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II.
Quella che chiamavano la casina, a Mangalavite, era un gran casamento annidato in fondo alla valletta. Isabella dalla sua finestra vedeva il largo viale alpestre fiancheggiato d’ulivi, la folta macchia verde che segnava la grotta dove scorreva l’acqua, le balze in cui serpeggiava il sentiero, e più in su l’erta chiazzata di sommacchi, Budarturo brullo e sassoso nel cielo che sembrava di smalto. La sola pennellata gaia era una siepe di rose canine sempre in fiore all’ingresso del viale, dimenticate per incuria.
Pei dirupi, ogni grotta, le capannuccie nascoste nel folto dei fichidindia, erano popolate di povera gente scappata dal paese per timore del colèra. Tutt’intorno udivasi cantare i galli e strillare dei bambini; vedevansi dei cenci sciorinati al sole, e delle sottili colonne di fumo che salivano qua e là attraverso gli alberi. Verso l’avemaria tornavano gli armenti negli ovili addossati al casamento, branchi interi di puledri e di buoi che si raccoglievano nei cortili immensi. Tutta la notte poi era un calpestìo irrequieto, un destarsi improvviso di muggiti e di belati, uno scrollare di campanacci, un sito di stalla e di salvatico che non faceva chiudere occhio ad Isabella. Di tanto in tanto correva una fucilata pazza per le tenebre, lontano; giungevano sin laggiù delle grida selvagge d’allarme; dei contadini venivano a raccontare il giorno dopo di aver sorpreso delle ombre che s’aggiravano furtive sui precipizi; la zia Cirmena giurava di aver visto dei razzi solitarii e luminosi verso Donferrante. E subito spedivano gente ad informarsi se c’erano stati casi di colèra. Il barone Zacco ch’era da quelle parti, rispondeva invece che i fuochi si vedevano verso Mangalavite.
Don Gesualdo, meno la paura dei razzi che si vedevano la notte, e il sospetto di ogni viso nuovo che passasse pei sentieri arrampicati lassù sui greppi, ci stava come un papa fra i suoi armenti, i suoi campi, i suoi contadini, le sue faccende, sempre in moto dalla mattina alla sera, sempre gridando e facendo vedere la sua faccia da padrone da per tutto. La sera poi si riposava, seduto in mezzo alla sua gente, sullo scalino della gradinata che saliva al viale, dinanzi al cancello, in maniche di camicia, godendosi il fresco e la libertà della campagna, ascoltando i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati dei suoi mezzaiuoli. Alla moglie, che l’aria della campagna faceva star peggio, soleva dire per consolarla: — Qui almeno non hai paura d’acchiappare il colèra. Finchè non si tratta di colèra il resto è nulla. — Lì egli era al sicuro dal colèra, come un re nel suo regno, guardato di notte e di giorno — a ogni contadino aveva procurato il suo bravo schioppo, dei vecchi fucili a pietra nascosti sotto terra fin dal 12 o dal 21 e teneva dei mastini capaci di divorare un uomo. Faceva del bene a tutti; tutti che si sarebbero fatti ammazzare per guardargli la pelle in quella circostanza. Grano, fave, una botte di vino guastatosi da poco. Ognuno che avesse bisogno correva da lui per domandargli in prestito quel che gli occorreva. Lui colle mani aperte come la Provvidenza. Aveva dato ricovero a mezzo paese, nei fienili, nelle stalle, nelle capanne dei guardiani, nelle grotte lassù a Budarturo. Un giorno era arrivato persino Nanni l’Orbo con tutta la sua masnada, strizzando l’occhio, tirandolo in disparte per dirgli il fatto suo:
— Don Gesualdo... qui c’è anche roba vostra. Guardate Nunzio e Gesualdo come vi somigliano! Quattro tumoli di pane al mese si mangiano, prosit a loro! Non potete chiudere loro la porta in faccia... Ne avete fatta tanta della carità? E fate anche questa, che così vuol Dio.
— Guarda cosa diavolo t’è venuto in mente!... Qui c’è mia moglie e mia figlia adesso!... Almeno andatevene nel palmento, e non vi fate vedere da queste parti...
