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X.
Mi decidevo a seguire la miserevole coppia, pronto a mettermi in mezzo se le percosse dell’aguzzino si fossero ripetute, quando un improvviso trambusto nel presbiterio mi fece tornare sui miei passi. Era come se molte persone andassero e venissero parlando tutti in una volta a voce concitata e sommessa.
Giunsi col cuor stretto alla porta della cucina, e vidi il farmacista che, curvo sui fornelli, soffiava nel fuoco, disfacendo nel tempo stesso un cartoccio.
— Che cosa succede? gli chiesi.
— È venuto male a Don Luigi, rispose tra un soffio e l’altro.
— Seriamente?
— Peuh! Così, così..., i suoi soliti disturbi, ma con forza maggiore.
E, svolto del tutto il cartoccio, versò una polvere bianca in un colino.
Io volai nel salotto.
C’erano tutti i commensali meno don Sebastiano, il vice-curato, il quale notai allora con sorpresa, era sfumato via quetamente, come fosse un ombra impassibile alle cose di questo mondo. Tutti facevano capannello in un angolo, daccanto alla finestra per cui io avea spiato un momento prima; ma al mio giungere don Gaudenzio se ne staccò, ed io potei inoltrarmi fino al seggiolone ove avean posto a sedere il povero curato.
Egli era estremamente pallido e respirava affannosamente, comprimendosi il cuore colla mano destra, stringendo colla sinistra, tutta convulsa, quella dell’organista che gli teneva un fazzoletto inzuppato sulla fronte, e cacciava fuori dalla cravatta il mento aguzzo ad una distanza alla quale, fino a quel giorno, non era probabilmente mai giunto. Baccio, col viso stravolto parlava a bassa voce con Don Prosdocimo, i cui lineamenti severi si erano rabboniti di molto, la Mansueta guardava in cielo e non pareva accorgersi delle lagrime grosse e rare che le gocciavano sulle guancie.
Il curato mi sorrise, e parve, al movimento delle labbra, che volesse parlarmi, ma non potè; allora abbassò gli occhi e non li rialzò che alla voce di Bazzetta il quale con una chicchera fumante in mano, gli diceva:
— Ecco la camomilla; sa che le ha sempre fatto bene, vedrà che le farà bene ancora. Giù, giù, mentre è calda; si faccia coraggio.
— Quel benedett’uomo, diceva Don Anastasio colla sua voce burbera e piena di convinzione. non ha altri momenti da scegliere per venire a disturbare il signor curato? — E lui, così buono, da guastarsi la digestione per dargli udienza... a quel...
Uno sguardo di Don Luigi, che aveva finito di ingoiare la pozione, gli troncò le parole in bocca.
— Come si sente? Va meglio?... un cuscino per appoggiare la testa... Il curato crollò il capo, ed accennò al cuore.
— Questo è troppo piccolo, disse Bazzetta a Baccio che portava un cuscino; — uno di quelli del divano, là in gabinetto.
Trovandomi il più vicino all’uscio, ne andai in cerca io. Con mia grande sorpresa trovai disteso sul divano il panciuto don Gaudenzio, il quale, come se nulla fosse accaduto, appisolava beatamente col capo appoggiato appunto sui cuscini di cui venivo in traccia, Lo scossi a più riprese, ma inutilmente. Socchiudeva gli occhi ad ogni mio urto, sussurrava poche parole inintelligibili, e tornava a russare. Perduta pazienza, afferrai uno dei cuscini, e, tenendo fermo contro il muro quella montagna di carne rorida di sudore, lo tirai a me violentemente. Il capo del prete ricadde sul cuscino sottoposto e continuò via, sorridendo bestialmente, nel sonno, senza accorgersi di essere disceso di un piano.
Cadeva il sole, quando una febbre violenta assalse Don Luigi, dopo un sopore affannoso che era durato tutta la giornata, interrotto da lunghi tremiti e da sospiri repressi. Il Bazzetta, tranne alcune corse al suo negozio, era sempre stato con me al suo fianco, e fummo noi due che, aiutati da Baccio, trasportammo e ponemmo a letto l’infermo.
