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ARZILLA
Dopo lo spettacolo delle grandi città decadute, di un popolo moribondo e d’un paese bello ma triste; dopo tanto sonno tanta vecchiezza e tante rovine, ecco il lavoro eterno e la gioventù immortale; ecco l’aria che ravviva il sangue, la bellezza che rallegra il cuore, l’immensità in cui s’espande l’anima! Ecco l’Oceano! Con che fremito di piacere lo salutammo! L’apparizione inaspettata d’un amico o d’un fratello, non ci sarebbe riuscita più cara della vista di quella lontana curva luminosa che recideva netto dinanzi a noi, come una immensa falce, l’islamismo, la schiavitù, la barbarie, e pareva che portasse più diritto e più libero il nostro pensiero all’Italia. — Bahr-el-Kibir! — (Il gran mare) esclamarono alcuni soldati. Altri dissero: — Bahr-ed-Dholma! — (Il mare delle tenebre). Tutti, involontariamente, affrettarono il passo; le conversazioni, che cominciavano a languire, si rianimarono; i servi intonarono i canti sacri; l’intera carovana, in pochi minuti, prese un’aria d’allegrezza e di festa.
La sera del 19 Giugno ci accampammo a tre ore da Laracce, e la mattina seguente entrammo in città, ricevuti alle porte dal figlio del Governatore, da venti soldati senza fucili e senza calzoni schierati lungo la strada, da un centinaio di ragazzi cenciosi, e da una banda composta d’un tamburino e d’un trombettiere, che vennero poco dopo a chiedere la mancia con uno straziante concerto nel cortile dell’agente consolare d’Italia.
Su quella costa sparsa di città morte, — come Salè, Azamor, Safi, Santa-Cruz, — Laracce conserva ancora un po’ di vita commerciale che le basta per essere considerata uno dei principali porti del Marocco. Fondata da una tribù berbera nel secolo XV, fortificata sulla fine dello stesso secolo da Mulei-ben-Nassar, abbandonata alla Spagna nel 1610, ripresa da Mulei Ismael nel 1689, ancora fiorente sul principio di questo secolo, popolata ora da quattromila circa tra mori ed ebrei, sorge sopra la china d’un colle a sinistra della foce del Kus, il Lixus degli antichi, il quale le forma un porto ampio e sicuro, chiuso però da un banco di sabbia, che impedisce l’entrata ai grandi bastimenti. Nel porto marciscono le carcasse di due piccole cannoniere, ultimo miserando avanzo della flotta che altre volte portò gli eserciti conquistatori in Ispagna e sgomentò il commercio europeo. Sulla riva destra del fiume, rimane qualche rovina di Lixus, città romana. Dietro la collina si stende un ampio bosco d’alberi giganteschi. La città non ha dentro altro di notevole che una piazza di mercato circondata da piccoli portici sorretti da colonnine di pietra; ma vista dal porto, tutta bianca sul verde cupo della collina, stretta in una cerchia di alte mura merlate d’un fosco color calcare, riflessa dalle acque azzurre del fiume, sotto quel cielo limpido, presenta un aspetto grazioso, e malgrado la vivezza dei colori, quasi malinconico, come se facesse pietà il veder quella gentile città così sola e silenziosa su quella costa barbaresca, dinanzi a quel porto deserto, in faccia a quel mare immenso.
L’accampamento fu posto la sera sulla riva destra del Kus e levato per tempo la mattina seguente. Si doveva andare ad Arzilla, distante quattr’ore da Laracce. Il convoglio dei bagagli partì la mattina; l’Ambasciata verso sera. Io, per veder la carovana sotto un nuovo aspetto, partii col convoglio dei bagagli.
E me ne trovai contento, perchè fu un tragitto pieno d’avventure.