Ma tutto quel bene e quella carità gli tornavano in veleno per l’ostinazione dei parenti che non avevano voluto mettersi sotto le sue ali. Se ne sfogava spesso con Bianca la sera, quando chiudeva usci e finestre e si vedeva al sicuro: — Salviamo tanta gente dal colèra... Abbiamo tanta gente sotto le ali, e soltanto il sangue nostro è disperso di qua e di là... Lo fanno apposta... per farci stare in angustie... per lasciarci la spina dentro!... Non parlo di tuo fratello, poveraccio quello non capisce... Ma mio padre... Non me la doveva lasciare questa spina, lui!...
Non sapeva di quell’altro dispiacere che doveva procuragli la figliuola, il pover’uomo! Isabella ch’era venuta dal collegio con tante belle cose in testa, che s’era immaginata di trovare a Mangalavite tante belle cose come alla Favorita di Palermo, sedili di marmo, statue, fiori da per tutto, dei grandi alberi dei viali tenuti come tante sale da ballo, aveva provata qui un’altra delusione. Aveva trovato dei sentieri alpestri, dei sassi che facevano vacillare le sue scarpette, delle vigne polverose, delle stoppie riarse che l’accecavano, delle rocce a picco sparse di sommacchi che sembravano della ruggine a quell’altezza, e dove il tramonto intristiva rapidamente la sera. Poi dei giorni sempre uguali, in quella tebaide; un sospetto continuo, una diffidenza d’ogni cosa, dell’acqua che bevevasi, della gente che passava, dei cani che abbaiavano, delle lettere che giungevano — un mucchio di paglia umida in permanenza dinanzi al cancello per affumicare tutto ciò che veniva di fuori, — le rare lettere ricevute in cima a una canna, attraverso il fumo — e per solo svago, il chiacchierìo della zia Cirmena, la quale arrivava ogni sera colla lanterna in mano e il panierino della calza infilato al braccio. Suo nipote l’accompagnava raramente; preferiva rimanersene in casa, a far l’orso e a pensare ai casi suoi o ai suoi morti, chissà... La zia Cirmena per scusarlo parlava del gran talento che aveva quel ragazzo, tutto il santo giorno chiuso nella sua stanzetta, col capo in mano, a riempire degli scartafacci, più grossi di un basto, di poesie che avrebbero fatto piangere i sassi. Don Gesualdo ci s’addormentava sopra a quei discorsi. La mamma parlava poco anche lei, sempre senza fiato, sempre fra letto e lettuccio. La sola che dovesse dar retta alla zia era lei, Isabella, soffocando gli sbadigli, dopo quelle giornate vuote. Alle sue amiche di collegio, disseminate anch’esse di qua e di là, non sapeva proprio cosa scrivere. Marina di Leyra le mandava ogni settimana delle paginette stemmate piene zeppe di avventure, di confidenze interessanti.
La stuzzicava, la interrogava, chiedeva in ricambio le sue confidenze, sembrava a ogni lettera che le capitasse lì dinanzi, coi suoi occhioni superbi, colle belle labbra carnose, a dirle in un orecchio delle cose che le facevano avvampare il viso, che le facevano battere il cuore, quasi ci avesse nascosto il suo segreto da confidarle anche lei. S’erano regalato a vicenda un libriccino di memorie, colla promessa di scrivervi sopra tutti i loro pensieri più intimi, tutto, tutto, senza nascondere nulla! I begli occhi azzurri d’Isabella, gli occhi che diceva lo zio Limòli, senza volerlo, senza guardare neppure, sembrava che cercassero quei pensieri. In quella testolina che portava ancora le trecce sulle spalle, nasceva un brulichìo, quasi uno sciame di api vi recasse tutte le voci e tutti i profumi della campagna, di là dalle roccie, di là da Budarturo, di lontano. Sembrava che l’aria libera, lo stormire delle frondi, il sole caldo, le accendessero il sangue, penetrassero nelle sottili vene azzurrognole, le fiorissero nei colori del viso, le gonfiassero di sospiri il seno nascente sotto il pettino del grembiule. — Vedi quanto ti giova la campagna? — diceva il babbo. — Vedi come ti fai bella?