I due sacerdoti erano partiti per dar passo agli uffizi divini del pomeriggio; e l’organista ci aveva lasciato due ore dopo lo sviluppo del male, facendomi di grandi inchini e raccomandandomi caldamente di restare finchè Don Luigi non fosse perfettamente ristabilito.
— Domani, disse mettendosi il cappello, cercherò di venire, ma ho tanta strada da fare e fa tanto caldo... Basta, parto meno crucciato perchè v’è qui lei. Loro signori di città sono gente di esperienza; è proprio il Signore che l’ha mandato.
E si avviò con quel passo misurato, nè frettoloso, nè lento, delle persone abituate a far sempre la medesima strada. Baccio intanto si preparava ad andar per il medico il quale teneva la sua dimora legale a una grossa borgata a tre leghe dal nostro villaggio. Ma non fu senza arricciare il naso che Bazzetta rispose alla proposta del campanaro il quale pel primo pensò alla necessità dell’Esculapio:
— Il medico! Perchè gli cavi anche quel po’ di sangue che ha in corpo! Il medico!.. febbre? Un salasso!... polso abbattuto? Mignatte!... Oppressione di capo? Mignatte!... Delirio, agitazione nervosa? Un salasso! Salassi e mignatte, ecco il sistema del dottor Caniveri... un uomo che stimo, del resto. Se si lasciasse fare a me... lo do sano in due giorni, solo lasciandolo in calma. S’interruppe, pensò, poi avvicinatosi a Baccio gli disse all’orecchio una parola.
E soggiunse:
— Che te ne pare?
— Magnifica idea!
— Quello è l’uomo che ci vuole: vado da lui; e al diavolo il signor Caniveri.
Verso le sei di sera, Baccio partì, tutto orgoglioso del bastone col corno di camoscio, ch’io gli avevo prestato di gran cuore, sapendo di fargli un segnalato piacere.
Bazzetta crollava il capo vedendolo allontanarsi e fu con voce dispettosa che mi disse: Io resterò fino a mezzanotte, e ritornerò sul far del giorno. Intanto voi cercate di divagarvi, chè davvero, per essere la prima vi è toccata una giornataccia.
Poi, avvicinatosi, mi prese per un braccio e ammiccando gli occhi soggiunse:
— C’è in casa un vinettinino impagabile. Non fate complimenti; ne troverete nell’armadio, in cucina.
E salì alla camera del curato.
Io feci un giro pel villaggio. Gruppi di montanari e di villanelle, seduti davanti alle porte delle capanne, s’indugiavano a respirar l’aria balsamica della sera. Da qualche finestra debolmente illuminata uscivano le nenie del rosario, interrotte dal chiocciare delle galline che sbucavano d’ogni parte dalle siepi degli orti, per ricoverarsi al pollaio.
Passando davanti alla fontana, pensai: Chi sa se questa notte non succederà l’inondazione. E mi pareva di veder Baccio colla sua famosa calza in mano. Un vero attruppamento di ragazzi stava immobile, cogli occhi spalancati, come davanti a qualche cosa di straordinario, in faccia alla porta di una casupola le cui finestre, a differenza di tutte le altre, erano spalancate. Chiesi a un d’essi che cosa attirasse la loro attenzione, ma il ragazzotto, per tutta risposta se la diede a gambe, seguito dall’intiera falange.
Mi inoltrai dissotto all’androne; non so perchè, quella casa aveva qualcosa di strano da cui mi sentivo attirato. Nel cortile non c’era nessuno; sulla loggia che lo incoronava erano distese materasse e lenzuola in gran numero; un cagnolino guaiva presso una porta semichiusa.
— Abbruciate altro aceto, mamma Lena! ouf! si direbbe che è morta da una settimana!
E una vecchia, curva come un tronco abbattuto, attraversò il cortile con una lanterna in mano e miagolò:
— Vengo, Lisa! e voi andate là da quel poveretto che a furia di piangere finirà per perdere gli occhi.
Era la casa della povera Gina.
Due ragazzetti, i suoi orfani, vennero a sedersi accanto al cane, con una enorme scodella di latte e pan giallo, ridendo e giocando, fra l’una e l’altra boccata. Ma il cane di tanto in tanto ripeteva i guaiti.
