< Mastro-don Gesualdo < Parte terza
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Parte terza - Capitolo Quarto
Parte terza - Cap III Parte quarta - Cap I



IV.




Cessata la paura del colèra, appena ritornato in paese, don Gesualdo s’era vista arrivare la citazione della sorella, autorizzata dal marito Burgio, che voleva la sua parte dell’eredità paterna — di tutto ciò che egli possedeva — una bricconata; adducendo che quei beni erano stati acquistati coi guadagni della società, di cui era a capo mastro Nunzio; e che adesso voleva appropriarsi tutto lui, Gesualdo, — lui che li aveva avuti tutti quanti sulle spalle, sino a quel giorno! che aveva dovuto chinare il capo alle speculazioni sbagliate del padre! ch’era stato la provvidenza del cognato Burgio nelle malannate! che pagava i debiti del fratello Santo all’osteria di Pecu— Pecu! — anche Santo lo citava per avere la sua quota, aveva fatto parte della società anche lui, quel fannullone! — Ora lo svillaneggiavano per mezzo d’usciere; gli davano del ladro; volevano mettere i sigilli; sequestrargli la roba. Lo trascinavano fra le liti, gli avvocati, i procuratori — un sacco di spese, tanti bocconi amari, tanta perdita di tempo, tanti altri affari che ne andavano di mezzo, i suoi nemici che c’ingrassavano — nei caffè e nelle spezierie non si parlava d’altro — tutti addosso a lui perch’era ricco, e pigliando le difese dei suoi parenti che non avevano nulla! Il notaro Neri gli faceva anche l’avvocato contrario, gratis et amore, per le questioni vecchie e nuove che erano state fra di loro. Speranza l’aspettava sulle scale del pretorio per vomitargli addosso degli improperii, aizzandogli contro i figliuoli grandi e grossi inutilmente, aizzandogli contro Santo che non aveva faccia veramente di pigliarsela con don Gesualdo e cercava di sfuggirlo. — Siete tutti quanti dei capponi! tale e quale mio marito!... Io sola dovrei portare i calzoni qui! Non mi tengo se non lo mando in galera, quel ladro! Venderò la camicia che ho indosso. Voglio il fatto mio, il sangue di mio padre.... — Fu peggio ancora la prima volta che il giudice le diede causa persa: — Signori miei, guardate un po’!... Tutto si compra coi denari al giorno d’oggi!... Ma ricorrerò sino a Palermo, sino al re, se c’è giustizia a questo mondo!... — Il barone Zacco, siccome allora aveva in testa di combinare certo negozio con don Gesualdo, s’intromise a farla da paciere. Una domenica riunì in casa sua tutti i Motta, compreso il marito di comare Speranza ch’era una bestia, e non sapeva dire le sue ragioni. Santo, costretto a trovarsi faccia a faccia con suo fratello don Gesualdo, cominciò dallo scusarsi:

— Che vuoi?... Io non ci ho colpa. Mi condussero dall’avvocato... Cosa dovevo fare?... Perchè l’abbiamo chiesto il consiglio dell’avvocato?... Quello che mi dice l’avvocato io fo....

Don Gesualdo si mostrava arrendevole. Non che ci fosse obbligato, no! — la legge lui la conosceva. — Ma per buon cuore. Il bene che aveva potuto fare ai suoi parenti l’aveva sempre fatto, e voleva continuare a farlo. Lì un battibecco di prove e controprove che non finivano più. Speranza che vedeva sfumare la sua parte dell’eredità se si parlava di buon cuore, se la pigliava col marito e coi figliuoli i quali non sapevano difendersi. Anche Santo stava zitto, come un ragazzo che ne ha fatta una grossa. Fortuna che c’era lei, a dire il fatto suo:

— Che volete darci, la limosina? Qualche salma di grano a comodo vostro, di tanto in tanto? qualche salma di vino, quello che non potete vendere?

— Cosa vuoi che ti dia, l’Alia o Donninga? Vuoi che mi spogli io per empire il gozzo a voialtri che non avete fatto nulla? Ho figli. La roba non posso toccarla....

— La roba tua?... sentite quest’altra! Allora vuol dire che nostro padre buon’anima non ha lasciato nulla? E il negozio del gesso che avevate in comune? E quando avete preso insieme l’appalto del ponte? Nulla è rimasto alla buon’anima? I guadagni sono stati di voi solo? per comprare delle belle tenute? quelle che volete appropriarvi perchè avete dei figliuoli?... C’è un Dio lassù, sentite!... Ciò che volete togliere di bocca a questi innocenti, c’è già chi se lo mangia alla vostra barba! Andate a vedere, la sera, sotto le vostre finestre, che passeggio!...