Ma essa non era contenta. Sentiva un’inquietezza un’uggia, che la facevano rimanere colle mani inerti sul ricamo, che la facevano cercare certi posti per leggere i pochi libri, quei volumetti tenuti nascosti sotto la biancheria, in collegio. All’ombra dei noci, vicino alla sorgente, in fondo al viale che saliva dalla casina, c’era almeno una gran pace, un gran silenzio, s’udiva lo sgocciolare dell’acqua nella grotta, lo stormire delle frondi come un mare, lo squittire improvviso di qualche nibbio che appariva come un punto nell’azzurro immenso. Tante piccole cose che l’attraevano a poco a poco, e la facevano guardare attenta per delle ore intere una fila di formiche che si seguivano, una lucertolina che affacciavasi timida a un crepaccio, una rosa canina che dondolava al disopra del muricciuolo, la luce e le ombre che si alternavano e si confondevano sul terreno. La vinceva una specie di dormiveglia, una serenità che le veniva da ogni cosa, e si impadroniva di lei, e l’attaccava lì, col libro sulle ginocchia, cogli occhi spalancati e fissi, la mente che correva lontano. Le cadeva addosso una malinconia dolce come una carezza lieve, che le stringeva il cuore a volte, un desiderio vago di cose ignote. Di giorno in giorno era un senso nuovo che sorgeva in lei, dai versi che leggeva, dai tramonti che la facevano sospirare, un’esaltazione vaga, un’ebbrezza sottile, un turbamento misterioso e pudibondo che provava il bisogno di nascondere a tutti. Spesso, la sera, scendeva adagio adagio dal lettuccio perchè la mamma non udisse, senza accendere la candela, e si metteva alla finestra, fantasticando guardando il cielo che formicolava di stelle. La sua anima errava vagamente dietro i rumori della campagna, il pianto del chiù, l’uggiolare lontano, le forme confuse che viaggiavano nella notte, tutte quelle cose che le facevano una paura deliziosa. Sentiva quasi piovere dalla luna sul suo viso, sulle sue mani una gran dolcezza, una gran prostrazione, una gran voglia di piangere. Le sembrava confusamente di vedere nel gran chiarore bianco, oltre Budarturo, lontano, viaggiare immagini note, memorie care, fantasie che avevano intermittenze luminose come la luce di certe stelle: le sue amiche, Marina di Leyra, un altro viso sconosciuto che Marina le faceva sempre vedere nelle sue lettere, un viso che ondeggiava e mutava forma, ora biondo, ora bruno, alle volte colle occhiaie appassite e la piega malinconica che avevano le labbra del cugino La Gurna. Penetrava in lei il senso delle cose, la tristezza della sorgente, che stillava a goccia a goccia attraverso le foglie del capelvenere, lo sgomento delle solitudini perdute lontano per la campagna, la desolazione delle forre dove non poteva giungere il raggio della luna, la festa delle rocce che s’orlavano d’argento, lassù a Budarturo, disegnandosi nettamente nel gran chiarore, come castelli incantati. Lassù, lassù, nella luce d’argento, le pareva di sollevarsi in quei pensieri quasi avesse le ali, e le tornavano sulle labbra delle parole soavi, delle voci armoniose, dei versi che facevano piangere, come quelli che fiorivano in cuore al cugino La Gurna. Allora ripensava a quel giovinetto che non si vedeva quasi mai, che stava chiuso nella sua stanzetta, a fantasticare, a sognare come lei. Laggiù, dietro quel monticello, la stessa luna doveva scintillare sui vetri della sua finestra, la stessa dolcezza insinuarsi in lui. Che faceva? che pensava? Un brivido di freddo la sorprendeva di tratto in tratto come gli alberi stormivano e le portavano tante voci da lontano — Luna bianca, luna bella!... Che fai, luna? dove vai? che pensi anche tu? — Si guardava le mani esili e delicate, candide anch’esse come la luna, con una gran tenerezza, con un vago senso di gratitudine e quasi di orgoglio.
Poscia ricadeva stanca da quell’altezza, con la mente inerte, scossa dal russare del babbo che riempiva la casa. La mamma vicino a lui non osava neppure fare udire il suo respiro; come non osava quasi mostrare tutta la sua tenerezza alla figliuola dinanzi al marito, timida, con quegli occhi tristi e quel sorriso pallido che voleva dire tante cose nelle più umili parole: — Figlia! figlia mia!... — Soltanto la stretta delle braccia esili, e l’espressione degli sguardi che correvano inquieti all’uscio dicevano il resto. Quasi dovesse nascondere le carezze che faceva alla sua creatura, le mani tremanti che le cercavano il viso, gli occhi turbati che l’osservavano attentamente. — Che hai? Sei pallida!... Non ti senti bene?
