< Mastro-don Gesualdo < Parte quarta
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II.




Adesso tutto andava a rotta di collo per don Gesualdo; la casa in disordine; la gente di campagna, lontano dagli occhi del padrone, faceva quel che voleva; le stesse serve scappavano ad una ad una, temendo il contagio della tisi; persino Mena, l’ultima che era rimasta pel bisogno, quando parlarono di farle lavare i panni dell’ammalata che la lavandaia rifiutavasi di portare al fiume, temendo di perdere le altre pratiche, disse chiaro il fatto suo:

— Don Gesualdo, scusate tanto, ma la mia pelle vale quanto la vostra che siete ricco... Non vedete com’è ridotta vostra moglie?... Mal sottile è, Dio liberi! Io ho paura, e vi saluto tanto.

Dopo che s’erano ingrassati nella sua casa! Ora tutti l’abbandonavano quasi rovinasse, e non c’era neppure chi accendesse il lume. Sembrava quella notte alla Salonia, in cui aveva dovuto mettere colle sue mani il padre nel cataletto. Nè denari nè nulla giovava più. Allora don Gesualdo si scoraggiò davvero. Non sapendo dove dar di capo, pensò agli amici antichi, quelli che si ricordano nel bisogno, e mandò a chiamare Diodata per dare una mano. Venne invece il marito di lei, sospettoso, guardandosi intorno, badando dove metteva i piedi, sputacchiando di qua e di là:

— Quanto a me... anche la mia pelle, se la volete, don Gesualdo!... Ma Diodata è madre di famiglia, lo sapete... Se le capita qualche disgrazia, Dio ne liberi voi e me... Se piglia la malattia di vostra moglie... Siamo povera gente... Voi siete tanto ricco; ma io non avrei neppure di che pagarle il medico e lo speziale...

Insomma le solite litanie, la solita giaculatoria per cavargli dell’altro sangue. Finalmente, dopo un po’ di tira e molla, s’accordarono sul compenso. Gli toccava chiudere gli occhi e chinare il capo. Nanni l’Orbo, tutto contento del negozio che aveva fatto, conchiuse:

— Quanto a noi siete padrone anche della nostra pelle, don Gesualdo. Comandateci pure, di notte e di giorno. Vo a pigliare mia moglie e ve la porto.

Ma Bianca soffriva adesso di un altro male. Non voleva vedersi Diodata per casa. Non pigliava nulla dalle sue mani. — No!... tu, no!... Vattene via! Che sei venuta a fare, tu? — Irritavasi contro quegli affamati che venivano a mangiare alle sue spalle.

Come s’affezionasse anche alla roba, in quel punto; come si risvegliasse in lei un rancore antico, una gelosia del marito che volevano rubarle, quella cattiva gente venuta apposta a chiuderle gli occhi, a impadronirsi di tutto il suo. Era diventata tale e quale una bambina, sospettosa irascibile, capricciosa. Si lagnava che le mettessero qualche cosa nel brodo, che le cambiassero le medicine. Ogni volta che si udiva il campanello dell’uscio c’era una scena. Diceva che mandavano via la gente per non fargliela vedere.

— Ho sentito la voce di mio fratello don Ferdinando!... È arrivata una lettera di mia figlia, e non hanno voluto darmela!... — Il pensiero della figlia era un altro tormento. Isabella stava anch’essa poco bene, lontano tanto, un viaggio che l’avrebbe rovinata per sempre, scriveva suo marito. Del resto sapevano da un pezzo come Bianca si strascinasse fra letto e lettuccio, e non avrebbero mai creduto la catastrofe così prossima. Intanto la povera madre non sapeva darsi pace, e se la pigliava con don Gesualdo e con tutti quanti le stavano vicino. Ci voleva una pazienza da santi. Aveva un bel dire suo marito: — Guarda!... Cosa diavolo ti viene in mente adesso!... Anche la gelosia ti viene in mente!... —

Essa aveva certe occhiate nere che non le aveva mai visto. Con certo suono che non le aveva mai udito nella voce rauca, essa gli diceva:

— Mi avete tolto mia figlia... anche adesso che sono in questo stato!... Ve lo lascio per scrupolo di coscienza!...— Oppure gli rinfacciava di averle messo fra i piedi quell’altra gente... Oppure non rispondeva affatto, col viso rivolto al muro, implacabile.