Finì in parapiglia. Il barone dovette mettersi a gridare e a fare il diavolo perchè non si accapigliassero seduta stante, invece di rappacificarsi. Speranza se ne andò da una parte ancora sbraitando, e don Gesualdo dall’altra, colla bocca amara, tormentato anche da quell’altra pulce che la sorella gli aveva messo nell’orecchio. Adesso, in mezzo a tanti guai e grattacapi, gli toccava pure dover sorvegliare la figliuola e quell’assassino di Corrado La Gurna che la Cirmena per dispetto gli metteva fra i piedi, lì in paese, a spese sue. Doveva tenere gli occhi aperti su ciascuno che andava e veniva, sulle serve, sui fogli di carta che mancavano, sulla figliuola la quale aveva l’aria di chi ne cova una grossa, pallida allampanata... Ci si struggeva l’anima, la disgraziata! E lui doveva rodersi il fegato e mandar giù la bile, per non far di peggio. Una sera finalmente la sorprese alla finestra, con un tempo da lupi.

— Ah!... Continua la musica!... Che fai qui.... a quest’ora?... A prendere il fresco per l’estate? T’insegno io a contar le stelle! Non m’hai visto ancora uscir dai gangheri! Gliel’insegno io a passeggiar di sera sotto le mie finestre, a certi cavalieri! Un fracco di legnate, se l’incontro! M’hai visto finora colla bocca dolce; ma adesso ti fo vedere anche l’amaro! Ti faccio arar diritto, come tiro l’aratro io!

Da quel giorno ci fu un casa del diavolo, mattina e sera. Don Gesualdo prese Isabella colle buone, colle cattive, per levarle dalla testa quella follìa; ma essa l’aveva sempre lì, nella ruga sempre fissa fra le ciglia, nella faccia pallida, nelle labbra strette che non dicevano una parola, negli occhi grigi e ostinati dei Trao che dicevano invece — Sì, sì, a costo di morirne! — Non osava ribellarsi apertamente. Non si lagnava. Ci perdeva la giovinezza e la salute. Non mangiava più; ma non chinava il capo, testarda, una vera Trao, colla testa dura dei Motta per giunta. — Il pover’uomo era ridotto a farsi da sè l’esame di coscienza. — Dei genitori quella ragazza aveva preso i soli difetti. Ma l’amore alla roba, no! Il giudizio di capire chi le voleva bene e chi le voleva male, il giudizio di badare ai suoi interessi, no! Non era neppure docile e ubbidiente come sua madre. Gli aveva guastata anche Bianca! Anche costei, al vedere la sua creatura che diventava pelle e ossa, era diventata come una gatta che gli si vogliano rubare i figliuoli, col pelo irto, tale e quale — la schiena incurvata dalla malattia e gli occhi luccicanti di febbre. Gli sfoderava contro le unghie e la lingua. — Volete farla morire di mal sottile, la mia creatura? Non vedete com’è ridotta? Non vedete che vi manca di giorno in giorno? — L’avrebbe aiutata, sottomano, anche a fare uno sproposito, anche a rompersi il collo. Avrebbe tradito il marito per la sua creatura. Gli diceva: — Me ne vo a stare da mio fratello! Io e la mia figliuola! Che vi pare? — Cogli occhi di brace. Non l’aveva mai vista a quella maniera. Una volta, dietro al medico il quale veniva per la ragazza, egli vide capitare una faccia che non gli piacque: una vecchia del vicinato che portava la medicina del farmacista, come don Luca il sagrestano e sua moglie Grazia portavano in casa Trao le sue imbasciate amorose. Era ridotto a passare in rivista le ricette del medico e la carta delle pillole che mandava Bomma. In un mese mutarono cinque donne di servizio. Era un tanghero lui, ma non era un minchione come i fratelli Trao. Teneva ogni cosa sotto chiave; non lasciava passare un baiocco che potesse aiutare a fargli il tradimento. Era un cane alla catena anche lui, pover’uomo. Infine per togliersi da quell’inferno si decise a mettere Isabella in convento, lì al Collegio di Maria, come quando era bambina, carcerata!

Sua moglie ebbe un bel piangere e disperarsi. Il padrone era lui! — Sentite, — gli disse Bianca colle mani giunte, — io ho poco da penare. Ma lasciatemi la mia figliuola, fino a quando avrò chiuso gli occhi.