La zia Cirmena che vedeva la ragazza così gracile, così pallidina, con quelle pesche sotto gli occhi, cercava di distrarla, le insegnava dei lavori nuovi, delle cornicette intessute di fili di paglia, delle arance e dei canarini di lana. Le contava delle storielle, le portava da leggere le poesie che scriveva suo nipote Corrado, di nascosto, nel panierino della calza. — Son fresche fresche di ieri. Gliele ho prese dal tavolino ora che è uscito a passeggiare. È ritroso, quel benedetto figliuolo. Così timido! uno che ha bisogno d’aiuto, col talento che ha, peccato! — E le suggeriva anche dei rimedi per la salute delicata, lo sciroppo marziale, delle teste di chiodi in una bottiglia d’acqua. Si sbracciava ad aiutare in cucina, col vestito rimboccato alla cintola, a far cuocere un buon brodo di ossa per sua nipote Bianca, a preparare qualche intingolo per Isabella che non mangiava nulla. — Lasciate fare a me. So quel che ci vuole per lei. Voialtri Trao siete tanti pulcini colla luna. — Un braccio di mare quella zia Cirmena. Una donna che se le si faceva del bene, non ci si perdeva interamente. Spesso costringeva Corrado a venire anche lui la sera per tenere allegra la brigata.
— Tu che sai fare tante cose, coi tuoi libri, colle tue chiacchiere, porterai un po’ di svago. Santo Dio! se stai sempre rintanato coi tuoi libri, come vuoi far conoscere i tuoi meriti? — Poi, quando lui non era presente, cantava anche più chiaro: — Alla sua età!... Non è più un bambino... Bisogna che s’aiuti... Non può vivere sempre alle spalle dei parenti!... — E superbo come Lucifero per giunta, ricalcitrando e inalberandosi se alcuno cercava di aiutarlo, di fargli fare buona figura, se la zia s’ingegnava lei di aprir gli occhi alla gente sul valore del suo nipote Corrado e gli rubava gli scartafacci, e andava a sciorinarli lei stessa in mezzo al crocchio dei cugini Motta, compitando, accalorandosi come un sensale che fa valere la merce, mentre don Gesualdo andava appisolandosi a poco a poco, e diceva di sì col capo, sbadigliando, e Bianca guardava Isabella la quale teneva i grand’occhi sbarrati nell’ombra, assorta, e le si mutava a ogni momento l’espressione del viso delicato, quasi delle ondate di sangue la illuminassero tratto tratto. Donna Sarina tutta intenta alla lettura non si accorgeva di nulla, badava ad accomodarsi gli occhiali di tanto in tanto, chinavasi verso il lume, oppure se la pigliava col nipote che scriveva così sottile.
— Ma che talento, eh! Come amministratore... che so io.... per soprintendere ai lavori di campagna.... dirigere una fattoria, quel ragazzo varrebbe tant’oro. Il cuore mi dice che se voi, don Gesualdo, trovaste di collocarlo in alcuno dei vostri negozi, fareste un affare d’oro!... E.... ora che non ci sente.... per poco salario anche! Il giovane ha gli occhi chiusi, come si dice.... ancora senza malizia.... e si contenterebbe di poco! Fareste anche un’opera di carità, fareste!
Don Gesualdo non diceva nè sì nè no, prudente, da uomo avvezzo a muovere sette volte la lingua in bocca prima di lasciarsi scappare una minchioneria. Ci pensava su, badava alle conseguenze, badava alla sua figliuola, anche russando, con un occhio aperto. Non voleva che la ragazza così giovane, così inesperta, senza sapere ancora cosa volesse dire esser povero o ricco, s’avesse a scaldare il capo per tutte quelle frascherie. Lui era ignorante, uno che non sapeva nulla, ma capiva che quelle belle cose erano trappole per acchiappare i gonzi. Gli stessi arnesi di cui si servono coloro che sanno di lettere per legarvi le mani o tirarvi fuori dei cavilli in un negozio. Aveva voluto che la sua figliuola imparasse tutto ciò che insegnavano a scuola, perchè era ricca, e un giorno o l’altro avrebbe fatto un matrimonio vantaggioso. Ma appunto perch’era ricca tanta gente ci avrebbe fatti su dei disegni. Insomma a lui non piacevano quei discorsi della zia e il fare del nipote che le teneva il sacco con quell’aria ritrosa di chi si fa pregare per mettersi a tavola, di chi vuol vender cara la sua mercanzia. E le occhiate lunghe della cuginetta, i silenzi ostinati, quel mento inchiodato sul petto, quella smania di cacciarsi coi suoi libri in certi posti solitari, per far la letterata anche lei, una ragazza che avrebbe dovuto pensare a ridere e a divertirsi piuttosto....
