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VII.
Nulla di più pittoresco di quel sagrato. A un’altezza considerevole dalla campagna circostante, leggermente inclinato verso il villaggio, quasi per invitarne gli abitanti a salire, era coperto per metà da un’erba fitta ed uguale; l’altra metà era formata da una lunga scalinata a gradini bassi e lunghi di marmo bianco, levigatissimo. Un muricciuolo girava tutto all’intorno; in esso erano praticati de’ sedili, e vi pioveva ombrie profonde una fila di castagni piantati all’infuori, a distanza ineguali.
Salii verso la chiesa, da cui uscivano, miste al brontolìo della folla accalcata che giungeva fin quasi alla metà della scalinata, le cantilene sacerdotali. Al mio giungere, tutti quei visi abbronzati, tutte quelle nuche piatte e arruffate, fecero una evoluzione per la quale mi vidi addosso cent’occhi che mi guardavano meravigliati come all’aspetto di una bestia feroce.
Mi inoltrai con molta disinvoltura, urtando a destra e a manca, finchè, giunto sotto il pronao, m’avvidi che il proseguire era impresa impossibile. Mi alzai sulla punta dei piedi per vedere l’altare; memore ancora delle messe udite in compagnia di mia madre, m’accorsi di essere giunto in tempo, la messa era ancora buona; il libro non era ancora voltato. Il curato che ravvisai alla sua corona di capelli bianchi, era circondato da due preti, meno vecchi assai di lui, a giudicarne dalle cuticagne, una fulva, l’altra nera ma che avevano un punto di strana rassomiglianza nelle chieriche, di ampiezza fenomenale; le avresti dette due ostie appiccicate alle chiome. La turba era ginocchioni; gli uomini a destra, le donne a sinistra; il solo Baccio era in piedi, aggirandosi a capo chino per veder dove mettere il passo, in su ed in giù, scavalcando i fanciulli appiccicati alle gonne e alle giubbe, scotendo sommessamente la borsa dell’elemosina in cima ad una lunghissima canna che si piegava mollemente ad ogni scrollo.
Egli faceva il suo mestiere di scaccino con uno zelo ammirabile; la borsa compiva dei giri miracolosi; una grossa mano non aveva finito di alzarsi da una parte e deporvi l’obolo, che ne vedevi un’altra affrettarsi a far lo stesso dal lato opposto della chiesa. A volte, invece di scendere fra le teste, la borsa vi cadeva su: allora, chi si sentiva chiamato alla carità con così eloquente linguaggio, la faceva con gesto men devoto, e la moneta, cadendo, dava un suono più forte. Avvicinatosi alla porta, il campanaro s’accorse della mia presenza, e, allargandosi a furia di gomiti la via, in un istante mi fu vicino.
— Venga con me, mi disse, le ho preparato un posto in cantoria, proprio accanto all’organista.
E, tirata fuori una chiave e aperta una porticina quasi invisibile, mi precedette al buio su di una scala di legno che scricchiolava.
Nelle chiese di campagna il privilegio di assistere alle cerimonie dalla cantoria stabilisce in chi lo gode una superiorità fra le più invidiate. È una specie di titolo gentilizio; è il diritto d’immagini dei romani. Non sogni d’ambirlo chi lavora la terra, o chi pascola il gregge, nelle arti lo ottengono, a volte, il fabbro ed il falegname perchè membri quasi indispensabili della fabbriceria cui somministrano gratis pali e chiodi per l’apparato delle processioni; nel commercio, l’alto soltanto: lo speziale ed il droghiere, che formano una sola persona le nove volte su dieci.
Questa gente alla festa, fende con disinvolta alterezza la folla e sale lassù come a una regia, i villani danno il passo, e poi guardano i fortunati dal basso sgangherando la bocca al canto con compunta umiltà.
Al mio arrivo l’organista intonava allegramente il gloria in excelsis menando le gambe e le braccia, e tenendo fissa la faccia allo specchietto inclinato in cui si rifletteva l’altare.
Era un vecchierello sottile, con un collo enorme. Non immaginatevi che io sia per descrivervi ciò che supposi esistesse disotto a quella cravatta nera: il mio realismo non giunge sin là. Solo vi dirò che quella cravatta, sciolta da quel collo, non avrebbe misurato meno della lunghezza della cantoria.
Dalla formidabile fasciatura che somigliava un imbuto incatramato sbucavano quasi paurosi un mento aguzzo ed un naso aquilino, tenuti insieme da una pelle color di dattero maturo. La piccola testa sparuta dondolava seguendo il ritmo musicale, coll’aria ingenuamente burlona dei chinesi di porcellana.
Accanto all’organista sedevano due sole notabilità: una figura lunga lunga, di faccia scura con un grosso libro di divozione a caratteri cubitali appoggiato sulle ginocchia. La faccia dell’altro non aveva nulla che si prestasse all’analisi. Una certa pretesa borghese appariva nell’abito festivo del farmacista (giacchè non ho nessuna ragione per indugiare a dirvi che il piccolo uomo rossiccio era il farmacista); mentre l’altro vestiva un giubbone di stoffa grossolana pulita, è vero, ma uguale nel resto a quelle degli umili montanari.
Poichè m’ebbero per bene investigato, susurrandosi non so che cosa all’orecchio, si posero a parlare a voce men bassa. Mi pare che riprendessero una conversazione troncata al mio arrivo.
— Vi dico che a me non la fanno, e che non occorre aver studiato il latino per provar che due e due fanno quattro.
— Scusi, signor sindaco, rispondeva il farmacista, non ho mica detto il contrario; benchè, quanto al latino, mi possa permettere di osservare che è una gran bella cosa l’averlo studiato. Ma...