— No! — rispose il marito. — Non ha neppure compassione di te quell’ingrata! Ci siamo ammazzati tutti per farne un’ingrata! Ha perso l’amore ai parenti.... lontana di casa sua!

Il tradimento glielo fecero lì, al Collegio: dell’altra gente beneficata da lui, la sorella di Gerbido che faceva la portinaia, Giacalone che veniva a portare i regali della zia Cirmena e faceva passare i bigliettini dalla ruota, Bomma che teneva conversazione aperta nella spezieria per far comodo a don Corrado La Gurna, il quale mettevasi subito a telegrafare, appena la ragazza saliva apposta sul campanile. Lo facevano per pochi baiocchi, per piacere, per niente, per inimicizia. Congiuravano tutti quanti contro di lui, per rubargli la figliuola e la roba, come se lui l’avesse rubata agli altri. Un bel giorno infine, mentre le monache erano salite in coro, che c’erano le quarant’ore, la ragazza si fece aprir la porta dai suoi complici, e spiccò il volo.

Fu il due febbraio, giorno di Maria Vergine. C’era un gran concorso di devoti quell’anno alla festa, perchè non pioveva dall’ottobre. Don Gesualdo era andato in chiesa anche lui, a pregare Iddio che gli togliesse quella croce d’addosso. Invece il Signore doveva aver voltati gli occhi dall’altra parte quella mattina. Appena tornò dalla santa Messa, quel giorno segnalato, trovò la casa sottosopra; sua moglie colle mani nei capelli, le serve che correvano di qua e di là. Infine gli narrarono l’accaduto. Fu come un colpo d’accidente. Dovettero mandare in fretta e in furia pel barbiere e cavargli sangue. La gnà Lia si buscò uno schiaffo tale da fracassarle i denti. Bianca più morta che viva scendeva le scale ruzzoloni, quasi per fuggirsene anche lei, dalla paura. Lui, paonazzo dalla collera, colla schiuma alla bocca, non ci vedeva dagli occhi. Non vedeva lo stato in cui era la poveretta. Voleva correre dal giudice, dal sindaco, mettere sottosopra tutto il paese; far venire la Compagnia d’Arme da Caltagirone; farli arrestare tutti e due, figliuola e complice; farlo impiccare nella pubblica piazza, quel birbante! farlo squartare dal boia! fargli lasciare le ossa in fondo a un carcere! — Quell’assassino! quel briccone! In galera voglio farlo morire!... tutti e due!...

In mezzo a quelle furie capitò la zia Cirmena, col libro da messa in mano, il sorriso placido, vestita di seta.

— Chetatevi, don Gesualdo. Vostra figlia è in luogo sicuro. Pura come Maria Immacolata! ! Chetatevi! Non fate scandali, ch’è peggio! Vedete vostra moglie, che pare stia per rendere l’anima a Dio, poveretta! Lei è madre! Non possiamo sapere quello che ci ha nel cuore in questo momento! Sono venuta apposta per accomodar la frittata. Io non ci ho il pelo nello stomaco, come tanti altri. Non so tener rancore. Sapete che mi sono sbracciata sempre pei parenti. Mi avete messo sulla strada... col colèra... con un orfanello sulle spalle... Ma non importa. Eccomi qua ad accomodare la faccenda. Ho il cuore buono, tanto peggio! mio danno! Ma non so che farci! Ora bisogna pensare al riparo. Bisogna maritar quei due ragazzi, ora che il male è fatto. Non ci è più rimedio. Del resto sul giovane non avete che dire... di buona famiglia.

Don Gesualdo stavolta le perse il rispetto addirittura, con tanto di bocca aperta, quasi volesse mangiarsela: — Con quel pezzente?... Dargli la mia figliuola?... Piuttosto la faccio morire tisica come sua madre!... In campagna! in un convento! Bel negozio che mi portate!... da pari vostra!... Ci vuole una bella faccia tosta!... Mi fate ridere con questa bella nobiltà... So quanto vale!... tutti quanti siete!....

Successe un parapiglia. Donna Sarina sfoderò anche lei la sua lingua tagliente, rossa al pari di un gallo: — Parlate da quello che siete! Almeno dovevate tacere per riguardo a vostra moglie, villano! mastro-don Gesualdo! Siete la vergogna di tutto il parentado!...

— Ah! ah! la vergogna. Andate là che avete ragione a parlare di vergogna, voi!... mezzana! Ci avete tenuto mano anche voi! Siete la complice di quel ladro!... Bel mestiere alla vostra età! Vi farò arrestare insieme a lui, donna Sarina dei miei stivali! donna... cosa, dovrebbero chiamarvi!

