Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Questo testo fa parte della rivista Rivista italiana di numismatica 1895
Questo testo fa parte della serie Appunti di numismatica romana

APPUNTI


di


NUMISMATICA ROMANA



XXXIV.


MEDAGLIONE D’ORO DI TEODERICO RE.

(Tavola III)



Accade una volta.... quando accade, nella vita d’un raccoglitore, la fortuna di trovare e di poter descrivere un pezzo importante come il Medaglione d’oro di Teoderico, che oggi ho la soddisfazione di presentare al mondo numismatico. Né certo è la qualità di medaglione d’oro, per quanto apprezzabile in se stessa, che gli conferisce così grande importanza, bensì la sua epoca e il personaggio che vi figura.

La splendida serie dei medaglioni d’oro romani, dopo aver raggiunto il suo apogeo verso la metà del quarto secolo, va a poco a poco declinando e si spegne completamente in Italia alla metà del quinto col nome dell’imperatore Valentiniano III, cui appartiene l’ultimo medaglione conosciuto, e dopo il quale non rimane memoria che del famoso medaglione di Giustiniano, già appartenente al Gabinetto di Parigi e fuso dopo l’esecrabile furto del 1831, medaglione che certamente fu coniato a Costantinopoli1.

Ora ecco che alla fine del quinto secolo o all’aprirsi del sesto, ne compare uno nuovo, splendido e inaspettato, che, solitario in mezzo alla generale decadenza, ci offre un superbo saggio dell’arte bizantina, tale che nessuna moneta tra le innumerevoli di quella serie abbondantissima può reggere al confronto, perchè nessuna di esse sorpassa la misura comune e l’arte volgare.

Unico come medaglione italiano, di quest’epoca, ed ultimo, che ne chiude per ora, e, salvo nuove e poco probabili scoperte, definitivamente la serie, esso è anche la sola moneta e il solo monumento, che ci presenti il nome e il ritratto del grande Teoderico, anzi è l’unico esempio d’una moneta d’oro coniata in Italia coll’effigie d’un re goto. E non sarebbe fuori d’ogni probabilità che essa avesse servito d’esempio e di stimolo a Teodeberto Re dei Franchi, il quale circa mezzo secolo più tardi, (dopo il 536), osava scuotere definitivamente il giogo imperiale e, abbandonando la vecchia tradizione, incominciava a coniare la moneta d’oro colla propria effigie.

Per quanto poi la serie delle monete, che prendono il nome di Zecche Italiane, si soglia incominciare assai più tardi, è però da quest’epoca che essa deve riconoscere la sua origine, giacchè fu lo sfasciamento del romano impero, che diede la vita ai nuovi Stati, dalla riunione dei quali doveva poi risorgere l’Italia moderna. Teoderico fu il primo che osò portare il nome di Re d’Italia, e il suo medaglione d’oro, il primo che presenti i titoli di Re (REX) e di Principe (PRINCIS) potrebbe quindi considerarsi come il punto di partenza, come la moneta prima e fondamentale di quella gloriosa serie, che, divisa e suddivisa per secoli in mille ramificazioni, era poi destinata a unificarsi nella maturanza dei tempi col nome del Padre della Patria, e a consacrare l’avvenimento dell’Italia risorta colle monete portanti il nome e l’effigie del Re Vittorio Emanuele.

Di capitale importanza per la storia, per la monetazione e per l’arte, il medaglione merita che ci fermiamo a dare alcuni cenni sulle condizioni contemporanee del mondo romano, e a fare qualche considerazione sulla monetazione dei Goti in Italia, onde poterlo giudicare nell’ambiente in cui venne prodotto.

Faccio precedere la descrizione del medaglione e la breve cronaca del ritrovamento.