Nanni l’Orbo s’era installato come un papa in casa di don Gesualdo. Mangiava e beveva. Veniva ogni giorno a empirsi la pancia. Diodata badava a quel che c’era da fare, e lui correva in piazza a spassarsela, a confabulare cogli amici, a dir che ci voleva questo e si doveva far quell’altro, a difendere la causa della povera gente nella quistione di spartirsi i feudi del comune, ciascuno il suo pezzetto, come voleva Dio, e quanti figliuoli ogni galantuomo aveva sulle spalle, tante porzioni! Egli conosceva anche per filo e per segno tutti i maneggi dei pezzi grossi che cercavano appropriarsi le terre. Una volta attaccò una gran discussione su quest’argomento con Canali, e andò a finire a pugni, adesso che non era più il tempo delle prepotenze e ognuno diceva le sue ragioni.

Il giorno dopo mastro Titta era andato da Canali a radergli la barba, allorchè suonarono il campanello e Canali andò a vedere colla saponata al mento. Mentre affilava il rasoio, mastro Titta allungò il collo per semplice curiosità, e vide Canali il quale parlava nell’anticamera con Gerbido, una faccia tutti e due da far tendere l’orecchio a chiunque. Canali diceva a Gerbido: — Ma ti fidi poi? — E Gerbido rispose: — Oh!!! — Nient’altro.

Canali tornò a farsi la barba, tranquillo come nulla fosse, e mastro Titta non ci pensò più. Soltanto la sera, non sapeva egli stesso il perchè... un presentimento, vedendo Gerbido appostato alla cantonata della Masera, colla carabina sotto!... Gli tornarono in mente le parole di poco prima.

— Chissà per chi è destinata quella pillola, Dio liberi!... — pensò fra di sè.

Già i tempi erano sospetti, e la gente s’era affrettata a casa prima che suonasse l’avemaria. Più in là incontrando Nanni l’Orbo, che stava da quelle parti, il cuore gli disse che Gerbido aspettasse appunto lui.

— Che fate a quest’ora fuori, compare Nanni? — gli disse mastro Titta. — Venitevene a casa piuttosto, che faremo la strada insieme...

— No, mastro Titta, devo passare qui dal tabaccaio, e poi vo un momento a vedere Diodata, che è ad assistere la moglie di don Gesualdo.

— Fatemi questo piacere, compare Nanni! Venite a casa piuttosto! Il tabacco ve lo darò io, e da vostra moglie ci andrete domani. Non son tempi d’andare per le strade a quest’ora!... Credete a me!...

L’altro la voltava in burla; diceva di non aver paura lui, che gli rubassero i denari che non aveva... L’aspettava sua moglie con un piatto di maccheroni... e tante altre cose... Per un piatto di maccheroni, Dio liberi, ci lasciò la pelle!

Appena mastro Titta udì il rumore della schioppettata, due minuti dopo, disse fra sè: — Questa è compare Nanni che se l’è presa.

Don Gesualdo quel giorno aveva avuto degli altri dispiaceri. Speranza mandava l’usciere giusto quando sapeva di fargli dare l’anima al diavolo. Non gli lasciavano requie da anni ed anni, e gli avevano fatto incanutire i capelli con quella lite. Anche Speranza ci si era ridotta simile a una strega; ci s’era mangiata la chiusa e la vigna, stuzzicata da ciascuno che avesse avuto da dire con suo fratello. Andava vituperandolo da per tutto. L’aspettava apposta nella strada per vomitargli addosso delle ingiurie. Gli aizzava contro i figliuoli, poichè il marito non voleva guastarsi il sangue — era buono soltanto per portarsi la pancia a spasso nel paese, lui — e lo stesso Santo, allorchè aveva bisogno di denari, voltava casacca e si metteva dalla parte di Gesualdo, a sputare contro di lei gli stessi improperi che aveva diretto al fratello: una banderuola che girava a seconda del vento.

— È una vera bricconata, vedete, don Camillo! Mi tirano di queste sassate giusto mentre sono nei guai sino al collo. Ho seminato bene e raccolgo male da tutti quanti, vedete!

Don Camillo si strinse nelle spalle.

— Scusate, don Gesualdo. Io fo l’ufficio mio. Perchè vi siete guastato col canonico Lupi?... Per l’appalto dello stradone!... per una cosa da nulla... Quello è un servo di Dio che bisogna tenerselo amico... Ora soffia nel fuoco coi vostri parenti... Non voglio dir male di nessuno; ma vi darà da fare, caro don Gesualdo!