Sopraggiunse lo zio Limòli, nonostante i suoi acciacchi, pel decoro della famiglia, per cercare di metter pace anche lui, colle buone e colle cattive. — Non fate scandali! Non strillate tanto, ch’è peggio! I panni sporchi si lavano in casa. Vediamo piuttosto d’accomodare questo pasticcio. Il pasticcio è fatto, caro mio, e bisogna digerirselo in santa pace. Bianca! Bianca, non far così che ti rovini la salute... Non giova a nulla...

Don Gesualdo partì subito a rompicollo per Caltagirone. Voleva l’ordine d’arresto, voleva la Compagnia d’Arme. Lo zio marchese dal canto suo provvide a quello che c’era di meglio da fare, con prudenza ed accorgimento. Prima di tutto andò a prendere subito la nipote, e l’accompagnò al monastero di Santa Teresa, raccomandandola a una sua parente. La gente di casa, un po’ colle minacce, un po’ col denaro, furono messi a tacere. Poco dopo giunse come un fulmine da Caltagirone l’ordine d’arresto per Corrado La Gurna. Donna Sarina Cirmena, impaurita, tenne la lingua a casa anche lei.

Intanto il marchese lavorava sottomano a cercare un marito per Isabella. Era figlia unica; don Gesualdo per amore o per forza, avrebbe dovuto darle una bella dote; e colle sue numerose relazioni era certo di procurarle un bel partito. Ne scrisse ai suoi amici; ne parlò alle persone che potevano aiutarlo in simili faccende, il canonico Lupi, il notaro Neri. Quest’ultimo gli scovò finalmente colui che faceva al caso: un gran signore di cui il notaro amministrava i possessi, alquanto dissestato è vero nei suoi affari, ingarbugliato fra liti e debiti, ma di gran famiglia, che avrebbe dato un bel nome alla discendenza di mastro-don Gesualdo. Quando si venne poi a discorrere della dote con quest’ultimo fu un altro par di maniche. Lui non voleva lasciarsi mangiar vivo. Neanche un baiocco! Il suo denaro se l’era guadagnato col sudore della fronte, la vita intera. Non gli piaceva di lasciarsi aprir le vene per uno che doveva venire da Palermo a bersi il sangue suo.

— Di dove volete che venga dunque, dalla luna? Caro mio, queste son parole al vento. Sapete com’è? Vi porto un paragone a modo vostro, per farvi intendere ragione: La grandine che vi casca nella vigna... Una disgrazia che vi capita nell’armento... Bisogna mandare alla fiera la giovenca che si è rotte le corna, e chiudere gli occhi sul prezzo. Bisogna chinare il capo, per amore o per forza. Del resto non avete altri figliuoli... Almeno sapete di farla una signorona!...

Il marchese nel tempo istesso andava a far visita alla nipotina. La pigliava colle buone, col giudizio che ci vuole per toccare certi tasti: — Hai ragione! Piangi pure che hai ragione! Sfogati con me che capisco queste cose... Un brucio, una cosa che sembra di morire! Tuo padre non ne capisce nulla, poveretto. È stato sempre in mezzo ai suoi negozi, ai suoi villani... un po’ rozzo anche, se vogliamo... Ma ha lavorato per te, per farti ricca. Tu, col nome di tua madre, e coi quattrini di lui, puoi rappresentare la prima parte anche in una grande città, quando vorrai... Non qui, in questo buco... Qui mi sembra di soffocare anche a me. Sono stato giovane; me li son goduti anch’io i begli anni... Appunto ti dicevo... Capisco quello che devi averci adesso nel tuo cuoricino. Quando si è giovani pare che al mondo non ci debba essere altro che quello... Tuo padre ha preso la via storta... Ma se lui si ostina a non darti nulla, neanche quel giovane, poveretto, ne ha... E allora... se ti tocca scopar la casa... se lui deve tirare il diavolo per la coda... Sarà un affar serio, intendi? Vengono le quistioni, i pentimenti, i musi lunghi. I musi lunghi imbruttiscono te e lui, mia cara. Perchè poi? con qual costrutto? Se tuo padre ha detto di no, sarà di no, che non lo sposerai. Morirai qui, in questa specie d’ergastolo; ci consumerai i tuoi begli anni. Corrado rimarrà in esilio, ad arbitrio della polizia, finchè vorrà tuo padre; egli ha le braccia lunghe adesso... Nemmeno a chi vuoi bene gioveresti, se ti ostini. Tuo cugino ha bisogno d’aver la testa quieta, di lavorare in pace, per guadagnarsi da vivere onestamente... Invece potresti sposare un gran signore, e s’è vero che quel giovane ti vuol tanto bene dovrebbe esser contento lui pel primo. Quello si chiama amore... Un gran signore, capisci! Per ora non dirne nulla colle tue compagne... qui nel monastero sai creperebbero d’invidia... Ma so che c’è per aria il progetto di farti sposare un gran signore. Saresti principessa o duchessa! Altro che donna tal di tali! Carrozze, cavalli, palco a teatro tutte le sere, gioielli e vestiti quanti ne vuoi...Con quel bel visetto so io quante teste farai girare in una gran città! Quando si entra in una sala di ballo, scollacciata, coperta di brillanti, tutti che domandano: — Chi è quella bella signora?... — E si sente rispondere: la duchessa tale o la principessa tal’altra!... — Via, vieni a veder tua madre ch’è ancora ammalata, poveretta! L’ha finita quel colpo! Sai ch’è di poca salute!... Anche tuo padre t’aspetta a braccia aperte. È un buon uomo, poveraccio! Un cuor d’oro, uno che s’è ammazzato a lavorare per farti ricca!... Adesso torna a casa... Poi si vedrà...