D/ REX THEODERICVS PIVS PRINCIS e una piccola palma. Busto loricato e clamidato di fronte, a capo scoperto e capigliatura lunga e ricciuta2. La lorica è a squame di pesce e la clamide è assicurata sull’omero destro con un fermaglio rotondo. La mano destra si vede davanti al petto come in atto di benedire, mentre la sinistra sostiene un globo, su cui sta una Vittoriola con una corona e una palma.
R/ – REX THEODERICVS VICTOR GENTIVM e una piccola palma. — Vittoria con una corona e una palma, che cammina a destra, appoggiando il piede sul globo. All’esergo COMOB.

(Tav. III).


Il diametro è di millimetri 33, il peso di grammi 15,320, corrispondente cioè ad un ternio o al peso di tre solidi bizantini. La piccola eccedenza è dovuta a due appendici d’oro saldate sul rovescio nel campo ai lati della Vittoria, in modo da non sciupar nulla nè della figura nè della leggenda. L’appendice a sinistra, in forma di piccolo anello, mostra d’aver servito all’attacco d’un ardiglione; in quella di destra a guisa di fermo e di custodia, doveva entrare la punta dell’ardiglione stesso, nella riduzione della moneta ad uso di fermaglio fatta ab antiquo.

Il poco che ho potuto sapere circa il ritrovamento dell’insigne medaglione, giacchè per la gelosia o la diffidenza dello scopritore, è sempre difficile conoscere tutti i particolari, che sarebbero estremamente interessanti, si riduce a questo. Fu trovato nel dicembre 1894, in prossimità di Sinigallia, su di un colle, in aperta campagna, casualmente, in occasione che si lavorava il terreno. Sembra che ivi esistesse un sepolcro o anche meglio un sepolcreto, perchè vi si trovarono molte ossa umane, pietre, mattoni ed altri oggetti manufatti, ma consunti dal tempo. Non si trovò alcun recipiente o vaso in cui la moneta fosse contenuta. Nulla di più mi fu dato precisare.


Appunti storici.


Teoderico è certamente la più grande figura storica fra i principi goti, che dominarono l’Italia, e il suo lungo regno getta un ultimo sprazzo di luce in mezzo alla caligine, che andava addensandosi sul romano impero, già in preda alla completa dissoluzione. Barbaro d’origine, ma allevato fino dai suoi primi anni alla corte di Bisanzio, crudele e generoso nel tempo stesso, accoppiando ai vizii della sua razza delle eccellenti qualità di carattere, fu un misto fra il barbaro e il sublime, e alternò l’impeto selvaggio cogli slanci d’entusiasmo per la civiltà romana.

Nato al principio del 455 dall’illustre famiglia degli Amali, era figlio di Teodemiro capo degli Ostrogoti. In seguito alla pace conclusa nel 462 venne condotto ostaggio in Costantinopoli, all’imperatore Leone, il quale, apprezzandone l’alta intelligenza, lo allevò come un proprio figlio nella reggia stessa, istruendolo specialmente nell’arte militare.

A 17 anni solamente ritornò ne’ suoi paesi, e la sua natura ebbe campo di esercitarsi in imprese guerresche, finché nel 474, morto Teodemiro, gli succedette come capo supremo dei Goti.

Nel 475 stringe alleanza coll’imperatore Zenone, il quale, chiamatolo a Costantinopoli, lo colma di onori. Gli conferisce il titolo di Patrizio, lo nomina Praefectus militiac, lo adotta come figlio, lo designa console per l’anno seguente e gli fa innalzare una statua equestre davanti al palazzo imperiale.

Ma ben presto un’ambizione più vasta invade la sua mente, e il sogno di cingere la corona di re d’Italia vince facilmente ogni scrupolo di riconoscenza verso l’imperatore Zenone. Col suo esercito si avanza minaccioso verso Costantinopoli e sotto le mura della città chiede imperiosamente a Zenone l’autorizzazione di scendere in Italia a combattervi Odoacre. L’imperatore, impotente a negarla e, felice nel tempo stesso di liberarsi in tal modo da un ospite così turbolento, acconsente e fa redigere dal Senato un atto pubblico, col quale l’Italia viene assegnata ai Goti e al loro re.