E don Gesualdo stava zitto; curvava le spalle adesso che ciascuno gli diceva la sua, e chi poteva gli tirava la sassata. Come sapevasi che sua moglie stava peggio, il marchese Limòli era venuto a visitare la nipote, e ci aveva condotto pure don Ferdinando, tutti e due a braccetto, sorreggendosi a vicenda. — La morte e l’ignorante, — osservavano quanti li incontravano a quell’ora per le strade, col fermento che c’era nel paese; e si facevano la croce vedendo ancora al mondo don Ferdinando, con quella palandrana che non teneva più insieme. I due vecchi s’erano messi a sedere dinanzi al letto, col mento sul bastone, mentre don Gesualdo faceva la storia della malattia, e il cognato gli voltava la schiena senza dir nulla, rivolto alla sorella, la quale guardava or questo ed ora quell’altro, poveretta, con quegli occhi che volevano far festa a tutti quanti, allorchè s’udì un vocìo per la strada, gente che correva strillando, quasi fosse scoppiata la rivoluzione che s’aspettava. Tutt’a un tratto si udì bussare al portone e una voce che gridava:

— Comare Diodata, aprite! Correte, subito! Andate a vedere, che vostro marito si è presa una schioppettata!... lì, nella farmacia!...

Diodata corse così come si trovava, a testa scoperta, urlando per le strade. In un momento la casa di don Gesualdo fu tutta sottosopra. Venne anche il barone Zacco, sospettoso, inquieto, masticando le parole, guardandosi dinanzi e di dietro prima d’aprir bocca.

— Avete visto? È fatta! Hanno ammazzato il marito di Diodata!

Don Gesualdo allora si lasciò scappare la pazienza.

— Che ci posso fare io? Mi mancava anche questa! Che diavolo volete da me?

— Ah, cosa potete farci?... Scusate! Credevo che doveste ringraziarmi... se vengo subito ad avvertirvi... pel bene che vi voglio... da amico... da parente...

Intanto sopraggiungeva dell’altra gente. Zacco allora andava a vedere chi fosse, socchiudendo l’uscio dell’anticamera. Ogni momento si udiva sbattere il portone, tanti scossoni per la povera ammalata. A un certo punto Zacco venne a dire, tutto stravolto:

— A Palermo c’è un casa del diavolo... La rivoluzione... Vogliono farla anche qui... Quel briccone di Nanni l’Orbo doveva farsi ammazzare giusto adesso!...

Don Gesualdo continuava a stringersi nelle spalle, come uno che non gliene importa nulla oramai, tutto per la poveretta ch’era in fin di vita. Dopo un po’ giunsero la moglie e le figlie del barone Zacco, vestite di casa, cogli scialli giù pel dorso, le facce lunghe, senza salutar nessuno. Si vedeva ch’era finita. La baronessa andava a parlare ogni momento sottovoce col marito. Donna Lavinia s’impadronì delle chiavi. A quella vista don Gesualdo si sbiancò in viso. Non ebbe il coraggio neppure di chiedere s’era giunta l’ora. Soltanto, cogli occhi lustri interrogava tutti quanti, ad uno ad uno.

Ma gli rispondevano con delle mezze parole. Il barone allungava il muso, sua moglie alzava gli occhi al cielo, colle mani giunte. Le ragazze, già prese dal sonno, stavano zitte sedute nella stanza accanto a quella dov’era l’ammalata. Verso mezzanotte, come la poveretta s’era chetata a poco a poco, don Gesualdo voleva mandarli a riposare.

— No, — disse il barone, — non vi lasceremo solo questa notte.

Allora don Gesualdo non fiatò più, giacchè non c’era più speranza. Si mise a passeggiare in lungo e in largo, a capo chino, colle mani dietro la schiena. Di tanto in tanto si chinava sul letto della moglie. Poi tornava a passeggiare nella stanza vicina, borbottava fra di sè, scrollava il capo, si stringeva nelle spalle. Infine si rivolse a Zacco, colla voce piena di lagrime:

— Io direi di mandare a chiamare i suoi parenti... eh? don Ferdinando... Che ne dite voi?

Zacco fece una smorfia.— I suoi parenti?... Ah, va bene... Come volete... Domani... a giorno fatto...