Quando finalmente lo zio marchese condusse dai genitori la pecorella smarrita, fu una scena da far piangere i sassi. Isabella cadde ginocchioni dinanzi al letto della mamma, che trovava così mutata, singhiozzando e domandandole perdono; mentre sua madre, poveretta, passava da uno svenimento all’altro, tanta era la consolazione. Poi arrivò don Gesualdo, e stettero zitti tutti quanti. Egli infine prese la parola, un po’ turbato anche lui, cogli occhi gonfi, chè il sangue infine non è acqua, e il cuore non l’aveva di sasso.

— Me l’hai fatta grossa! Questa non me la meritavo. Ci siamo tolto il pan di bocca, io e tua madre, per farti ricca!... Vedi com’è ridotta, poveraccia?... Se chiude gli occhi è un cadavere addirittura!... Ma sei il sangue nostro, la nostra creatura, e ti abbiamo perdonato. Ora non se ne parli più.

Però Isabella ne parlava sempre collo zio marchese, colla zia Mèndola, colla zia Macrì, con tutti i parenti; da tutti cercava aiuto, fin dal suo confessore, come una pazza, desolata, lavando dal piangere le pietre del confessionario. Tutti le dicevano: — Che possiamo farci, se tuo padre non vuole? Lui è il padrone. Lui deve mettere fuori i denari della dote. Lo fa pel tuo meglio; cerca il tuo vantaggio. Tutte quante si maritano come vogliono i genitori! — Il confessore stesso tirava fuori la volontà di Dio. Anche la zia Cirmena, quando aveva visto che non era bastata nemmeno la fuga a cavare i denari della dote dalle mani di don Gesualdo, s’era stretta nelle spalle:

— Che vuoi, mia cara? Io ho fatto il possibile. Ma senza denari non si canta Messa. Corrado non ha nulla; tu non hai nulla neppure, se tuo padre si ostina a dir di no... Fareste un bel matrimonio! Vedi com’è andata a finire? Che quel povero giovane ci ha rimesso anche la libertà, pel capriccio di tuo padre! Lascialo stare in pace almeno, perchè adesso, alle lettere che scrive ai parenti ogni giorno, tutte che piangono guai e vorrebbero denari, in conclusione, è un affare serio!...

Il marchese Limòli poi gliela cantava su un altro tono:

— Figliuola mia, quando uno non è ricco, non può darsi il gusto di innamorarsi come vuole. Voialtri siete giovani tutti e due, e avete gli occhi chiusi. Non vedete altro che una cosa sola! Bisogna vedere anche quello che verrà poi, la pentola da mettere al fuoco, le camice da rattoppare... Sarà un bel divertimento! Tu sei nata bene, per parte di madre, lo so anch’io. Ma vedi tua madre, cos’ha dovuto fare, e tuo zio don Ferdinando, e io stesso!... Siamo tutti nati dalla costola di Adamo, figliuola mia!... Anche Corrado è della costola d’Adamo. Ma i baiocchi li tiene tuo padre! Se non vuol darvene, andrete a scopar le strade tutti e due, e dopo un mese vi piglierete pei capelli. Invece puoi fare un gran matrimonio, sfoggiarla da gran signora, in una gran città!... Dopo, quando avrai il cuoco in cucina, la carrozza che t’aspetta e le tue buone rendite garantite nell’atto dotale, potrai darti il lusso di pensare alle altre cose...