Finora erano ragazzate; sciocchezze da riderci sopra, o prenderli a scappellotti tutt’e due, la signorina che mettevasi alla finestra per veder volare le mosche, e il ragazzo che stava a strologare da lontano, di cui vedevasi il cappello di paglia al disopra del muricciuolo o della siepe, ronzando intorno alla casina, nascondendosi fra le piante. — Don Gesualdo aveva dei buoni occhi. Non poteva indovinare tutte le stramberie che fermentavano in quelle teste matte, — i baci mandati all’aria, e il sole e le nuvole che pigliavano parte al duetto — a un miglio di distanza, — ma sapeva leggere nelle pedate fresche, nelle rose canine che trovava sfogliate sul sentiero, nell’aria ingenua di Isabella che scendeva a cercare le forbici o il ditale quando per combinazione c’era in sala il cugino, nella furberia di lui che fingeva di non guardarla, come chi passa e ripassa in una fiera dinanzi alla giovenca che vuol comprare senza darle neppure un’occhiata. Vedeva anche nella faccia ladra di Nanni l’Orbo, nel fare sospettoso di lui, nell’aria sciocca che pigliava, quando rizzavasi fra i sommacchi, mettendosi la mano sugli occhi, per guardar laggiù, nel viale, o si cacciava carponi fra i fichi d’India, o veniva a portargli dei pezzi di carta che aveva trovato vicino alla fontana, dei calcinacci scrostati dal sedile, facendo il nesci:
— Don Gesualdo, che c’è stato vossignoria, lassù?... Alle volte.... per far quattro passi.... L’erba sulla spianata è tutta pesta, come ci si fosse sdraiato un asino. Ladri, no, eh?... Ho paura di quelli del colèra piuttosto.
— No.... di giorno?... che diavolo!... bestia che sei!... Non temere, qui stiamo cogli occhi aperti.
E ci stava davvero, con prudenza, per evitar gli scandali, aspettando che terminasse il colèra per scopare la casa, e finirla pulitamente con donna Sarina e tutti i suoi senza dar campo di parlare alle male lingue, rimbeccando la zia Cirmena che s’era messa a far la sapiente anche lei, a parlare col squinci e linci, tagliando corto a quelle chiacchiere sconclusionate che vi tiravano gli sbadigli dalle calcagna. Un giorno, presenti tutti quanti, sputò fuori il fatto suo.
— Ah.... le canzonette? Roba che non empie pancia, cari miei! — La zia Cirmena si risentì alfine: — Voi pigliate tutto a peso e a misura, don Gesualdo! Non sapete quel che vuol dire.... Vorrei vedervici!... — Egli allora, col suo fare canzonatorio, raccolse in mucchio libri e giornali ch’erano sul tavolino e glieli cacciò in grembo, a donna Sarina, ridendo ad alta voce, spingendola per le spalle quasi volesse mandarla via come fa il sensale nel conchiudere il negozio, vociando così forte che sembrava in collera, fra le risate:
— Be’.... pigliateli, se vi piacciono.... Potrete camparci su!...
Tutti si guardarono negli occhi. Isabella si alzò senza dire una parola, ed uscì dalla stanza. — Ah!... — borbottò don Gesualdo. — Ah!...
Ma visto che non era il momento, cacciò indietro la bile e voltò la cosa in scherzo:
— Anche a lei.... le piacciono le canzonette. Come passatempo.... colla chitarra.... adesso che siamo in villeggiatura non dico di no. Ma per lei c’è chi ha lavorato al sole e al vento, capite?... E se ha la testa dura dei Trao, anche i Motta non scherzano, quanto a ciò....
— Bene, — interruppe la zia, — questo è un altro discorso.
— Ah, vi sembra un altro discorso?
— Ecco! — saltò su donna Sarina, pigliandosela a un tratto col nipote. — Tuo zio parla pel tuo bene. Non lo trovi, un parente affezionato come lui, senti!
— Certo, certo.... Voi siete una donna di giudizio, donna Sarina, e cogliete le parole al volo.