Ma il pover’uomo non seppe più frenarsi, le parole gli cuocevano dentro e sulle labbra.

— Capite?... Neanche farle vedere la figliuola per l’ultima volta! È un porco, quel signor duca! Tre mesi che scrive oggi verremo e domani verremo! Come se avesse dovuto campar cent’anni quella poveretta! Dice bene il proverbio: Lontano dagli occhi e lontano dal cuore. Ci ha rubato la figlia e la dote, quell’assassino!

E continuò a sfogarsi così per un pezzo colla moglie di Zacco, che era mamma anche lei, e accennava di sì, sforzandosi di tenere aperti gli occhi che le si chiudevano da soli. Egli, che non sentiva nè il sonno nè nulla, tornava a brontolare:

— Che notte! che nottata eterna! Com’è lunga questa notte, Domeneddio!

Appena spuntò il giorno aprì il balcone per chiamare Nardo il manovale, e mandarlo da tutti i parenti, chè Bianca, poveretta, stava assai male, se volevano vederla. Per la strada c’era un via vai straordinario, e laggiù in piazza udivasi un gran sussurro. Mastro Nardo, al ritorno, portò la notizia.

— Hanno fatto la rivoluzione. C’è la bandiera sul campanile.

Don Gesualdo lo mandò al diavolo. Gliene importava assai della rivoluzione adesso! L’aveva in casa la rivoluzione adesso! Ma Zacco procurava di calmarlo.

— Prudenza, prudenza! Questi son tempi che ci vuol prudenza, caro amico.

Di lì a un po’ si udì bussare di nuovo al portone. Don Gesualdo corse in persona ad aprire, credendo che fosse il medico o qualchedun altro di tutti coloro che aveva mandato a chiamare. Invece si trovò di faccia il canonico Lupi, vestito di corto, con un cappellaccio a cencio, e il baronello Rubiera che se ne stava in disparte.

— Scusate, don Gesualdo... Non vogliamo disturbarvi... Ma è un affare serio... Sentite qua...

Lo tirò nella stalla onde dirgli sottovoce il motivo per cui erano venuti. Don Ninì da lontano, ancora imbroncito, approvava col capo.

— S’ha da fare la dimostrazione, capite? Gridare che vogliamo Pio Nono e la libertà anche noi... Se no ci pigliano la mano i villani. Dovete esserci anche voi. Non diamo cattivo esempio, santo Dio!

— Ah? La stessa canzone della Carboneria? —

saltò su don Gesualdo infuriato. — Vi ringrazio tanto, canonico! Non ne fo più di rivoluzioni! Bel guadagno che ci abbiamo fatto a cominciare! Adesso ci hanno preso gusto, e ogni po’ ve ne piantano un’altra per togliervi i denari di tasca. Oramai ho capito cos’è: Levati di lì, e dammi il fatto tuo!

— Vuol dire che difendete il Borbone? Parlate chiaro.

— Io difendo la mia roba, caro voi! Ho lavorato... col mio sudore... Allora... va bene... Ma adesso non ho più motivo di fare il comodo di coloro che non hanno e non posseggono...

— E allora ve la fanno a voi, capite! Vi saccheggiano la casa e tutto!

Il canonico aggiunse che veniva nell’interesse di coloro che avevano da perdere e dovevano darsi la mano, in quel frangente, pel bene di tutti... Se no, non ci avrebbe messo i piedi in casa sua... dopo il tiro che gli aveva giocato per l’appalto dello stradone...

— Scusate! Giacchè volete fare il sordo... Sapete che avete tanti nemici! Invidiosi... quel che volete... Intanto non vi guardano di buon occhio... Dicono che siete peggio degli altri, ora che avete dei denari. Questo è il tempo di spenderli, i denari, se volete salvar la pelle!

A quel punto prese la parola anche don Ninì:

— Lo sapete che ci accusano di aver fatto uccidere Nanni l’Orbo.... per chiudergli la bocca.... Voi pel primo!.... Mi dispiace che m’hanno visto venire con mia moglie, l’altra sera....

— Già, — osservò il canonico, — siamo giusti. Chi poteva avere interesse che compare Nanni non chiacchierasse tanto?... Una bocca d’inferno, signori miei! La storia di Diodata la sa tutto il paese. Ora vi scatenano contro anche i figliuoli.... vedrete, don Gesualdo!