Le mule cariche, accompagnate dai mulattieri e dai servi, andavano a gruppi, a gran distanza gli uni dagli altri. Partii solo e camminai per quasi un’ora sulle colline dove non vidi che una mula, condotta da un servo arabo, la quale portava due bisaccie di paglia, di cui una conteneva la testa e l’altra i piedi d’un palafreniere dell’Ambasciatore preso da una fortissima febbre, che gemeva da far pietà ai sassi. Il poveretto stava così coricato a traverso la mula, colla testa spenzoloni, col corpo inarcato, col sole negli occhi, e in quella maniera era venuto da Karia-el-Abbassi e doveva andare a Tangeri! E in quella maniera sono trasportati nel Marocco tutti i malati che non han denaro da noleggiare una lettiga e due mule, e fortunati coloro che possono almeno ficcar la testa in una bisaccia!
Dalle colline discesi sulla riva del mare.
Qui raggiunsi il cuoco, il Ranni e Luigi il calafato, che s’unirono a me e non mi lasciarono più fino ad Arzilla.
Per un’ora trottammo sulla sabbia, deviando di tratto in tratto dal cammino diritto, per scansare la marea.
In quel tempo il cuoco, che per la prima volta in tutto il viaggio poteva parlarmi liberamente, m’aprì il suo cuore.
Pover’uomo! Tutte le avventure del viaggio, tutte le grandi cose vedute, non lo avevano liberato da un pensiero doloroso che gli toglieva la pace fin dalla prima settimana del suo soggiorno in Tangeri. E questo dolore era una gelatina mal riuscita, fatta da lui un giorno che aveva pranzato in casa il Ministro di Francia; gelatina che aveva dato il primo crollo alla sua riputazione nel concetto dell’Ambasciatore, e che pure era riuscita male non per colpa sua, ma perchè il Marsala era cattivo. Fez, la corte, Mechinez, il Sebù, l’Oceano, egli li aveva visti, egli vedeva tutto a traverso quel disco di brodo condensato. O piuttosto non aveva visto e non vedeva niente perchè il suo corpo era bensì nel Marocco, ma l’anima viveva in piazza Castello. Gli domandai le sue impressioni di viaggio: erano poca cosa. Egli non sapeva capire chi potesse essere quella bestia che aveva stampato quel paese. Mi raccontò delle sue fatiche, delle sue liti cogli sguatteri arabi, delle difficoltà di far da mangiare in mezzo ai deserti, del suo desiderio immenso di riveder Torino; ma ricadeva poi sempre su quella desolante gelatina del Ministro di Francia. — Io non so far cucina? Mi faccia il piacere, vada Lei, quando sia a Torino, — mi diceva toccandomi il braccio per distrarmi dalla contemplazione dell’Oceano; — vada a domandarlo al conte tale, alla contessa tale, ecc., che ho serviti per anni ed anni! Vada dal generale Ricotti, ministro della guerra, che son cinque anni che è ministro e fa tutto quello che vuole, vada da lui a domandargli se so far la gelatina! Ma vada, mi dia questa soddisfazione, ci passi un momento quando saremo ritornati al paese! — E insistette tanto che per poter contemplare in pace l’Oceano, dovetti promettergli che ci sarei passato.
Intanto raggiungevamo di cento in cento passi due o tre mule cariche, soldati a cavallo, servi a piedi; piccoli frammenti della carovana che si stendeva per più d’un ora di cammino. Fra i soldati ve n’erano alcuni di Laracce, stracciati, con un fazzoletto annodato intorno al capo e un fucile rugginoso fra le mani; e fra i servi, dei ragazzi di dodici o quindici anni, non mai visti prima d’allora, i quali erano scappati, mi fu detto, da Mechinez e da Karia-el-Abbassi, e s’erano aggregati alla carovana, senz’altro addosso che una camicia, per andare a Tangeri, la città civile, a cercar fortuna, campando intanto delle limosine dei soldati. In alcuni di questi gruppi c’era uno che raccontava una storia; altri cantavano; tutti parevano allegri.
A metà strada ci fermammo all’ombra d’uno scoglio per far colezione.
Qui vidi una scena che mi rivelò l’indole di quella gente meglio d’un volume di considerazioni psicologiche.