La Cirmena allora si mise a dimostrare che un ragazzo di talento poteva arrivare dove voleva, segretario, fattore, amministratore di una gran casa. Le protezioni già non gli mancavano. — Certo, certo, — continuava a ripetere don Gesualdo. Ma non si impegnava più oltre. Si dava da fare a rimettere le seggiole a posto, a chiudere le finestre, come a dire: — Adesso andate via. — Però siccome il giovane voltava le spalle senza rispondere, con la superbia che avevano tutti quei parenti spiantati, donna Sarina non seppe più frenarsi, raccattando in furia i ferri da calza e gli occhiali, infilando il paniere al braccio senza salutar nessuno.
— Guardate s’è questa la maniera! Così si ringraziano i parenti della premura? Io me ne lavo le mani.... come Pilato.... Ciascuno a casa sua....
— Ecco la parola giusta, donna Sarina. Ciascuno a casa sua. Aspettate, che vi accompagno... Eh? eh? che c’è?
Da un pezzo, mentre discorreva, tendeva l’orecchio all’abbaiare dei cani, al diavolìo che facevano oche e tacchini nella corte, a un correre a precipizio. Poi si udì una voce sconosciuta in mezzo al chiacchierìo della sua gente. Dal cancello s’affacciò il camparo, stralunato, facendogli dei segni.
— Vengo, vengo, aspettate un momento.
Tornò poco dopo che sembrava un altro, stravolto, col cappello di paglia buttato all’indietro, asciugandosi il sudore. Donna Sarina voleva sapere a ogni costo cosa fosse avvenuto, fingendo d’aver paura.
— Nulla.... Le stoppie lassù avran preso fuoco.... V’accompagno. È cosa da nulla.
Nell’aia erano tutti in subbuglio. Mastro Nardo, sotto la tettoia, insellava in fretta e in furia la mula baia di don Gesualdo. Dinanzi al rastrello del giardino Nanni l’Orbo e parecchi altri ascoltavano a bocca aperta un contadino di fuorivia che narrava gran cose, accalorato, gesticolando mostrando il vestito ridotto in brandelli.
— Nulla, nulla, — ripetè don Gesualdo. — V’accompagno a casa vostra. Non c’è premura. — Si vedeva però ch’era turbato, balbettava, grossi goccioloni gli colavano dalla fronte. Donna Sarina s’ostinava ad aver paura, piantandosi su due piedi, frugando di qua e di là cogli occhi curiosi, fissandoli in viso a lui per scovar quel che c’era sotto: — Un caso di colèra, eh? Ce l’han portato sin qui? Qualche briccone? L’han colto sul fatto? — Infine don Gesualdo le mise le mani sulle spalle, guardandola fissamente nel bianco degli occhi: — Donna Sarina, a che giuoco giochiamo? Lasciatemi badare agli affari di casa mia! santo e santissimo! — E la mise bel bello sulla sua strada, di là dal ponticello. Tornando indietro se la prese con tutta quella gente che sembrava ammutinata, comare Lia che aveva lasciato d’impastare il pane, sua figlia accorsa anche lei colle mani intrise di farina. — Che c’è? che c’è? Voi, mastro Nardo, andate avanti colla mula. Vi raggiungerò per via. Lì, da quella parte, pel sentiero. Non c’è bisogno di far sapere a tutto il vicinato se vo o se rimango. E voialtri badate alle vostre faccende. E cucitevi la bocca, ehi!... senza suonar la tromba e andar narrando quel che mi succede, di qua e di là!...
Poi salì di sopra colle gambe rotte. Bianca appena lo vide con quella faccia si impaurì. Ma egli però non le disse nulla. Temeva che i sorci ballassero mentre non c’era il gatto. Mentre la moglie l’aiutava a infilarsi gli stivali, andava facendole certe raccomandazioni: — Bada alla casa. Bada alla ragazza. Io vo e torno. Il tempo d’arrivare alla Salonia per mio padre che sta poco bene. Gli occhi aperti finchè non ci son io, intendi? — Bianca da ginocchioni com’era alzò il viso attonito. — Svegliati! Come diavolo sei diventata? Tale e quale tuo fratello don Ferdinando sei! Tua figlia ha la testa sopra il cappello, te ne sei accorta? Abbiamo fatto un bel negozio a metterle in capo tanti grilli! Chissà cosa s’immagina? E gli altri pure.... Donna Sarina e tutti gli altri! Serpi nella manica!... Dunque, niente visite, finchè torno.... e gli occhi aperti sulla tua figliuola. Sai come sono le ragazze quando si mettono in testa qualcosa!... Sei stata giovane anche tu.... Ma io non mi lascio menare pel naso come i tuoi fratelli, sai!... No, no, chetati! Non è per rimproverarti.... L’hai fatto per me, allora. Sei stata una buona moglie, docile e obbediente, tutta per la casa.... Non me ne pento. Dico solo acciò ti serva d’ammaestramento, adesso. Le ragazze per maritarsi non guardano a nulla.... Tu almeno non facevi una pazzia.... Non te ne sei pentita neppur tu, è vero? Ma adesso è un altro par di maniche. Adesso si tratta di non lasciarsi rubare come in un bosco....