— Va bene, — rispose don Gesualdo. — Vi saluto. Non posso lasciar mia moglie in quello stato per ascoltar le vostre chiacchiere. — E volse loro le spalle.

— Ah, — soggiunse il canonico andandogli dietro su per le scale. — Scusate, non ne sapevo nulla. Non credevo che fossimo già a questo punto....

Giacchè erano lì non potevano fare a meno di salire un momento a veder donna Bianca, lui e il baronello. Don Ninì si fermò all’uscio col cappello in mano, senza dire una parola, e il canonico, che se ne intendeva, dopo un po’ fece cenno col capo a don Gesualdo, come a dirgli di sì, ch’era ora.

— Io me ne vo, — disse don Ninì rimettendosi il cappello. — Scusatemi tanto, io non ci reggo.

C’era già don Ferdinando Trao al capezzale, come una mummia, e la zia Macrì, la quale asciugava il viso alla nipote con un fazzoletto di tela fine. Le Zacco erano pallide della nottata persa, e donna Lavinia non si reggeva più in piedi. Sopraggiunse il marchese Limòli insieme al confessore. Donna Agrippina allora li mise fuori tutti quanti. Don Gesualdo, dietro a quell’uscio chiuso, si sentiva un gruppo alla gola, quasi gli togliessero prima del tempo la sua povera moglie.

— Ah!... — borbottò il marchese. — Che commedia, povera Bianca! Noi restiamo qui per assistere ogni giorno alla commedia, eh, don Ferdinando!... Anche la morte s’è scordata che ci siamo al mondo noi!...

Don Ferdinando stava a sentire, istupidito. Tratto tratto guardava timidamente di sottecchi il cognato che aveva gli occhi gonfi, la faccia gialla e ispida di peli, e faceva atto d’andarsene, impaurito.

— No, — disse il marchese. — Non potete lasciare la sorella in questo punto. Siete come un bambino, caspita!

Entrò in quel mentre il barone Mèndola, col fiato ai denti, cominciando dallo scusarsi a voce alta:

— Mi dispiace... Non ne sapevo nulla... Non credevo... — Poi, vedendosi intorno quei visi e quel silenzio, abbassò la voce e andò a finire il discorso in un angolo, all’orecchio del barone Zacco. Costui tornava a parlare della nottata che avevano persa: le sue ragazze senza chiudere occhio, Lavinia che non si reggeva in piedi. Don Gesualdo guardava è vero stralunato di qua e di là, ma si vedeva che non gli dava retta. In quella tornò ad uscire il prete, strascicando i piedi, con una commozione che gli faceva tremar le labbra cadenti, povero vecchio.

— Una santa!... — disse al marito. — Una santa addirittura!

Don Gesualdo affermò col capo, col cuore gonfio anche lui. Bianca ora stava supina, cogli occhi sbarrati, il viso come velato da un’ombra. Donna Agrippina preparava l’altare sul comò, con la tovaglia damascata e i candelieri d’argento. A che gli giovava adesso avere i candelieri d’argento? Don Ferdinando andava toccando ogni cosa, proprio come un bambino curioso. Infine si piantò ritto dinanzi al letto, guardando la sorella che stava facendo i conti con Domeneddio in quel momento, e si mise a piangere e a singhiozzare. Piangevano tutti quanti. In quell’istante fece capolino dall’uscio donna Sarina Cirmena, scalmanata, col manto alla rovescia, esitante, guardando intorno per vedere come l’avrebbero accolta, cominciando diggià a fregarsi gli occhi col fazzoletto ricamato.

— Scusate! Perdonate! Io non ci ho il pelo nello stomaco... Ho sentito che mia nipote... Il cuore l’ho qui, di carne!... L’ho tenuta come una figliuola!... Bianca!... Bianca!...

— No, zia! — disse donna Agrippina. — S’aspetta il viatico. Non la disturbate adesso con pensieri mondani...

— È giusto, — disse donna Sarina. — Scusatemi, don Gesualdo.

Dopo che si fu comunicata, Bianca parve un po’ più calma. L’affanno era cessato, e arrivò a balbettare qualche parola. Ma aveva una voce che s’udiva appena.

— Vedete? — disse donna Agrippina. — Vedete, ora che si è messa in grazia di Dio!... Alle volte il Signore fa il miracolo. — Le misero sul petto la reliquia della Madonna. Donna Agrippina si tolse il cingolo della tonaca per ficcarglielo sotto il guanciale. La zia Cirmena portava esempi di guarigioni miracolose: tutto sta ad avere fede nei santi e nelle reliquie benedette: il Signore può far questo ed altro. Lo stesso don Gesualdo allora si mise a piangere come un bambino.