Partii da quel luogo, quasi col rimorso di averlo profanato colla mia indiscreta curiosità, e me ne ritornai al presbiterio, ripensando al sogno della notte e alla quantità e alla universalità degli umani dolori.
Le campane dell’Ave Maria squillavano malinconicamente; in assenza di Baccio si era andato a cercare il suo sostituto, un vecchio piccino, pellagroso, e che zoppicava. Nell’alternarsi incerto degli squilli si sentiva qualche cosa del suo incesso.
Entrai nella cucina, non illuminata che dalla fioca luce del crepuscolo: il fuoco era semispento. Un grosso moscone volava su e giù, ronzando affannosamente e dando ad ogni tratto del capo nelle casseruole appese ai muri. Non vedevo nessuno.
— Il curato dorme ed io bevo. Venite a farmi compagnia. Era lo speziale, accovacciato e sepolto nell’ombra sotto la cappa immensa del camino. Mi avvidi subito ch’egli si era rifatto, colla bottiglia, delle noie e delle fatiche della giornata. I suoi occhietti brillavano nel buio come due carbonchi. Gli sedetti dirimpetto, e, sorseggiando quel vinettinino davvero squisito, si cominciò a chiacchierare.
Il lettore si imagina di leggieri quali dovettero essere e come insistenti le mie domande. Avevo giurato a me stesso di non chiudere occhio se non avessi prima saputo qualche cosa intorno a quel sindaco misterioso che mi appariva il perno, il movente del dramma, del cui svolgimento il caso mi faceva spettatore.
Il Bazzetta sulle prime fu restìo come un mulo. Sapeva di grandi cose (ci teneva a convincermene) ma prudenza gli suggeriva di tenerle per sè. Pochi erano al fatto di così gravi affari: nessuno forse, dopo il curato ed il sindaco, li conosceva a fondo come lui: responsabilità quindi maggiore, obbligo più formale di rinchiudersi nel silenzio. Queste mezze rivelazioni, queste reticenze non facevano naturalmente che accrescere a dismisura la mia curiosità. Misi a contribuzione tutta la mia eloquenza, e pregai e insistetti tanto che, quando Dio pur volle, non senza l’aiuto del vino ripetutamente versato, il dabbene speziale, si decise a snocciolarmi tutta una storia.
— La Mansueta, disse, quasi per scusar sè stesso, l’ho mandata a dormire, chè guai dubitasse soltanto che mi permetto di narrarvi le disgrazie che sentirete, e di cui è, poveretta, la causa senza volerlo. Se narro a voi, proprio perchè siete voi, è perchè penso che, alla fin delle fini, fra pochi giorni sarete lontano le cento miglia, e della mia storia non vi ricorderete più nemmeno il principio. Accendo la pipa, scusatemi, e poi mi starete a sentire.
Ciò che udii quella sera, nel silenzio opaco e tristo di quella cucina, vorrei potere e saper ripetere colla rozza ed efficace semplicità con cui narrava il dabbene speziale; ma dovrei accennare le interruzioni, citare le osservazioni, ch’egli vi intercalava, senza di che l’effetto sarebbe mancato e il racconto non farebbe che diventar più prolisso. Preferisco quindi riassumere alla meglio e raccontarvi con parole mie:
IL ROMANZO DEL SINDACO
Si chiamava Angelo De Boni. La sua famiglia, oriunda di Zugliano, il capo-luogo del circondario, era un tempo fra le più agiate di quelle valli. Possedeva i pascoli migliori, le baite le meglio costrutte, e il belato e le campanelle delle sue mandrie si sentivano a molte e molte leghe all’ingiro. Le donne De Boni erano citate per le loro gonne di seta e cotone, lusso che non si permettevano se non la moglie dell’Intendente e la sorella dell’Esattore. Quelle gonne invidiate avean valso anzi a far correre pel paese certe voci poco benevoli sulla rettitudine dei costumi di casa De Boni.