Bianca, ritta accanto all’uscio, col viso scialbo, spalancò gli occhi, dove era in fondo un terror vago, uno sbalordimento accorato, l’intermittenza dolorosa della ragione annebbiata ch’era negli occhi di don Ferdinando.
— Ah! Hai capito finalmente! Te ne sei accorta anche tu! E non mi dicevi nulla!... Tutte così voialtre donne.... a tenervi il sacco l’una coll’altra!... congiurate contro chi s’arrovella pel vostro meglio!
— No!... vi giuro!... Non so nulla!... Non ci ho colpa.... Che volete da me?... Vedete come son ridotta!...
— Non lo sapevi? Cosa fai dunque? Così tieni d’occhio tua figlia.... È questa una madre di famiglia?... Tutto sulle mie spalle! Ho le spalle grosse. Ho lo stomaco pieno di dispiaceri.... E sto benone io!... Ho la pelle dura.
E se ne andò col dorso curvo, sotto il gran sole, ruminando tutti i suoi guai. Il messo ch’era venuto a chiamarlo dalla Salonia l’aspettava in cima al sentiero, insieme a mastro Nardo che tirava la mula zoppicando. Come lo vide da lontano si mise a gridare:
— Spicciatevi, vossignoria. Se arriviamo tardi, per disgrazia, la colpa è tutta mia.
Cammin facendo raccontava cose da far drizzare i capelli in testa. A Marineo avevano assassinato un viandante che andava ronzando attorno all’abbeveratoio, nell’ora calda, lacero, scalzo, bianco di polvere, acceso in volto, con l’occhio bieco, cercando di farla in barba ai cristiani che stavano a guardia da lontano, sospettosi. A Callari s’era trovato un cadavere dietro una siepe, gonfio come un otre: l’aveva scoperto il puzzo. La sera, dovunque, si vedevano dei fuochi d’artifizio, una pioggia di razzi, tale e quale la notte di San Lorenzo, Dio liberi! Una donna incinta, che s’era lasciata aiutare da uno sconosciuto, mentre portava un carico di legna al Trimmillito, era morta la stessa notte all’improvviso, senza neanche dire — Cristo aiutami — colla pancia piena di fichi d’India.
— Vostro padre l’ha voluto lui stesso il colèra, sissignore. Tutti gli dicevano: Non aprite se prima il sole non è alto! Ma sapete che testa dura! Il colèra ce l’ha portato alla Salonia un viandante che andava intorno colla bisaccia in spalla. Di questi tempi, figuratevi! C’è chi l’ha visto a sedere, stanco morto, sul muricciuolo vicino alla fattoria. Poi tutta la notte rumori sul tetto e dietro gli usci.... E le macchie d’unto che si son trovate qua e là a giorno fatto!... Come della bava di lumaca.... Sissignore!... Quella bestia dello speziale continua a predicare di scopar le case, di pigliarsela coi maiali e colle galline, per tener lontano il colèra! Adesso il veleno ce lo portano le bestie del Signore, che non hanno malizia! avete inteso, vossignoria?... Roba da accopparli tutti quanti sono, medici, preti e speziali, perchè loro ogni cristiano che mandano al mondo della verità si pigliano dodici tarì dal re! E l’arciprete Bugno ha avuto il coraggio di predicarlo dall’altare: — Figliuoli miei, so che ce l’avete con me, a causa del colèra. Ma io sono innocente. Ve lo giuro su quest’ostia consacrata! — Io non so s’era innocente o no. So che ha acchiappato il colèra anche lui, perchè teneva in casa quelle bottiglie che mandano da Napoli per far morire i cristiani. Io non so niente. Il fatto è che i morti fioccano come le mosche: Donna Marianna Sganci, Peperito....