Teoderico raduna allora un’armata di 200 mila combattenti, e, traendosi dietro tutta una popolazione, muove verso l’Italia.

Dalle Alpi Giulie scende nel 489 all’Isonzo, ove Odoacre stava pronto ad attenderlo. Il 28 agosto passa vittoriosamente il fiume e un mese dopo, il 29 settembre, sconfigge Odoacre nella famosa battaglia di Verona.

Nell’anno seguente (11 agosto 490) lo vince una terza volta all’Adda, rendendosi padrone di tutta l’Italia settentrionale, e continua l’inseguimento fino a Ravenna. Dopo un assedio di tre anni, viene a patti con Odoacre, e i due rivali convengono (27 febbr. 493) di governare insieme l’Italia. Ma tale accordo non poteva durare a lungo, e difatti pochi giorni dopo (5 marzo dello stesso anno 493), Teoderico assale proditoriamente e uccide di propria mano Odoacre, che aveva convitato a banchetto nei giardini del palazzo.

Senza più altro aspettare la sanzione imperiale, si fa proclamare Re dei Goti e dei Romani, e la sua autorità è ben presto riconosciuta in tutta Italia.

Inaugurando il più gran regno barbaro sorto sulle rovine del romano impero, Teoderico pone come principio nel regime interno, la divisione ira i Romani e i Goti, ciò che forse fu il suo più grande errore. — Accorda ai Goti due terzi delle terre, riservando l’altro terzo ai Romani, e affidando ai suoi Goti le armi, lascia ai Romani tutti gli altri privilegi di cui avevano fino allora goduto, le scienze, le lettere e le arti.

Si occupò a migliorare la pubblica amministrazione, promosse il bene pubblico in tutti i modi, e, quantunque ariano, fu tollerantissimo colla Chiesa ortodossa.

Nel 498 finalmente ottenne dall’imperatore Anastasio le insegne reali, e come re d’Italia andò nel 500 a Roma, ove il suo arrivo fu celebrato con grandi giuochi pubblici e con liberalità al popolo. Vi rimase un anno e, quale Re d’Italia, presiedette il Senato, designò uno dei Consoli, mentre l’altro veniva designato dall’imperatore d’Oriente, e s’occupò delle riparazioni alle fortificazioni ed ai monumenti di Roma, che si trovavano in istato di grande abbandono. Nel 501 tornò a Ravenna.

Dopo 10 anni di guerre sostenute contro i barbari in diverse regioni, seguirono 12 anni di pace che segnarono l’apogeo del suo regno.

Teoderico, sciolto da ogni dipendenza dall’Imperatore d’Oriente, senza punto rinnegare la propria origine e la propria natura, si mostrò romano in faccia ai barbari. Approfittando della superiorità, che gli veniva dall’ingegno e dalla fortuna, si atteggiò quale successore dei Cesari, trattando non da pari, ma da superiore con tutti i principi, facendosi spesso arbitro fra loro, accordando favori, imponendo la sua volontà.

Profondo conoscitore degli uomini, aveva saputo circondarsi dei migliori, e la sua amministrazione civile condotta da Boezio, Cassiodoro e Simmaco aveva portato e mantenuto dappertutto la tranquillità e la giustizia. 11 commercio era in fiore per terra e per mare, e molti grandiosi edifizii pubblici sorsero nelle città del regno, segnatamente a Verona, la sua città favorita e a Ravenna, che divenne la prima città del regno, e che di quell’epoca fiorente mostra ancora qualche glorioso avanzo.

Anche le arti e le scienze ebbero, in lui barbaro, un potente mecenate e segnarono un ultimo momento di risveglio, per quanto era possibile in un periodo di già inoltrata decadenza.

Finalmente aggiunse gloria al suo regno la pacificazione da lui favorita e aiutata fra la Chiesa Greca e la Romana, avvenuta quando Giustino I assumeva la porpora imperiale. Ma tale prosperità non doveva essere che effimera, e gli ultimi anni del suo regno offuscarono la gloria dei primi.