Questa si componeva di due famiglie riunite in una sotto il governo di due fratelli, il padre e lo zio di Angelo. Quest’ultimo, uomo dato in corpo ed anima alla religione, rimasto vedovo in giovane età con due ragazze e senza erede maschio, natura bisbetica e malinconica, teneva i conti, regolava le spese, e viveva in casa (una grande casaccia umida e burbera la cui porta maestra era sempre chiusa) come una lumaca nel guscio. Il padre di Angelo era l’opposto del fratello. V’erano due ore soltanto sulle ventiquattro in cui egli si ricordasse di avere una famiglia e una casa: al mezzogiorno, vale a dire all’ora del desinare, e a mezzanotte, vale a dire all’ora del coricarsi. Il resto della giornata lo passava girando da un pascolo all’altro, da questo a quel bosco, calzato di due enormi stivali, che in paese erano proverbiali, e armato di un alto e grosso bastone le cui solide proprietà non erano ignote a nessuno dei suoi pastori e dei suoi coloni, compresi i vecchi, le donne, e i fanciulli. Alla sera, giocava a tresette all’osteria, trincando come un bufalo, bestemmiando come un vetturale, pallido se vinceva, scarlatto se la fortuna gli voltava le spalle, arcigno, beffardo, arrabbiato sempre. Sua moglie era una donna piccina e grassotta, di un biondo cinereo, con una pelle la cui floscidità appariva più che mai nelle palpebre, le quali non potevano star sollevate un minuto secondo, talchè chi non la conosceva poteva credere ch’ella fosse cieca o avesse il dono di camminare ad occhi chiusi.
Del resto, essere passivo e inconcludente, errava per la casa, dal solaio alla cantina, accusando flemmaticamente e inappuntabilmente ad ogni bisogno, colla regolarità di un pendolo, come un sonnambulo, come un automa. Non si capiva come quella cosa avesse potuto procreare due volte. Giacchè il signor Angelo aveva avuto un fratello. È vero che costui — vivo, pochi lo avevano veduto, morto, nessuno ne osava parlare... almeno in publico. Era il secondo genito e pare che la sua venuta al mondo non avesse gran fatto garbato all’autore dei suoi giorni. Le dicerie andavano più in là: si mormorava che l’infelice avesse dovuto accorgersi allo sbaglio fatto nascendo, appena uscito di fascie. Fu il cane della casa; cane a tal punto che un bel giorno, (l’infelice contava allora quattr’anni) un calcio paterno nel ventre lo aveva messo a filo di vita. D’allor in poi la rachitide si impadronì di quel diseredato che vedevate, origliando alle fessure delle finestre, strascinarsi, smorto e coll’asma, dietro le gonne della madre affaccendata e noncurante, finchè andava a ricoverar le visioni e la tosse in qualche angolo della casa, dove le mosche fossero meno numerose e accanite nel tormentarlo. Due anni dopo quel calcio, la portaccia De Boni si aperse, un piccolo feretro ne uscì, e tutto fu detto. Le due cuginette di Angelo erano ciò che in campagna chiamano due leggierine; non brutte, non belle, orgogliose e facendo pesare i gruzzoli della loro dote su tutte le fanciulle del paese, incapaci di un buon pensiero, atte a diventar due esperte cortigiane o due donne simili alla loro zia, secondo l’occasione e le circostanze, si assomigliavano in tutto, e si accordavano in tutto, tranne che in due cose sole: la maggiore aveva un culto speciale pei girasoli che alla minore mettevano spavento: questa si sarebbe pasciuta per la vita eterna di stufato d’agnello, e all’altra veniva la nausea solo a sentirne l’odore. Del resto il vecchio bigotto che si spartiva la vita fra i registri dei bovini e dei laticinii, e il Manuale di Filotea, le lasciava far quanto volevano, e, purchè non gli lasciassero mai sfornita la scatola del tabacco, non se ne imbarazzava nè punto nè poco.