Verso la Pasqua giunse in paese il duca di Leyra, col pretesto di dar sesto ai suoi affari da quelle parti, chè ne avevano tanto di bisogno. Era un bell’uomo, magro, elegante, un po’ calvo, gentilissimo. Si cavava il cappello anche per rispondere al saluto dei contadini. Aveva lo stesso sorriso e le medesime maniere cortesi per tutti i seccatori dai quali fu tosto assediato, fin dal primo giorno. Nel paese fu l’argomento di tutti i discorsi: Quel che aveva detto; quel che era venuto a fare; quanto tempo si sarebbe fermato lì; quanti anni aveva. Le signore asserivano che non dimostrava più di quarant’anni. Il giorno della processione del Cristo risuscitato ci fu il Caffè dei Nobili pieno zeppo di signore. Le Zacco con certi cappellini che facevano male agli occhi; la signora Capitana stecchita nel suo eterno lutto che la ringiovaniva, e la faceva chiamare ancora la bella vedovella - da dieci anni, dacchè era morto suo marito. - Le Margarone in gran gala, verdi, rosse, gialle, svolazzanti di piume, di nastri, di ricciolini diventati neri col tempo, grasse da scoppiare, color di mattone in viso. Tutte che cicalavano, e si davano un gran da fare per dar nell’occhio ai signori forestieri. Il duca s’era tirato dietro lo zio balì, onde sembrar più giovane — dicevano le male lingue: un vecchietto grasso e rubicondo che doveva lasciargli l’eredità, e intanto faceva la corte alle signore — come non sanno farla più al giorno d’oggi! — osservò la Capitana.

Sul più bello, mentre la statua dell’Evangelista correva balzelloni da Gesù a Maria, e il popolo gridava: viva Dio resuscitato! capitò la carrozza nuova di don Gesualdo Motta. Lui con la giamberga dai bottoni d’oro e il solitario al petto della camicia, la moglie in gala anche lei, poveretta, che la veste nuova le piangeva addosso, allampanata, ridotta uno scheletro, e la figliuola con un vestito nuovo, fatto venire apposta da Palermo. La folla si apriva per lasciarli passare, senza bisogno di spintoni. Dei curiosi guardavano a bocca aperta. Lo stesso duca domandò chi fossero: — Ah, una Trao! Si vede subito, quantunque abbia l’aria un po’ sofferente, povera signora. — Il marchese Limòli ringraziava lui, con un cenno del capo, e lo presentò alla nipote. Il duca e il balì di Leyra fecero un gruppo a parte, sul marciapiede del Caffè dei Nobili, colla famiglia di don Gesualdo e il marchese Limòli. Tutt’intorno c’era un cerchio di sfaccendati.

Il barone Zacco attaccò discorso col cocchiere per scavare cosa c’era sotto. Mèndola fingeva d’accarezzare i cavalli. Canali ammiccava di qua e di là: — Guardate un po’, signori miei, che ruota è il mondo! — Nessuno badava più alla processione. C’era un bisbiglio in tutto il Caffè. Don Ninì Rubiera, da lontano, col cappello in cima al bastone appoggiato alla spalla, si morsicava le labbra dal dispetto, pensando a quel che era toccato a lui invece, donna Giuseppina Alòsi in moglie, una mandra di figliuoli, la lite per la casa che mastro— don Gesualdo voleva acchiapparsi col pretesto del debito, dopo tanto tempo... La moglie al vederlo così stralunato, cogli occhi fissi addosso a sua cugina, gli piantò una gomitata aguzza nelle costole.

— Quando volete finirla?... E’ uno scandalo!... I vostri figliuoli stessi che vi osservano! Vergogna!

— Ma sei pazza? — rispose lui. — Diavolo! Ho altro pel capo adesso! Non vedi che ha già i capelli bianchi? ch’è una mummia?... Sei pazza?