Vicino a noi c’era un soldato seduto sulla sabbia, più in là un altro, più lontano un servo, e a una cinquantina di passi da questo, sulla china d’un piccolo colle, un altro servo, seduto vicino a una sorgente, con una brocca fra le ginocchia. Desiderando di bere, gridai al primo soldato: — Elma! (acqua) — e gli accennai la sorgente. Il soldato rispose di sì con un gesto cortese e ordinò imperiosamente all’altro soldato d’andare a prendere dell’acqua. Costui accennò che avrebbe obbedito subito, e con un accento minaccioso rimproverò il servo che era là presso, di non essere ancora corso a fare il suo dovere. Il servo rimproverato balzò in piedi e facendo due o tre passi impetuosi verso l’altro servo seduto accanto alla sorgente, gli gridò che facesse presto. Costui, vedendo che io non gli badavo, non si mosse. Passarono cinque minuti, l’acqua non venne. Mi rivolsi daccapo al primo soldato e seguì la stessa scena di prima. Infine, se volli aver l’acqua, dovetti, spolmonandomi, dar l’ordine direttamente al servo della brocca il quale, dopo qualche momento di riflessione, si decise ad attingerla e me la portò a passo di tartaruga.
Ci rimettemmo in cammino. Tirava un ventolino fresco e una nuvola nascondeva il sole, era una passeggiata deliziosa; ma continuando a crescere la marea, e restringendosi man mano quel po’ di strada sabbiosa su cui camminavamo ad uno ad uno, ci trovammo ben presto imprigionati fra il mare e le colline rocciose che pendevano quasi a picco sul nostro capo, e costretti a camminare fra gli scogli, contro cui si venivano a frangere le onde. Parecchie volte, la mula arrestandosi spaventata, mi trovai circondato dall’acqua, ravvolto in un nuvolo di spruzzi, assordato, acciecato, e mi girò il capo, e intravvidi l’intestazione degli articoletti necrologici che avrebbero scritto i miei amici. Ma la nostra ora, come diceva il cuoco, non era ancora sonata; e dopo un miglio di cammino, arrivammo a una collina accessibile, sulla quale ci arrampicammo in fretta e in furia, volgendoci indietro a rimirar lo passo.
Veniva con noi, a cavallo, un vecchio soldato di Laracce, un po’ tocco nel cervello, che rideva continuamente; ma che, grazie al cielo, conosceva la strada. Costui ci fece girare intorno alla collina e ci menò a traverso una macchia fittissima di quercie nane, di cisti, di betulle, di sugheri, di ginestri, d’arbusti d’ogni sorta, per mille avvolgimenti di sentieri scoscesi, fra i macigni, fra le spine, nel fango, nell’acqua, al buio, in recessi dove pareva che non fosse mai penetrata una creatura umana, e sempre ridendo, ci ricondusse, dopo un lungo e lentissimo giro, scorticati e stracciati, sulla riva del mare, dove rimaneva ancora un po’ di spazio libero dalle acque.
Qui la carovana non essendo ancora arrivata, la spiaggia era deserta, e camminammo per un pezzo non vedendo altro che cielo e mare, e il piede delle colline ripidissime che, formando tanti piccoli seni successivi, ci nascondevano l’orizzonte dinanzi e alle spalle. Camminavamo in silenzio, l’un dietro l’altro, sopra la sabbia intatta e morbida come un tappeto, tutti colla testa, io credo, mille miglia lontana dal Marocco, quando improvvisamente saltò fuori di dietro a uno scoglio uno spettro, un vecchio orribile, mezzo nudo, con una gran corona di fiori gialli intorno alla fronte, — un Santo —; il quale prese a inveire contro di noi urlando come un pazzo furioso e facendo con tutt’e due le mani l’atto di graffiarci il viso e di strapparci la barba. Ci fermammo a contemplarlo. Diventò più feroce. Il Ranni, senza tanti complimenti, s’avanzò per applicargli una bastonata. Io lo trattenni e gettai al santo una moneta. Questo briccone tacque immediatamente, raccolse la moneta, la guardò di sopra e di sotto, se la mise in seno, e poi ricominciò ad urlare peggio di prima. — Ah! questa volta, — disse il Ranni; — una legnata ci sta! — E alzò il bastone. Ma il soldato, fattosi serio ad un tratto, lo trattenne e dicendo al Santo qualche parola a bassa voce con un accento di profondo rispetto, lo indusse a tacere. L’orribile vecchio ci slanciò un’ultima occhiata fulminea e si rinascose in mezzo agli scogli, dove ci fu detto che vive, nutrendosi d’erbe, da più di due anni, coll’unico scopo di maledire i bastimenti dei Nazareni che passano all’orizzonte.