Questa suprema noncuranza del presente e dell’avvenire della loro prole, era l’unico punto di somiglianza fra i due fratelli De Boni. Rotto appena il guinzaglio inevitabile della primissima infanzia, il piccolo Angelo, nerboruto e tracotante ragazzotto dai capelli fulvi e dallo sguardo battagliero, si era affrettato ad approfittarne. Era lo spirito folletto, il genio malefico delle mandre e dei pastori. A piedi nudi, a capo scoperto, lo scudiscio in mano, quando non era qualche cosa di peggio, facesse caldo, facesse freddo, sotto il sole, sotto la pioggia, piombava nei tugurii, rovesciava le pentole, gettava l’acqua della polenta sui focolali a stento attizzati, prendeva i vecchi per la barba, i marmocchi pel naso o le orecchie, attaccava dei razzi alla coda dei gatti, trovava un gusto matto ad affumicar le tane dei sorci, e, quando, stanco finalmente e trafelato se ne ritornava a casa sull’imbrunire, aveva sempre in tasca un cartoccio destinato al suo prediletto passatempo della sera. Quel cartoccio conteneva una dose di quella polvere di cui si riempie la striglia adoperata sul corpo dei cavalli e dei muli, egli ne faceva incetta mediante pochi quattrini, presso i ragazzi dei mulattieri dipendenti da suo padre, e, arrivato a casa, salìa pian pianino alla camera del fratello rachitico, alzava le coltri del suo letticciuolo, e con gioia satanica ne cospargeva copiosamente le lenzuola. Nulla dà il prurito come quella polvere; un prurito morboso, insopportabile, spasmodico. Il povero piccino si coricava all’avemaria, e non era appena sdraiato che cominciava a contorcersi e a gemere. Angelo, appostato dietro l’uscio, si teneva i fianchi, e gongolava pensando che la infelice creatura ne avrebbe avuto fine al mattino seguente. Era questa la bonne bouche del suo quotidiano banchetto di piccole infamie.
Un avvenimento straordinario, e complicato da molti casi fatali, venne a troncarle sul più bello, od almeno a cambiarne il corso.
Il vecchio scorridore di giogaie, l’iracondo dispensiero di bastonate, il bevitore senza pari, il giuocatore febbricitante, cominciava a sentire il peso degli anni inesorabile. I primi bagliori dell’alba che venivano a trovarlo nel letto, egli non li salutava più coll’animo lieto di una volta; «così presto?» pensava, e vestivasi con minor sollecitudine, guardando con un senso d’invidia, che non voleva spiegare a sè stesso, la moglie che russava dall’altra parte. Le erte lo infastidivano; brontolava assai spesso contro l’incuria degli appaltatori stradali: e si sorprendeva le molte volte, a mezzo del cammino altre volte percorso d’un tratto, seduto sotto una quercia, colla testa annuvolata e le ginocchia indolenzite. Nel tempo stesso il suo carattere subiva insensibilmente una trasformazione. Il malumore senza parentesi serene, il non mai interrotto digrignare dell’animo suo, subiva adesso dei lunghi intervalli di stanchezza, nei quali pareva che quell’orso si sprofondasse in una profonda ed amara meditazione. Erano rimorsi? Era presentimento di avvenire funesto? La podagra lo assalì repentina come un colpo di fulmine, e colla podagra tutti gli incomodi e le sofferenze reali o immaginarie che sono conseguenza degli improvvisi cambiamenti nelle abitudini inveterate.
Allora, a sentirlo, non c’era giuntura che non gli dolesse, nè c’era altro sollievo per lui, che stroppicciargli le dita: ciò che la placida sua consorte disimpegnava colla impassibilità e lo scrupolo con cui rigovernava ogni sera il vasellame di cucina. Al mattino era preso da granchi fortissimi allo stomaco che lo contorcevano sulle lenzuola come una serpe a cui si sia fracassata la testa; e lo seppellivano sotto una montagna di pannolini caldi che, egli, dopo un momento, gettava dalla finestra.
Condannato all’immobilità dalla malattia, ebro di noia, un pensiero che non gli era mai passato pel capo dacchè era uscito dalla scuola, gli attraversò la mente: che cioè esistevano dei libri e che probabilmente essi dovevano essere stati fatti per qualche cosa. Ne chiese; e fu un grande avvenimento in famiglia. Le due pulzelle corsero a nascondere nel solaio certi volumi che usavano leggere di soppiatto e che vendeva loro di tanto in tanto il compiacente mercante girovago (il masciago) che passava pel paese ogni quindici giorni; e il lettore del Manuale di Filotea fu molto contrariato di veder un vuoto nelle due file di libri ascetici che componevano tutta la sua supellettile letteraria.
