirito. Conosco quest’uomo — un mago di gran potere e di terribile sapienza!

Terzo Spirito. Inchinati e adora, schiavo! — Che? non conosci il tuo e nostro sovrano? — Trema e obbedisci!

Tutti gli Spiriti. Prostra te e la tua condannata creta, o figlio della terra! o paventa tutto ciò che v’è di peggio.

Manfredo. So in che consiste; eppur vedete che non mi sono inchinato.

Quarto Spirito. T’insegneremo ad umiliarti.

Manfredo. L’ho già imparato; — molte notti sulla terra, sul nudo pavimento ho prostrata la mia faccia, e sparsa la mia testa di cenere; ho conosciuto l’estremo dell’umiliazione, perchè son caduto dinanzi alla mia vana disperazione e ho piegato le mie ginocchia dinanzi alla mia desolazione.

Quinto Spirito. Osi ricusare ad Arimane sul suo trono ciò che la terra intiera gli concede, senza guardarlo nel terrore della sua gloria. — Abbássati, dico!

Manfredo. S’inchini egli dinanzi a colui che è sopra di esso, l’onnireggente Infinito — il Fattore che lo creò non per essere adorato; — si prostri egli e ci prostreremo insieme.

Gli Spiriti. Schiaccia il verme! laceralo in pezzi!

Prima Parca. Olà, indietro! — egli m’appartiene. Principe dei poteri invisibili! Quest’uomo non è dell’ordine volgare, come ben lo dinotano qui il suo contegno e la sua presenza; i suoi patimenti sono stati d’una natura immortale, come i nostri medesimi; le cognizioni, i poteri e le volontà sue, per quanto è compatibile colla creta che ingombra l’essenza eterna, furono tali, che di rado ne portò di simili la creta; le sue aspirazioni furono superiori a quelle degli abitanti della terra, e gli insegnarono ciò che sappiamo noi — sapere che non è felicità, scienza che null’altro è fuorchè un cambio dell’ignoranza per quello che è un’altra specie d’ignoranza. Ciò non è tutto: — le passioni, attributi della terra e del cielo, da cui nessuna potenza, nessun ente, nessuna vita, dal verme in su, va esente, hanno trapassato il suo cuore, e coi loro effetti reso lui tale, che io, che non sento pietà, perdono a quelli che di esso hanno pietà. Egli appartiene a me, e può essere tuo. — Comunque sia, nessuno spirito in questa regione ha un’anima pari alla sua, nè alcuna potenza sovra l’anima sua.

Nemesi. Che vuol egli qui?

Prima Parca. A ciò risponda egli stesso.

Manfredo. Voi conoscete ciò ch’io ho conosciuto; e senza potenza non potrei essere fra voi: ma vi sono ancor maggiori potenze.— Io vengo a cercarne che rispondano a ciò ch’io desidero.

Nemesi. Che brami?

Manfredo. Tu non puoi rispondermi. Evoca i morti, — la mia questione è per loro.

Nemesi. Grand’Arimane, condiscende la tua volontà ai desiderii di questo mortale?

Arimane. Sì.

Nemesi. Chi vuoi tu degli incorporei?

Manfredo. Uno senza tomba, — evoca Astarte.

Nemesi. Ombra, o spirito! chiunque tu sia, che ancor serbi il tutto o una parte della forma del tuo nascimento, del modello tuo di creta, il quale ritornò alla terra, riapparisci al giorno! Porta ciò che portavi, il cuore e la forma; e l’aspetto che avevi, redimilo dai vermi. Apparisci! — apparisci! — apparisci! Colui che ti mandò là ti richiama qua. (Il fantasma d’Astarte sorge e si ferma nel mezzo.)

Manfredo. Può questa esser la morte? il fiore è su quella guancia; ma ora vedo che non è di colore vivente, ma di persona stranamente consunta, — simile al vermiglio non naturale che l’autunno pone sulla foglia morta. È dessa. O Dio! come poss’io tremare guardando la stessa — Astarte! — No, non posso parlare — mi parlerà essa. — Perdonami, o condannami.

Nemesi. Per la possanza che ha rotto il sepolcro che ti tenea schiava, parla a colui che ti ha parlato, o a coloro che ti hanno chiamata.

Manfredo. Ella è muta, e quel silenzio ha detto più d’ogni risposta.