— Anche lui! — borbottò donna Sarina, fingendo di parlare all’orecchio della Macrì. — Anche lui, il cuore non l’ha cattivo in fondo. Non capisco però come Isabella non sia venuta... duchessa o no!... Mamme ne abbiamo una sola!... Se bisognava fare tante storie per arrivare a questo bel risultato...

— E’ un porco!... un infame!... un assassino! — seguitò a brontolare don Gesualdo, stralunato, colle labbra strette, gli occhi accesi che pareva un pazzo.

— Eh? che cosa? — domandò la Cirmena.

— Ssst! ssst! — interruppe donna Agrippina.

Il barone Mèndola si chinò all’orecchio di Zacco per dirgli qualche cosa. L’altro scosse il testone arruffato e gonfio due o tre volte. La baronessa approfittò del buon momento per indurre don Gesualdo a pigliare un po’ di ristoro dalle mani stesse di Lavinia. — Sì, un po’ di brodo, due giorni che non apriva bocca il pover’uomo!...

Come passarono nella stanza accanto, che dava sulla strada, si udì da lontano un rumore che pareva del mare in tempesta. Mèndola narrò allora quello che aveva visto nel venire.

— Sissignore! Hanno messo la bandiera sul campanile.

Dicono ch’è il segno di abolire tutti i dazi e la fondiaria. Perciò or ora faranno la dimostrazione. Il procaccia delle lettere ha portato la notizia che a Palermo l’hanno già fatta... e anche in tutti i paesi lungo la strada. Sicchè sarebbe una porcheria a non farla anche qui da noi... Infine cosa può costare? La banda, quattro palmi di mussolina... Guardate!... guardate!...

Dalla via del Rosario spuntava una bandiera tricolore in cima a una canna, e dietro una fiumana di gente che vociava e agitava braccia e cappelli in aria. Di tanto in tanto partiva anche una schioppettata. Il marchese, ch’era sordo come una talpa, domandò:

— Eh? Che c’è?

Il finimondo c’era! Don Gesualdo rimase colla chicchera in mano. S’udì in quel punto una forte scampanellata all’uscio, e Zacco corse a vedere. Dopo un momento sporse il capo dall’uscio dell’anticamera, e chiamò a voce alta:

— Marchese! Marchese Limòli!

Rimasero a discutere sottovoce nell’altra stanza. Pareva che il barone mettesse buone parole con un terzo che era arrivato allora, e il marchese andasse scaldandosi. — No! no! è una porcheria! — In quella rientrò Zacco, solo, col viso acceso.

— Sentite, don Gesualdo!... Un momento... una parolina...

La folla era giunta lì, sotto la casa; si vedeva la bandiera all’altezza del balcone, quasi volesse entrare. Si udivano degli urli: viva, morte.

— Un momento! — esclamò allora Zacco, mettendo da parte ogni riguardo. — Affacciatevi un momento, don Gesualdo! Fatevi vedere, se no succede qualche diavolo!...

C’era il canonico Lupi, che portava il ritratto di Pio Nono, il baronello Rubiera, giallo come un morto, sventolando il fazzoletto, tant’altra gente, tutti gridando:

— Viva!... abbasso!... morte!...

Don Gesualdo, accasciato sulla seggiola, colla chicchera in mano, seguitava a scrollare il capo, a stringersi nelle spalle, pallido come la camicia, ridotto un vero cencio. Il marchese assolutamente voleva sapere cosa cercasse quella gente, laggiù: — Eh? che cosa?

— Vogliono la vostra roba! — esclamò infine il barone Zacco fuori dei gangheri. Il marchese si mise a ridere dicendo: — Padroni! padronissimi! — In quel momento passò di furia donna Agrippina Macrì, colla tonaca color pulce che le sbatteva dietro, e nella camera della moribonda si udì un gran trambusto, seggiole rovesciate, donne che strillavano. Don Gesualdo s’alzò di botto, vacillando, coi capelli irti, posò la chicchera sul tavolino, e si mise a passeggiare innanzi e indietro, fuori di sè, picchiando le mani l’una sull’altra e ripetendo:

— S’è fatta la festa!... s’è fatta!

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