Di là risalimmo sui monti e camminammo lungo tempo per sentieri serpeggianti fra i lentischi, le ginestre e le roccie. In alcuni punti il sentiero correndo sull’orlo del monte tagliato a picco, vedevamo sotto, a una grande profondità, il mare che flagellava gli scogli, e un lunghissimo tratto di spiaggia, in cui si stendeva a perdita d’occhi la carovana, e l’immenso orizzonte dell’Oceano azzurro picchiettato di macchiettine bianche da qualche lontano bastimento a vela. I monti per cui ci avanzavamo formavano colle loro cime schiacciate un vasto piano ondulato, tutto coperto d’alti arbusti, dove non si vedeva alcuna traccia di coltivazione, nè una cuba, nè una capanna, nè una creatura umana, e non si sentiva altro rumore che il mormorio fioco del mare. — Che paese! — esclamava il cuoco girando lo sguardo inquieto su quella solitudine; — purchè non si faccia qualche cattivo incontro. — E mi domandò più volte se non c’era pericolo d’incontrare dei leoni. Salendo e scendendo, perdendoci di vista e ritrovandoci più volte in mezzo agli arbusti, camminavamo da quasi due ore per quei monti deserti, e cominciavamo a temere d’aver sbagliata la strada, quando dalla sommità d’un’altura vedemmo a un tratto le torri d’Arzilla e tutta la costa fino alla montagna del capo Spartel, che disegnava nettamente il suo contorno azzurro nella chiarezza limpidissima del cielo.
Fu un vivo piacere per tutta la mia piccola carovana; ma di breve durata.
Scendendo verso il mare scoprimmo lontano fra gli alberi un gruppo di cavalli e d’uomini accovacciati, i quali, appena ci videro, si rizzarono in piedi, saltarono in sella e si diressero verso di noi, distendendosi sopra una sola linea in forma di mezzaluna, come se volessero impedirci di fuggire per una scorciatoia verso la città.
— Ci siamo, — pensai; — questa volta non c’è scampo; è una banda.
E feci cenno agli altri di fermarsi.
— Ca manda avanti ’l moro! gridò il cuoco.
Il soldato moro accorse.
— Giù una trombonata! — gli gridò il cuoco fremente.
— Un momento; — io dissi; — prima d’ammazzar loro, vediamo se vogliono veramente ammazzar noi.
Li guardai attentamente; s’avanzavano di trotto; eran dieci, parte vestiti di color oscuro, parte di bianco; mi parve che nessuno avesse il fucile; il capo era un vecchio colla barba bianca; mi rassicurai.
— Formiamo il quadrato! — gridò il cuoco.
— Non c’è bisogno — risposi. Il vecchio della barba bianca s’era scoperto il capo e si dirigeva verso di me colla berretta in mano.
Era un Israelita.
A dieci passi, si fermò col suo seguito, ch’era composto di altri quattro Israeliti e di cinque servi arabi, e fece cenno di volermi parlare.
— Hable Usted, risposi.
— Sono il tale dei tali, — disse in spagnuolo, con una voce dolce inchinandosi in atteggiamento di profondo rispetto; — agente consolare d’Italia e di tutti gli altri stati d’Europa nella città d’Arzilla. Ho l’onore di essere al cospetto di sua eccellenza l’Ambasciatore d’Italia, reduce da Fez, partito questa mattina da Laracce e diretto a Tangeri?
Caddi dalle nuvole.
Poi presi un atteggiamento grave e girai un lento sguardo sul mio corteo, che sfolgorava di maestà e di gioia.
Dopo aver così assaporato per un minuto secondo gli onori del ricevimento ufficiale, disingannai, sospirando, il vecchio israelita, e dissi chi ero.