Poche persone venivano a visitare l’ammalato: la casa De Boni aveva qualche cosa scritto sulla facciata che parea dire alla gente — «stammi lontano». E ancora, a quei che vi andavano di tanto in tanto, vuoi per carità, vuoi per altri fini, la mezz’ora, presso quel capezzale, somigliava a una mezz’ora passata in una tomba. Il vecchio podagroso li salutava con un monosillabo, poi li lasciava parlare, mentre la sua attenzione pareva aggirarsi le mille miglia lontano. Le labbra erano in perpetua agitazione, e gli occhi che teneva abitualmente fissi alla parete davanti a sè, d’improvviso, a un punto inconcludente del discorso che gli era fatto, si animavano e venivano a squadrar stranamente dal capo ai piedi il narratore. Ciò che facea rabbrividire e balzar sulla sedia costui. A volte, li interrompeva sul più bello di una narrazione con un addio, secco come una acciuga, e riapriva un San Tomaso d’Aquino, o il Mese di Maria, riaccomodandosi il guanciale sotto la testa.
La famiglia non si diede per molto tempo pensiero di queste ascetiche malinconie. Ma un giorno il figlio Angelo s’accorse che la cosa si spingeva a conseguenze imprevedute e per lui poco gradevoli. Suo padre diventava caritatevole, — faceva delle elemosine. Per un uomo, noto per la sua tirchieria, la cosa era grave. Era certo segno di un grande disordine morale; perciò i maggiori eccessi diventavano possibili.
Diffatti la sua prodigalità in breve non ebbe più limiti. Buttava via il danaro e le robe dalla finestra — letteralmente.
Quale era stata la causa di sì strano rivolgimento?
Ecco: un giorno leggendo il Vangelo; gli era caduta sottocchio quella sentenza, satura di un sublime socialismo, che dice: — In verità vi dico è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che non un ricco entri nel regno dei cieli. — E poi la risposta del Cristo al Fariseo: — Se vuoi la salute, va, vendi ogni aver tuo, e danne il prezzo ai poveri.
Queste parole avevano rimescolato le viscere del vecchio peccatore spaventato. Il suo animo fu sopraffatto da superstiziosi terrori.
Inoltre una voce gli sussurrava in cuore: — che ti servono a te oramai le ricchezze? tu sei impotente a goderne: poco ti resta da vivere — e tu dovresti sagrificar la tua salute eterna per il bene degli eredi?
Posta così la quistione — l’egoismo l’aveva sciolta subito. — L’avaro era diventato prodigo per ispeculazione, e collocava i suoi averi all’interesse nella cassa pensioni del Padre eterno.
Ma ciò non poteva sembrare ugualmente utile a quei di casa sua, specialmente al figlio Angelo, che contava allora già più di trent’anni e che, da quando il padre s’era ammalato, si considerava come capo della famiglia. Egli aveva col sangue ereditato tutta la sordidezza e la prepotenza del padre: — si oppose vigorosamente alla sua ruinosa follia. Non lo perdette più d’occhio un minuto; prese un robusto montanaro tra i suoi mandriani e lo creò carceriere del vecchio idiota, Costui, felice di vendicarsi dei maltrattamenti avuti dal De Boni, fece il mestiere a meraviglia; — custodiva rigorosamente il suo padrone e lo picchiava un poco ogni giorno. La famiglia non se ne dava per intesa. Ma il povero rimbambito entrava in parossismi furiosi: egli urlava come un ossesso — tanto che la gente si fermava nella strada. Un giorno qualcuno gridò ad alta voce contro queste violenze — e il montanaro affacciatosi alla finestra rispose:
— Ma è pazzo, pazzo da legare.
Questa scena diede ad Angelo un’idea: pensò di liberarsi di quel fastidio col mettere il vecchio al manicomio.
