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SULLA QUINTA MASSIMA, CHE È:
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1. Il discepolo di Gesù Cristo dee vivere perpetuamente in una interior solitudine, nella quale, scomparse quasi direi tutte le altre cose, non si ritrovi che Iddio e l’anima sua.
2. Iddio dee averlo sempre presente, per adorarne la grandezza; e dee aver sempre presente se stesso, per sempre più penetrarne la infermità e la nichilità.
3. Il Cristiano dee avere scritte nella mente le ragioni del suo nulla: prima quelle che provano il nulla di tutte le cose; poi quelle che umiliano specialmente l’uomo; in terzo luogo quelle che umiliano la sua persona.
4. Siccome egli è un atomo in paragone dell’universo, così è un nulla in paragone di Dio, da cui solo viene tutto quello ch’egli ha di bene. La colpa in cui è stato concepito, l’inclinazione al male che porta in sé, ed i peccati de’ quali si è egli stesso macchiato, il debbono persuadere di due grandi verità: I - ch’egli non è capace di fare nessuna cosa di bene da sé medesimo; II - che egli è capace non solo di tutto il male, ma è così labile, che può mancare ad ogni istante, se la divina misericordia non lo soccorra: di che egli dee mai sempre, secondo il detto dell’Apostolo, «operare con timore e tremore la propria salute» (Fil 2,12).
5. La prima di queste due grandi verità il dee persuadere a non intraprendere cosa alcuna, non solo per quello che riguarda il mutamento della propria condizione in questa vita, di cui abbiamo innanzi parlato, ma né pure per qualunque altro scopo, se non vi sia spinto dal conoscere che ciò sia la divina volontà. Non è possibile che di proprio moto intraprenda cosa alcuna quell’uomo, che sinceramente si crede di ogni bene incapace.
6. Nel che debbono trovarsi nel Cristiano due disposizioni, che sembrano opposte, ma che pure stanno insieme armoniosamente: un grandissimo zelo della gloria di Dio, e del ben del prossimo, con un sentimento che gli dice di essere incapace di ogni bene, incapace di porre alcun rimedio ai mali del mondo.
7. Egli perciò dee imitare l’umiltà di Mosè, il quale stentò tanto a credere d’esser egli l’eletto a liberare il popolo di Dio, e a Dio medesimo con un’affettuosa semplicità e confidenza rispose di dispensarlo da quel carico, perché egli era balbuziente, e lo pregò invece di mandare Colui che doveva essere mandato, cioè il promesso Messia: e ciò sebbene Mosè fosse tanto pieno di zelo per la salute del popol suo. Dee il Cristiano meditare e imitare del continuo la profonda umiltà di Maria Vergine: la quale noi veggiamo descritta nelle divine Scritture sempre in una quiete, in una pace, in un riposo continuo: di sua elezione non la troviamo che in una vita umile, ritirata e silenziosa, della quale nonviene cavata se non dalla voce stessa di Dio, o dai sensi di carità verso la sua cognata Elisabetta. Misurando a giudizio umano, chi potrebbe credere, che della più perfetta di tutte le umane creature avessimo tanto poco nelle divine Scritture raccontato? Nessun’opera da lei intrapresa: una vita che il mondo cieco direbbe di continua inazione, e che Iddio dichiarò essere la più sublime, la più virtuosa, la più magnanima di tutte le vite: fu dall’Onnipotente innalzata alla più grande di tutte le dignità, a un seggio di gloria più elevato di quel che fosse dato a qualunque non solo degli uomini, ma degli Angeli!
8. La seconda verità dee produrre nel Cristiano un timore ragionevole de’ pericoli, de’ quali le divine Scritture ci dicono che è ripieno il mondo, giungendo l’evangelista Giovanni ad assicurarci, che tutto ciò che è nel mondo è pericolo.
9. Perciò il Cristiano che vuol esser perfetto, professerà il ritiro, il silenzio, e la continua occupazione.
10. Il ritiro lo professerà in modo, che prescriverà a se stesso di non uscire di casa senza necessità, cioè senza che i doveri del proprio stato, ovvero la carità del prossimo assunta ragionevolmente a ciò lo conduca.
11. Professerà il silenzio, cercando di non dire parole oziose, cioè di quelle che non hanno nessun fine buono per la propria o l’altrui edificazione, ovvero che non hanno necessità pe’ doveri o pe’ bisogni della propria vita.
12. Finalmente professerà l’occupazione più continua, sicché non avvenga giammai a lui di perdere né pur un briciolo di tempo; pensando spesso che il tempo è preziosissimo; che irreparabili sono que’ momenti che gli sfuggono senza averne cavato profitto per l’anima; che anche di questi momenti dovrà render minuto conto a Dio, come di un talento che era stato a lui affidato da trafficare; e che finalmente ciò è richiesto in modo speciale dalla professione della vita perfetta, colla quale l’uomo si propone di attendere immediatamente più che può ed unicamente al culto divino, e perciò d’attenderci con tutte le sue forze, e con tutto il suo tempo.