La tolleranza religiosa di Teoderico non valse contro l’intolleranza degli avversarli. Una recrudescenza nel fervore della fede ortodossa riaccese in quegli anni le persecuzioni più o meno aperte contro gli eretici; e i popoli dell’Occidente incominciarono a diffidare dell’ariano Teoderico e a volgere i loro sguardi verso l’imperatore d’Oriente.

Al principio del 525 Teoderico mandò a Costantinopoli una ambasciata con a capo il Pontefice stesso Giovanni I, per chiedere la revoca degli editti contro gli Ariani; ma nulla potè ottenere. Irritato dal sospetto che papa e imperatore s’accordassero a suo danno ed esasperato dalle persecuzioni, cui si vedeva fatto segno da ogni parte, senti ridestarsi tutti i suoi barbari istinti; ed in un momento di selvaggio acciecamento, ordinò la morte di Simmaco e di Boezio, proibì a tutti i romani il porto di qualunque arma; e, appena tornato dall’Oriente il papa, (maggio 526), lo fece gettare in un carcere, ove ben presto dovette soccombere.

Tre mesi più tardi anche Teoderico, colto di febbre maligna, soccombeva, e spegnevasi con lui ogni speranza di una risurrezione dell’Italia.

Fu sepolto a Ravenna in un superbo mausoleo che egli stesso s’era preparato, e che ora è diventato la chiesa di Santa Maria della Rotonda.

Di questo principe fantastico, del terribile Dietrich von Bern (Verona), del cui nome si impadronì la leggenda e che è ancora vivo in quelle dei Niebenlungen, del Rosengarten e della Rabenschlacht, terminerò questi cenni colle parole di Procopio:

" Si potrà chiamarlo usurpatore e tiranno; in realtà fu un re, e non fu inferiore a nessuno di quelli, che si resero distinti su di un trono. „


Le Monete dei Goti in Italia.


Non sono molti gli scrittori, che si occuparono specialmente della monetazione dei Goti in Italia, e credo citarli tutti coi nomi di Lelewel, Friedländer, Lenormant, Senkler, Marchand, Biondelli.

Quanto è generalmente noto e ammesso, specie riguardo alla moneta d’oro, come quella che interessa il nostro caso, è presto detto, solo riassumendo l’eccellente risposta del nostro Biondelli3 alla lettera di Charles Robert Sur les imitations ostrogothes des sous et des tiers de sous d’or romains.

I re goti in Italia non coniarono moneta d’oro propria, ma non fecero che copiare servilmente l’oro imperiale bizantino. Ciò è provato ad evidenza sia dalla testimonianza di Procopio, il quale dice nel suo libro De Bello Gothico (lib. Ili, cap. 33): " Sarebbe impossibile ad alcun re barbaro, di porre la propria effigie sui soldi d’oro, quand’anche possedesse una massa d’oro, perchè non potrebbe farli accettare nel commercio, neppure fra i barbari „, come pure dal fatto, che in Italia si trovano in grandissima quantità soldi d’oro e tremissi d’Anastasio, di Giustino I e di Giustiniano, i quali nei 60 anni, che durò la dominazione dei Goti, non regnarono che in Oriente, mentre non si conosce alcun’altra moneta d’oro propria dei Goti.

La somiglianza delle monete auree coniate dai Goti con quelle coniate direttamente dagli imperatori di Costantinopoli è tale, che riesce immensamente difficile, per non dire impossibile, il distinguere le une dalle altre. Tanto queste come quelle portano l’effigie e il nome in tutte lettere dell’imperatore, e servilmente sono pure copiati i rovesci.