E andò difilato dal!’intendente. Ma questi, udito il suo desiderio, tirò innanzi delle difficoltà; — ci volevano tante condizioni per far ricoverare il vecchio — eppoi, egli non era povero, — era necessario pagare una retta mensile piuttosto grave.
Angelo uscì di là bestemmiando contro questa società che non gli usava la finezza di liberarlo di suo padre. Ma in quel torno una circostanza venne a favorire il suo disegno.
Un giorno che pioveva a rovesci e le vie della piccola città erano mutate in torrentelli melmosi, un avvenimento stranissimo faceva dimenticare quel tempaccio agli avventori raccolti nella così detta bottega da caffè, l’unica del resto, a cinque leghe all’ingiro, che potesse portare o bene o male tal nome. La pareva mutata, all’immenso ronzio che vi si udiva, in un alveare di api antidiluviane: chi ragionava ex cathedra, chi avanzava osservazioni sommesse, chi parlava all’orecchio del vicino, chi girava da questo a quel capannello come in cerca di consigli o di spiegazioni; talchè la povera conduttrice del negozio, sudata come un pulcino, faceva una confusione non mai veduta nel distribuire le tazze di caffè, i capiler corretti e i bicchierini di anesone di Brescia.
— No, no, no, diceva a mezza voce, aggiustandosi la cravatta intorno al collo, il vecchio cancelliere Anastasio; no, qui c’è sotto un mistero.
— Mysterium, mysterium invocat! notava cattedraticamente il maestro di scuola; e, ne attesto i sette savii della Grecia, il mistero che circonda questi signori non comincia qui.
— Eh! bontà di Dio! voi siete pulcini nel guscio ancora; e volete pigolare, e delle cose e della gente delle grandi città. Se ci aveste passato un mese e cinque giorni di seguito, come me... bontà di Dio!... a Milano! I palazzi, i teatri, gli equipaggi... il corso... il caffè, e... come lo chiamano il laus... lans... chinetto, il maca... ca... il camao... giuochi d’inferno!... Quante famiglie di cui ieri si parlava come del re Erode, ricchi da non saper più contar i denari... da un momento all’altro, trac! colle gambe all’aria... e chi l’ha avuta, l’ha avuta! Allora, somigliano buone anche le cittaduzze di campagna, anche le borgatelle dei montanari.
Chi parlava con tanta esperienza di causa era il signor Ernesto, il più bel giovane del paese a detta delle mammine, e quello che vestiva con maggior garbo, a detta delle fanciulle. Quel mese e cinque giorni passati a Milano lo circondavano di gloria, come l’aureola dei Santi, ed egli passava la vita, in un ozio senza riposo, bellimbusto davanti alla farmacia e al caffè, giocatore ammanierato e pieno di mentita sbadataggine al tavolino delle carte, annoiato e contento, sbadigliando e pavoneggiandosi, capace di parlare dall’alto al basso anche col re, se lo avesse incontrato, e lasciando sempre nel discorso una filza di sottintesi che davano a pensare agli ingenui suoi compaesani chi sa quanti romanzi pieni di tragiche e sentimentali vicende... tutte nel giro di quel mese e di quei cinque giorni.
Egli si arricciò i lunghi baffi neri, arrotondò coll’indice della destra le tese di un cappello di feltro di una bianchezza insolente, e lasciata cader con grande rumore la stecca che aveva nella sinistra, e, inalberandosi come uno che stia per prendere la corsa, soggiunse:
— Le città... le grandi città come Milano! come Parigi! — non sono stato a Parigi... ma fa lo stesso; chi ha visto Milano ha visto Parigi... miglia più, miglia meno. Il denaro fugge, scappa, scivola, svapora, svanisce, dilegua... lo so io... pur troppo!
E abbassandosi all’orecchio del fabbriciere anziano di S. Gaudenzio; — Soltanto in donne!!!... lo so io...
— Uh! cattivo soggetto!
E una risatina tra carne e pelle piena di libidine senile e di riserva bigotta.