Egli pure era invecchiato, floscio, calvo, panciuto, acceso in viso, colle gote ed il naso ricamati di filamenti sanguigni che lo minacciavano della stessa malattia di sua madre. Ora si guardavano come due estranei, lui e Bianca, indifferenti, ciascuno coi suoi guai e i suoi interessi pel capo. Anche le male lingue, dopo tanto tempo, avevano dimenticato le chiacchiere corse sui due cugini. Però invidiavano mastro— don Gesualdo il quale era arrivato a quel posto, e donna Bianca che aveva fatto quel gran matrimonione. La sua figliuola sarebbe arrivata chissà dove! Donna Agrippina Macrì e le cugine Zacco saettavano occhiate di fuoco sul cappellino elegante d’Isabella, e sui salamelecchi che le faceva il duca di Leyra, inguantato, con un cravattone di raso che gli reggeva il bel capo signorile, giocherellando con un bastoncino sottile che aveva il pomo d’oro. La signora Capitana fece osservare a don Mommino Neri, il quale era diventato un rompicollo, dopo la storia della prima donna:

— E’ inutile! Basta guardarlo un momento, per saper con chi avete da fare. Dirà magari delle sciocchezze adesso... Ma è il modo in cui le dice!... Ogni parola come se ve la mettesse in un vassoio...

Il signor duca andò poi a presentare i suoi omaggi in casa Motta. Don Gesualdo si fece trovare nel salotto buono. Avevano lavorato tutto il giorno a dar aria e spolverare, le serve, lui, mastro Nardo. Il signor duca, colla parlantina sciolta, discorreva un po’ di tutto, di agricoltura col padrone di casa, di mode con le signore, di famiglie antiche col marchese Limòli. Egli aveva sulla punta delle dita tutto l’almanacco delle famiglie nobili dell' isola. Arrivò anche a confidare che la sua era originaria del paese. Desiderava fare il suo dovere con don Ferdinando Trao, e visitare il palazzo, che doveva essere interessantissimo. Con la ragazza, di sfuggita, lasciò cadere il discorso sulle opere allora in voga; raccontò qualche fatterello della società; narrò aneddoti del tempo in cui era a Palermo la corte, la regina Carolina, gli inglesi: un mondo di chiacchiere, come una lanterna magica nella quale passavano delle gran dame, del lusso e delle feste. Nell’andarsene baciò la mano a donna Bianca. Per le scale, dal pollaio, sull’uscio della legnaia, tutta la gente di casa s’affollava per vederlo passare. Dopo, la sera non si fece altro che parlare di lui, in cucina, fin le serve, e mastro Nardo, il quale sgranava gli occhi.

Il balì di Leyra e il marchese Limòli poi avevano intavolato un altro discorso, così, a fior di labbra, tenendosi sulle generali. Il giorno dopo intervenne anche il duca, il quale confessò prima di tutto ch’era innamorato della ragazza, un vero fiorellino dei campi, una violetta nascosta; e dichiarò sorridendo, che quanto al resto... d’affari voleva dire... non se n’era occupato mai, per sua disgrazia!... non era il suo forte, e aveva pregato il notaro Neri di far lui...

Un vero usuraio, quel notaro, sottile, avido, insaziabile. Don Gesualdo avrebbe preferito mille volte trattare il negozio faccia a faccia col genero, da galantuomini. — No, no, caro suocero. Non è la mia partita. Non me ne intendo. Quello che farete voialtri sarà ben fatto. Quanto a me, il tesoro che vi domando è vostra figlia.

Però le trattative tiravano in lungo. Mastro— don Gesualdo cercava difendere la sua roba, vederci chiaro in quella faccenda, toccar con mano che quanto ci metteva il signor genero nell’altro piatto della bilancia fosse tutto oro colato. Il duca aveva dei gran possessi, è vero, mezza contea; ma dicevasi pure che ci fossero dei gran pasticci, delle liti, delle ipoteche. Del notaro Neri non poteva fidarsi. L’altro sensale, il marchese Limòli, non aveva saputo badare nemmeno ai suoi interessi. Voleva intromettercisi il canonico Lupi, protestando l’amicizia antica. Ma lui rispose: — Vi ringrazio! Grazie tante, canonico! Mi è bastato una volta sola! Non voglio abusare... — Tutti miravano alla sua roba. Ci furono dei tira e molla, delle difficoltà che sorgevano a ogni passo, delle vecchie carte in cui ci si smarriva. Intanto la figliuola, dall’altra parte, aveva sempre quell’altro in testa. Scongiurava il babbo e la mamma che non volessero sacrificarla. Andava a piangere dai parenti, e a supplicare che l’aiutassero: — Non posso! non posso! — Ai piedi del confessore aprì il suo cuore, tutto! il peccato mortale in cui era!... — Quel servo di Dio non capiva nulla. Badava solo a raccomandarle di non cascarci più e le metteva il cuore in pace coll’assoluzione. La poveretta arrivò a scappare in casa dello zio Trao, onde buttarsi nelle sue braccia.