— Non ci son ma, signor Bazzetta carissimo; quel che è del comune è del comune, e quel che è della chiesa è della chiesa, — Mi permetta un esempio. Si ricorda del paretaio di Bernardino, alle quattro croci? Ebbene, per qual ragione ne è il proprietario? Perchè da oltre quarant’anni il proprietario vero, essendo lontano, lo aveva lasciato senza volerlo e senza saperlo nel godimento di quella terra; quando volle rivendicarla, si trovò che ne aveva perduto il diritto.
— Uh, disse il sindaco, se Bernardino avesse avuto a fare con me,— vorrei vederli adesso chi li mangerebbe i tordi del suo paretaio.
— Eppure, signor sindaco, è la legge che parla, e contro la legge...
— Una delle due: o Don Luigi cede alle buone o sacram...
Il campanello dell’elevazione gli tappò la parola in bocca.
I due interlocutori s’inginocchiarono e si diedero a battersi il petto. Il sindaco con colpi sonori, il farmacista accennandoli appena.
La musica che a questo punto della messa è fissato debba essere malinconica era diventata, sotto le dita dell’organista che vi ho descritto un trillo di due note che continuarono senza mutare, finchè il curato ebbe spalancate le braccia.
Allora, dato un rapido mutamento agli indici, il patetico suonatore s’incurvò sulla tastiera, alzò i ginocchi, alzò le braccia e trombe e tromboni rimbombarono come uno scoppio di tuono.
Il sindaco che già si era rimesso a sedere, diè un balzo, e:
— Maledettissimo, disse, quando volete fare di queste cannonate, almeno avvisatemi prima.
L’organista volse il capo, e, certo che alcuno gli aveva parlato, e non avendo inteso a che soggetto rispose con un sorriso pieno di ringraziamenti.
La conversazione riprese con questa domanda del sindaco:
— Oggi, m’imagino, sarete invitato a pranzo.
— Per l’appunto, signor sindaco, è d’abitudine tutte le solennità.
— Senza contar gli altri giorni, soggiunse il primo con accento iroso. E seguitò:
— Ebbene ci sarò anch’io, non a pranzo, perchè sto bene a casa mia, e poi.... perchè io non sono invitato; bisogna sapere il latino per essere invitati. Ma fa lo stesso, ci sarò anch’io, vi dico, e mi sentirete a parlare.
— Via, via, ve la prendete in un modo! che vi importa mai di quei quattro palmi di prato?
— Faccio l’interesse del Comune, io. Sono o non sono il sindaco? È mio dovere. Non ho mica paura dei preti! Eh, eh, mio padre, come mi vedete, ai tempi di Napoleone, in Ispagna ne ha strozzato mezza dozzina.
— Per amor del cielo, signor sindaco..... la prudenza è la prima qualità che....
— Mi sentirete a parlare. Sono contento che siate testimonio anche voi. Domani siete in libertà? Venite a pranzo da me; alla buona, ma... almeno senza, latino.
— Non mancherò, signor sindaco.
— Sono figlio di un militare, e sacr... fortezza ci vuole...
— Per l’appunto. Fortiter et....
Troncò la citazione come l’altro aveva troncato a metà la bestemmia, ripiegò dicendo: Fortezza, fortezza: è la prima qualità ch’io stimo negli uomini.
La messa era arrivata al Domine non sum dignus. L’organista infrenava i suoi tromboni e lasciava smorire la sua vena musicale in un belato di voce umana.
Le ultime parole dello speziale risuonarono nei silenzioso raccoglimento della Comunione e fecero rivoltare tutto l’uditorio.
— Silenzio, diss’egli stizzito al sindaco, mi fate parere ridicolo.
— To’ è lui!.... borbottò l’altro, — poi ripigliando senz’altro il filo del suo ragionamento che malgrado l’interruzione aveva continuato a dipanarsi nel suo capo bernoccoluto:
— Eppoi sentite; la prescrizione non corre perchè il titolo è precario e to’, mi hanno detto, sono sicuro che, per essere latino, dovrà persuadervi: non currit præscriptio contra....
— Non currit præscriptio contra non valentem agere, suggerì dolcemente l’organista che, ai suoi bei tempi, aveva fatto lo scrivano di notaio.
Il Sindaco si volse brusco brusco e con uno sguardo bieco stereotipò sul viso tondo dell’omacciolo il suo ebete sorriso.
— A momenti, brontolò, gli faccio perder io il latino col vizio di orecchiare.
L’altro che s’era drizzato in fretta sul suo scannetto lasciò per darsi contegno ruzzolare la mano sui tasti acuti facendone sprigionare una gamma ascendente di squittii di quaglie innamorate.
— Ve l’ho detto io d’usar prudenza? ammonì il signor Bazzetta.
Suonava dall’altare l’ultimo Dominus vobiscum, E dalla porta socchiusa dai più impazienti penetrava nella chiesa con un raggio di sole, un respiro di ilarità, di vivace, di festoso risveglio.
— Ite missa est.
Le bianche pezzuole si rizzavano e qualche testolina si volgeva e qualche occhietto saettava sguardi curiosi in mezzo alla folla degli uomini assiepati sul limitare.
Poi tutti uscivano con grande scalpiccio.
E uscii anch’io e mi posi all’ombra delle querele per fare la mia presentazione, per dirla in istile di pergamena «agli uomini, — ed anche alle donne, — dell’oppido di Sulzena».
Pare che la cosa seguisse con scambievole soddisfazione. Io fui contento di alcune donnine che vidi, — esse di essere vedute: e gli uomini nella loro ingenuità montanina guardavano amorosamente con aria di benevola simpatia il corno portentoso che tenevo in mano e che ostentavo con una certa vanità.