II solo indizio, che abbia qualche importanza perchè si possa attribuire ai Goti una parte degli aurei col nome e l’effigie dei detti imperatori sono le lettere RM, RV, MD, ecc. nel campo, le quali si interpretano per Roma, Ravenna, Mediolanum, ecc., e che quindi non potevano essere coniate in Oriente. Certo che per attribuire tale significato alle lettere nel campo delle monete d’oro, bisogna ammettere ciò che, se è estremamente probabile, non è però ancora strettamente provato, che da una cert’epoca e precisamente dal tempo di Valentiniano I (e non solamente da quello del tiranno Eugenio, come dice il Senkler), si fosse introdotto l’uso di collocare nel campo l’indicazione della zecca, la quale fino allora aveva sempre avuto la sua sede naturale all’esergo. Il perdurare dell’antica sigla della zecca di Costantinopoli CONOB all’esergo, si spiega col!’ essere essa divenuta dopo tanto tempo quasi il marchio dell’oro, ed era quindi riprodotta su tutte indistintamente le monete d’oro, qualunque fosse la zecca in cui erano state coniate. E qui conviene accennare come il CONOB, che appare per la prima volta sotto Valentiniano I, si trasforma in C0MOB ogni volta che si trovano nel campo lettere iniziali di zecca4.

Ammessa però l’ipotesi, come si disse estremamente probabile, che le lettere nel campo stiano veramente a indicare la zecca, sorge naturale una osservazione: Se queste lettere furono assai usitate da Valentiniano fino ad Anastasio, durante il quale periodo, attenendoci al principio esposto, riesce facile una divisione netta fra le monete coniate in Oriente e precisamente a Costantinopoli (colla sigla CONOB e nulla o una semplice stella nel campo) e quelle coniate in Occidente (colla sigla COMOB e le lettere nel campo); perchè durante la dominazione dei Goti scompaiono quasi completamente, e non figurano che molto eccezionalmente su pochi soldi e pochi tremissi, in proporzioni infinitamente minori al numero delle monete che si trovano in Italia e a quelle che presumibilmente furono dai Goti coniate?

Rimane il famoso aureo d’Anastasio col preteso monogramma di Teoderico alla fine della leggenda del rovescio5 e dico preteso, perchè, oltre che incompleto, esso è anche affatto differente nella disposizione delle lettere dai monogrammi che vediamo sulle monete d’argento dello stesso Re, i quali almeno offrono tutte le lettere componenti il nome di THEODERICVS.

Ma, ammesso pure il monogramma, l’obbiezione fatta alla indicazione delle zecche colle iniziali nel campo, si può qui rinnovare.

Se veramente Teoderico avesse inteso di imprimere il proprio monogramma sulle monete d’oro, perchè ve lo pose su un così piccolo numero, che gli scarsi esemplari che ci rimangono, formano una vera rarità, in mezzo al numero ingombrante dei comuni soldi d’oro d’Anastasio, di Giustino I e di Giustiniano, che si sono trovati e che si vanno continuamente trovando nelle diverse regioni d’Italia?

Ma, ad ogni modo, lasciando come punto assai discutibile se i re goti abbiano impresso o no un segno pili o meno percettibile sulle monete d’oro da essi coniate a somiglianza delle romane, e lasciando nel dubbio se si arriverà mai a distinguere nettamente gli aurei goti dai bizantini, rimane sempre il fatto che sulle monete d’oro nessuno dei re goti osò mettere il proprio nome e tanto meno poi la propria effigie6.

Dopo di che riesce strano e sorprendente il caso di un medaglione d’oro coll’effigie del grande Teoderico e col nome scritto completo sia al dritto che al rovescio, e bisogna attribuire a tal pezzo un’origine e una occasione veramente eccezionale, come eccezionale fu il personaggio ed eccezionale il periodo storico del suo regno.


Il Medaglione.

la data — l’arte — la leggenda.