— Zio, tenetemi qui! Salvatemi voi. Non ho altri al mondo! Sono sangue vostro. Non mi mandate via!

Don Ferdinando era malato, coll’asma. Non poteva parlare, non capiva nulla, del resto. Faceva dei gesti vaghi colla mano scarna, e chiamava in aiuto Grazia, come un bambino, sbigottito da ogni viso nuovo che vedesse.

— Sì, tenetemi qui in luogo di Grazia. Vi servirò colle mie mani. Non mi mandate via. Vogliono maritarmi per forza!... in peccato mortale!...

Il vecchio allora ebbe come un ricordo negli occhi appannati, nel viso smorto e rugoso. Tutti i peli grigi della barba ispida parvero trasalire.

— Anche tua madre s’è maritata per forza.... Diego non voleva.... Vattene, ora.... se no viene tuo padre a condurti via di qua!.... Vattene, vattene....

Lo zio marchese, uomo di mondo, che ne sapeva più di tutti sulle chiacchiere raccolte a casaccio, prese a quattr’occhi don Gesualdo:

— Insomma, volete capirla? Vostra figlia dovete maritarla subito. Datela a chi vi piace; ma non c’è tempo da perdere. Avete capito?

— Eh?... Come?... — balbettò il povero padre sbiancandosi in viso.

— Sicuro!... Avete trovato un galantuomo che se la piglia in buona fede... Ma non potete pretendere troppo infine da lui!...

Talchè don Gesualdo, stretto da tutte le parti, tirato pei capelli, si lasciò aprir le vene, e mise il suo nome in lettere di scatola al contratto nuziale: Gesualdo Motta sotto la firma del genero che pigliava due righe: Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantas di Leyra.

Da Palermo giunsero dei regali magnifici, dei gioielli e dei vestiti che asciugarono a poco a poco le lagrime della sposa, uno sfoggio di grandezze che la pigliava come una vertigine, che chiamava un pallido sorriso fin sulle labbra della mamma, e che lo zio marchese andava spampanando da per tutto. Solo don Gesualdo borbottava di nascosto. Si aspettavano gran cose per quello sposalizio. La Capitana mandò un espresso a Catania dal primo sarto. Le Zacco stettero otto giorni in casa a cucire. Però alle nozze non fu invitato nessuno: gli sposi vestiti da viaggio, i genitori, i testimoni, quattro candele e nessun altro, nella meschina chiesetta di Sant’Agata, dove s’era maritata Bianca. Quanti ricordi per la povera madre, la quale pregava inginocchiata dinanzi a quell’altare, coi gomiti sulla seggiola e il viso fra le mani! Fuori aspettava la lettiga che doveva portarsi via gli sposi. Fu una delusione e un malumore generale fra i parenti e in tutto il paese. Dei pettegolezzi e delle critiche che non finivano più intorno a quel matrimonio fatto come di nascosto. Della gente era andata a far visita ai Margarone e in casa Alòsi, per vedere se la sposa era rossa o pallida. La Capitana aveva un bel fare, un bel cercare di non darsi vinta, dicendo che quella era la moda di sposarsi adesso. Donna Agrippina rispose che a quel modo non le pareva nemmeno un sagramento, povera Isabella!... La Cirmena masticava altre cose fra i denti:

— Come sua madre!... Vedrete che sarà fortunata perchè è figlia di sua madre!...

Ciolla che vide passare dalla piazza la lettiga si mise a gridare:

— Gli sposi! Ecco la lettiga degli sposi che partono! - Poi andò a confidare di porta in porta, al Caffè, nella spezieria di Bomma:

— È partita anche una lettera per don Corradino La Gurna.... Sicuro! Una lettera per fuori regno. Me l’ha fatta vedere il postino in segretezza. Non so che dicesse; ma non mi parve scrittura della Cirmena. Avrei pagato qualche cosa per vedere che c’era scritto....

La lettera diceva tante belle cose, per mandare giù la pillola, lei e il cuginetto che si disperava e penava lontano.

“Addio! addio! Se ti ricordi di me, se pensi ancora a me, dovunque sarai, eccoti l’ultima parola di Isabella che amasti tanto! Ho resistito, ho lottato a lungo, ho sofferto... Ho pianto tanto! ho pianto tanto!... Addio! Partirò, andrò lontano.... Nelle feste, in mezzo alle pompe della capitale, dovunque sarò.... nessuno vedrà il pallore sotto la mia corona di duchessa.... Nessuno saprà quel che mi porto nel cuore.... sempre, sempre!... Ricordati! ricordati!...„


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