Nemesi. Il mio potere non si estende più oltre. Principe dell’aria! spetta a te solo; costringi la sua voce.

Arimane. Spirito, — obbedisci a questo scettro!

Nemesi. Muta ancora! Non è del nostro ordine, ma appartiene ad altre potenze. Mortale! la tua ricerca è vana, e noi pure siamo beffati.

Manfredo. Odimi, odimi — Astarte! mia diletta! parlami: ho tanto sofferto — soffro pur tanto — guardami! il sepolcro non ti ha cangiata più che non ho io cangiato per te. Tu troppo m’amavi com’io t’amava: noi non eravamo fatti per tormentarci a vicenda, quantunque fosse il più mortale de’ peccati quello d’amare come abbiamo amato. Dimmi che non m’abborri — che io porto questo castigo per ambidue — che tu sarai fra i beati — e che io morrò, poichè finora tutto ciò che v’ha di sciagurato, cospira per legarmi alla vita — a una vita che mi fa raccapricciare dell’immortalità — un avvenire simile al passato. Non ho riposo. Non so ciò ch’io domandi nè ch’io mi cerchi; sento solamente ciò che tu sei — e ciò ch’io sono; e vorrei udire pur una volta, prima ch’io perisca, la voce che fu la mia musica. — Parlami! Io t’ho chiamata nella tacita notte, ho spaventati gli uccelli sopiti sui queti rami, e svegliato i lupi della montagna, e fatto conoscere alle caverne il tuo nome invano echeggiato, che mi rispondeva. — Molte cose mi risposero — spiriti ed uomini — ma tu fosti muta. Deh, parlami! Ho vegliato più a lungo che le stelle, e guardato invano il cielo cercando di te. Parlami! Ho trascorsa la terra, e non ho mai trovato la tua sembianza. Parlami! osserva queste furie che mi circondano — esse si commuovono per me; io non le temo, e ho pietà di te sola.— Parlami! sebbene irata — purchè tu parli — non m’affanno di che, — ma fa ch’io t’oda una volta — questa volta — una volta sola!

Fantasma d’Astarte. Manfredo!

Manfredo. Prosiegui, prosiegui. — Non vivo che nel suono — questa è la tua voce! Fantasma. Manfredo! Domani finiscono i tuoi mali terreni. Addio!

Manfredo. Ancora una parola — son io perdonato?

Fantasma. Addio!

Manfredo. Dimmi, c’incontreremo noi ancora?

Fantasma. Addio!

Manfredo. Una parola, per pietà! Dì che tu mi ami.

Fantasma. Manfredo! (Lo spirito d’Astarte sparisce.)

Nemesi. Ella è partita, e non sarà richiamata; le sue parole saranno adempiute. Ritorna alla terra.

Uno Spirito. Egli è convulso. Così avviene a chi è mortale e cerca le cose che sono oltre la mortalità.

Altro Spirito. Eppur, vedete, egli supera sè stesso, e rende il suo tormento soggetto alla sua volontà. Se fosse egli stato uno di noi, sarebbe stato un formidabile spirito.

Nemesi. Non hai altro a domandare al nostro gran sovrano o ai suoi adoratori?

Manfredo. Nulla.

Nemesi. Dunque, per qualche tempo, addio.

Manfredo. Ci rivedremo dunque! Dove? Sulla terra? Ma dovunque tu voglia, e per la grazia concedutami parlo riconoscente. Addio! (Esce.)


  1. [p. 478 modifica]Quest’iride è formata dai raggi del sole sulla parte inferiore dei torrenti dell’alpe: è esattamente come un arcobaleno, il quale discende quasi a fare una visita, ed è così vicino che vi si può andar dentro: questo fenomeno dura sino a mezzodì.
  2. [p. 478 modifica]Il filosofo Iamblico. La storia dell’origine di Eros e Anteros si trova nella suo vita, scritta da Eunapio. È ben narrata.
  3. [p. 478 modifica]La storia di Pausania re di Sparta ( che comandò i Greci alla battaglia di Platea, e poscia perì per aver cercato di tradire i Lacedemoni) e di Cleonice leggesi nella vita di Cimone in Plutarco, o nei Laconici di Pausania il sofista, nella sua descrizione della Grecia.
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