Il carattere di Teoderico, quale si rivela da tutte le sue gesta, e l’ambiente nel quale si svolse, unitamente alle circostanze della monetazione dei Goti in Italia, danno, mi pare abbastanza chiaramente, la ragione e la spiegazione del Medaglione. Mentre le necessità sociali e le inveterate abitudini costrinsero lui barbaro e intruso nel romano impero, a battere la moneta corrente col nome e coll’effigie dell’imperatore regnante in Costantinopoli, l’orgoglio di atteggiarsi a Cesare romano, lo spinse a coniare almeno una moneta di lusso col proprio nome e colla propria effigie, a somiglianza di quelle che avevano coniato gli imperatori romani.

Volendo così continuare il fasto dei medaglioni d’oro, ed anzi rievocarne l’uso da mezzo secolo abbandonato, era troppo naturale che ne affidasse l’incarico al più abile fra gli artisti contemporanei, sfoggiandovi tutta l’arte, di cui l’epoca poteva essere capace. E difatti sotto il rapporto artistico, il medaglione si può considerare il capolavoro dell’arte bizantina, in fatto d’incisione. Se la Vittoria del rovescio, malgrado la grazia delle pieghe e dei particolari, offre qualche troppo sensibile sproporzione di forme, come il soverchio volume della testa, il dritto è certamente un’opera insigne e degna di tempi migliori. Coll’effigie di fronte così splendidamente modellata, con quella capigliatura altrettanto originale di disegno come fine di esecuzione, che ricorda così da vicino quelle che ammiriamo nelle pitture e nelle sculture italiane del secolo decimoquinto, allorché il risorgimento ritornò in vita, migliorandola e perfezionandola, l’arte bizantina; infine cogli accessorii tanto nettamente e accuratamente disegnati, il medaglione, mentre si stacca addirittura dall’arte supina e stereotipa delle monete comuni contemporanee, costituisce un cjualche cosa a sè, elevandosi a un’altezza, che non si crederebbe possibile in epoca di tanta decadenza.

Che il medaglione sia stato coniato in Italia non pare possa mettersi in dubbio; in primo luogo perche tutto porta a credere che Teodcrico l’abbia latto eseguire in una delle zecche del suo regno anzichè a Costantinopoli, principalmente nell’epoca in cui, come ora vedremo, pare debba esser stato coniato, nella quale erano piuttosto tesi i rapporti tra il re d’Italia e l’imperatore d’Oriente. E poi anche per la sigla COMOB che indica, come s’è visto, una zecca occidentale e quindi nel nostro caso italiana.

Se poi sia stata Roma o Ravenna, che ebbero l’onore di coniarlo, non abbiamo dati sufficienti a poterlo determinare, mancando ogni indicazione di zecca.

Quanto alla data della coniazione, se ci è impossibile precisarla, è però facile determinarla con molta approssimazione.

Il rovescio porta la rappresentazione generica di una Vittoria, la quale, non richiama un avvenimento speciale e non può quindi fornire alcuna indicazione: mentre un indizio molto significante lo troviamo nel titolo di REX ripetuto sui due lati del medaglione.

Quantunque, subito dopo l’eccidio degli Eruli nel 493, Teoderico si fosse dichiarato re dei Goti e dei Romani, non fu che nel 498 che da Anastasio ottenne regolarmente l’investitura e le insegne di re d’Italia. Parrebbe logico supporre che il titolo di REX si riferisca appunto al titolo di Re d’Italia regolarmente ottenuto; e, siccome nel 500 ha luogo il suo viaggio a Roma, dove volle ostentare la vita del Cesare Romano, pare ovvio ritenere che in questa occasione avesse pure fatto coniare il medaglione, per darlo in dono ai grandi della corte e del senato e probabilmente anche ai principi barbari, cui sappiamo usava mandare i prodotti artistici dell’Italia. Teoderico doveva avere allora 45 anni, e ditatti l’effigie sua sul medaglione ce lo presenta in tutta la vigoria dell’età. Un’ultima osservazione infine mi rimane a fare sulle leggende, le quali ci offrono replicatamente la grafia THEODERICVS. Questa è veramente quella che troviamo nelle più antiche iscrizioni7 ed è quella che le più competenti autorità ritengono la più corretta8, il che non tolse che in seguito venisse più comunemente e dirò anzi universalmente adottata la grafia THEODORICVS. Parmi che ora debbasi senz’altro tornare all’antico e adottare definitivamente la prima, ossia il THEODERICVS, non solo come la più corretta, ma come la sola vera e giusta, oggi comprovata in modo irrefutabile dall’unico monumento ufficiale contemporaneo che possediamo.