Ne parve un po’ spiacente, ma non cangiò modo per questo. Mi offerse la sua casa per riposarmi, e io non accettando, volle ad ogni costo accompagnarmi nel luogo destinato all’accampamento.
Ci dirigemmo dunque tutti insieme, girando intorno alla città, verso la riva del mare. Ah! se m’avessero visto, in quel breve tragitto, l’Ussi e il Biseo! Quanto dovevo esser pittoresco io, rappresentante d’Italia in groppa a una mula, con una ciarpa bianca attorcigliata intorno al capo, seguito dal mio stato maggiore composto d’un cuoco in maniche di camicia, di due marinai armati di bastone e d’un moro stracciato! O arte italiana, quanto hai perduto!
Arzilla, Zilia dei Cartaginesi, Julia Traducta dei Romani, passata dalle mani di questi in potere dei Goti, saccheggiata dagl’Inglesi verso la metà del decimo secolo, rimasta per trent’anni un mucchio di sassi, poi rifabbricata da Abd-er-Rhaman ben Alì califfo di Cordova, posseduta dai Portoghesi e ripresa dai Marocchini, non è più che una cittaduzza di poco più di mille abitanti tra mori ed ebrei; circondata, dalla parte di terra e dalla parte di mare, da alte mura merlate, che cadono in rovina; bianca e quieta come un chiostro, e improntata, come tutte le altre piccole città maomettane, di quella ridente malinconia, che fa pensare al sorriso d’un moribondo, il quale goda di sentirsi mancare la vita.
La sera, sul tramonto, arrivò l’Ambasciatore, che venne all’accampamento attraversando la città; e ho ancor vivo dinanzi agli occhi lo spettacolo di quella bella cavalcata piena di colori e di vita, che uscendo da una gran porta merlata, s’avanzava in un pittoresco disordine, lungo la riva dell’Oceano, gettando sulla sabbia rosata dal crepuscolo, le sue lunghissime ombre nere; e risento la tristezza che provai in quel momento dicendo tra me: — Peccato! Peccato che questo bel quadro si debba dissolvere, questo bel quadro che contiene tant’Affrica e tanta Italia, tanti lieti pronostici e tante care memorie! — E là infatti si può dire che terminasse il nostro viaggio, poichè la mattina seguente ci accampavamo a Ain-Dalia, e due giorni dopo rientravamo in Tangeri, dove la carovana si scioglieva in quella medesima piazzetta del piccolo mercato, da cui due mesi prima era partita.
Il comandante, il capitano, i pittori ed io partimmo insieme per Gibilterra. L’Ambasciatore, il viceconsole, tutta la gente della legazione ci accompagnò fin sulla riva del mare. Gli addii furono molto affettuosi. Tutti erano commossi, anche il buon generale Hamed ben Kasen, il quale stringendo la mia mano contro il suo largo torace, mi disse tre volte l’unica parola europea che sapesse: — A Dios! — con una voce che veniva dal cuore. Appena mettemmo il piede sul bastimento, oh! quanto ci parve lontana e di spazio e di tempo tutta quella fantasmagoria di pascià, di neri, di tende, di moschee, di torri merlate! Non era soltanto un paese, era un mondo che in quel momento spariva ai nostri occhi, e un mondo che eravamo quasi certi di non rivedere mai più. Un po’ d’Affrica, però, ci accompagnò fino a bordo, e furono i due Selam, Alì, Hamed, Abed-er-Rhaman, Civo, i servi del Morteo ed altri bravi giovanotti, a cui la superstizione mussulmanna non aveva impedito di voler bene ai Nazareni e di servirli con devozione. E anch’essi si accommiatarono da noi con vivaci dimostrazioni d’affetto e di rammarico, e Civo più degli altri, che facendo sventolare per l’ultima volta ai miei occhi il suo camicione bianco, mi s’attaccò al collo come un amico d’infanzia, e mi stampò due baci in un orecchio. E quando il piroscafo partì, ci salutarono ancora, tutti ritti in una barca, sventolando i loro fez rossi, e gridando fin che li potemmo sentire: — Allà sia sulla vostra strada! Tornate al Marocco! Addio ai Nazareni! Addio agli Italiani! Addio! Addio!
fine.