E qui chiudo le mie poche impressioni ed osservazioni. Altre ne trarrà certamente chi è di me più erudito nella storia e nell’arte italo-bizantina da questo medaglione, la cui apparizione può essere considerata come un avvenimento nella numismatica romana.

Francesco Gnecchi.            



  1. Eccone la descrizione che ne dà il Mionnet:

    Dr. — D . N . IVSTINIANVS PP AVG. Busto di fronte coll’elmo e il nimbo, armato di lancia e scudo.
    Rov. — SALVS ET GLORIA ROMANORVM. L’imperatore a cavallo, a destra, coll’elmo e il nimbo, in armatura, preceduto dalla Vittoria che porta un trofeo. Nel campo una stella. All’esergo CONOB.

  2. A primo aspetto io avevo giudicato che il busto di Teoderico fosse rappresentato in semplice capigliatura; ma poi qualche amico, che lo vide, mi fece l’osservazione che invece lo si era inteso rappresentare in parrucca. Da allora entrai in un periodo di dubbio; pensai di interpellare le migliori autorità in fatto d’arte bizantina, per sapere se a quei tempi fosse ammissibile una parrucca, e diramai in varie parti d’Europa le impronte del medaglione. Ma come spesso o sempre avviene, tot capita, tot sententiae, e mi giunsero le affermazioni più disparate. Chi mi assicurava essere giustissima la mia interpretazione, e altro non essere possibile che la semplice capigliatura; chi invece sosteneva assolutamente esser quella una vera parrucca, e mi citava l’esempio delle parrucche assire, persiane, babilonesi, egiziane, di epoca ben anteriore a quella di Teoderico. Io mi trovai allora nell’imbarazzo di quell’ammalato che, dopo aver consultato tutte le più grandi celebrità mediche, in mezzo ai giudizii più contradditorii, deve finire per erigersi a giudice lui stesso. E, giudicando perciò secondo che a me parve fin da principio e pare ancora, mi attengo alla primitiva interpretazione; il che del resto non toglie la più ampia libertà — e senza il pregiudizio, che potrebbe portare un’opinione medica — a chi volesse essere di diverso parere.
  3. Sulle monete auree dei Goti in Italia. Osservazioni di Bernardino Biondelli, Milano 1861.
  4. Si è molto discusso sul significato della sigla CONOB senza che si sia ancora giunti ad una spiegazione definitiva. Lasciando da parte le interpretazioni fantastiche, che abbondarono qui come in altri problemi numismatici specialmente nel secolo scorso, non citerò che le due più serie e più probabili. La prima, messa innanzi da Pinder e da Friedländer e caldamente appoggiata dal Lenormant, è che la sigla CONOB debba scomporsi in CON e OB, e prendendo queste due ultime lettere come cifre numeriche, debba leggersi: Constantinopolitanae (librae) septuagesima secunda (pars), intendendosi che tal numero indicasse quello dei soldi costituenti la libbra, ossia la 72* parte, secondo la legge di Valentiniano I. All’obbiezione poi che tale ipotesi, se può reggere pei soldi, cadrebbe, considerando che la sigla CONOB è ripetuta sui tremissi, i quali non erano che la 216" parte della libbra, il Missong risponde che tale sigla si trova tanto nelle frazioni come nei multipli del solido, riferendosi sempre all’unità dell’oro che e appunto il solido. — La seconda ipotesi, pure dividendo la sigla in due sillabe distinte CON e OB, le interpreta per CONstantinopoli OBsignata (riferendosi alla moneta) oppure CONstantinopoli OBruzium o OBrysion (oro di Costantinopoli), e anche con questo sarebbe spiegato il perdurare di questa sigla per ben quattro secoli, e il trovarsi sulla massima parte delle monete d’oro, qualunque sia il loro modulo. E qui non è il caso di entrare in discussione sulla maggior probabilità dì una piuttosto che dell’altra ipotesi. Perchè poi in Occidente (ossia nelle monete, che portano le indicazioni dì zecche Occidentali nel campo) il CONOB primitivo si sia trasformato in COMOB rimane tuttora inesplicato; ma è un fatto costante, a cui non si possono opporre che rarissime eccezioni.
  5. Non occorre parlare dell’altro aureo colla lettera Θ alla fine della leggenda del rovescio, in cui il Lenormant volle vedere l’iniziale greca del nome di Teoderico, troppo essendo evidente che non si tratta d’altro che di una cifra numerale, come tutte le altre cifre greche comunissime sui solidi di quest’epoca.
  6. Sull’argento i Goti conservarono l’uso di imprimer la testa imperiale e la relativa leggenda nei dritto, accontentandosi di mettere il monogramma del loro nome al rovescio (e questi sono i monogrammi veramente decifrabili). Fu solo sul bronzo che alcuni osarono porre il loro nome (Odoacrc, Atalarico, Teodato, Vitige, Teja) e talora anche il loro ritratto (Teodato, Baducla). E non vale la pena, se non a titolo di cronaca bibliografica, d’accennare a un bronzo colla testa di Teoderico descritto nel catalogo della collezione della Contessa de Bentink (Amsterdam, 1787, suppl. pag. 53). Quantunque questo bronzo sia riportato da Mionnet (De la rareté et du prix des medailles romaines. 2 Ediz., tomo II, pag. 410) come appartenente alla coll. Pembrock, e da Engel e Serrure [Traité de Numismatique du moyen age, tomo I, p. 26), basta osservare il disegno dato nel citato catalogo Bentink, per rimanere persuasi non trattarsi d’altro che di una volgare falsificazione, come del resto è il caso per molti altri pezzi di quella infelice collezione.
  7. Una certamente delle più antiche iscrizioni è quella portata da Gius. Scaligero (V. Eug. Bormann, Corpus inscriptionum latinarum. Vol. XI, Parte prima, pag. 8, n. 10 Ravenna ed è del seguente tenore:

    REX THEODERICVS FAVENTE DO ... .
    ET BELLO GLORIOSVS ET OTIO
    FABRICIS SVIS AMOENA CONIVNGENS
    STERILI PALVDE SICCATA HOS HORIOS
    SVAVI POMORVM FECVNDITATE DITAVIT.

    E numerose sono pure le iscrizioni trovate sui laterizi! di quest’epoca, fra le quali citerò dal medesimo Corpus inscriptionum latinarum (Henr. Dressel, Vol. XV pars prior) pag. 414, 415, 416, Lateres.

    1664

    reg d n theode
    rico bono rome
    de officina ivsti

    1665

    reg d n theode
    rico bono rome

    1666

    reg d n theoderico
    bono romae p ind ...

    1667

    regn d n theode
    rico felix roma
    ex officina ivsti

    1663

    reg d n theode
    rico felix roma

    1669

    regnante d n the
    oderico felix roma

  8. Nello stesso Vol. XV Pars prior del Corpus è citata al N. 1663 anche l’iscrizione

    d n kkge
    theod rico

    accompagnata dal seguente commento:

            V. 2. Traditur Theodorico; legendum tamen esse theoderico post Fabrettium (pag. 521 ad n. 837I iterum monet Marinius in Comnient. ad N. 149 " che così sta sempre in tutti i monumenti sinceri e trascritti esattamente „ quod tegulae confirmant.


RIVISTA ITALIANA DI NUMISMATICA

Anno VIII. Tav. III



FRANCESCO GNECCHI – Medaglione di Teoderico Re.

Note

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