Ma la piccola porta dai vetri pieni di gemme di pioggia, che vi serpeggiavano or rapide or lente in tutte le direzioni, cigolò sui cardini, e l’apparire di un personaggio dall’incesso lento e maestoso fece restar lì di botto tutte quelle labbra cicaleggianti, ronzanti e roboanti. Il piccolo cancelliere si alzò, fece un arco della schiena, afferrò una sedia, l’alzò di peso, l’offerse; il fabbriciere spalancò una enorme scatola, schiuse un sorriso cretino, si ripulì le labbra colla lingua e mormorò un «posso?» dolce come una ciliegia bucherata dai passeri; il bell’Ernesto se ne ritornò al bigliardo, con aria dispettosa. Provatevi a interrompere un agricoltore che parla di un prato di marcita, o un veterano che descrive un campo di battaglia!
Il nuovo arrivato, nientemeno che la prima autorità della provincia, il rappresentante del governo, il signor «Intendente» come dicevasi a que’ tempi in Piemonte, chiuse con calma e dignità l’ampio ombrello scarlatto dal manico d’ottone, e passando coll’indifferenza di un nume fra gli astanti, andò a consegnarlo alla padrona perchè lo facesse asciugare; poi, sempre con quel tal passo, tornò indietro, sedette, non prima di aver ben divise l’una dall’altra le falde del lungo soprabito, cavò il fazzoletto, si soffiò il naso, vi raddrizzò sopra gli occhiali, e, finalmente, con una voce da basso sfiatato:
— Servo di loro signori, disse, guardandosi intorno senza girar il capo, tempaccio da lupi, eh! tempaccio da lupi.
E il maestro di scuola, il quale doveva essere un uomo maligno, e che, solo fra tutti, non aveva mutato contegno all’arrivo del signor Intendente, pensava più che non mormorasse facendo mostra di gettar gli occhi su un vecchio giornale:
«... Graviter commotus, et alto |
Grandi erano il rispetto e la deferenza che creavano intorno al signor Intendente l’alta sua carica e il suo burbero carattere; ma, quel giorno, l’emozione degli animi era tanta che deferenza e rispetto furono posti in un canto per dar luogo ad una salva di interrogazioni che si successero fitte e insistenti come una gragnuola di maggio.
Lungi dall’indispettirsi per la insolita mancanza ai riguardi dovutigli, il degno magistrato, senza dar risposta a nessuno, appoggiate ambo le mani al tavolo, gongolava, e incrociate le dita, faceva girar chetamente l’uno intorno all’altro i due pollici; ciò che è un segno non dubbio di benessere e di soddisfazione.
Cessata finalmente la tempesta, fu un silenzio profondo, religioso, solenne. Uno andò a chiudere per bene gli usci perchè nessuno stridor di molla o di cardini venisse a sturbar la voce invocata; dietro il banco si cessò di ripulir chicchere e cucchiaini, e la padrona, raggomitolato il grembiale e assicuratolo alla cintura per di dietro, venne a collocarsi nell’uditorio, a rispettosa distanza, s’intende. S’udiva il passo delle mosche che gremivano il soffitto.
Il signor Intendente si soffiò un’altra volta il naso, si racconciò un’altra volta le falde dell’abito, un’altra volta diè un piccolo colpo magico agli occhiali, e, come se parlasse dall’alto della bigoncia, così prese a dire:
— Fin dalle prime trattative intavolate fra il signor De Emma, da oggi nostro novello concittadino, e l’israelita Zaccaria, desse furono note a questa Regia Intendenza. Non che i due contrattanti, o solo uno dei due ne avesse resa cognita l’autorità; a ciò nessuna legge obbligavali. Tale comunicazione sarebbe stata atto di pura cortesia; ma tale comunicazione all’autorità non fu fatta. Tuttavia, o signori, benchè le finestre del regio palazzo ov’essa ha sua sede, appaiano chiuse la più parte del giorno, e benchè qui il nostro caro cancelliere si vegga passar tante ore seduto al tavolino del tresette (e i due auguri sorrisero, l’uno maliziosamente, l’altro con un sorriso vago e melenso), tuttavia, dico, essa, l’autorità, non cessa un minuto mai di aver occhi per vedere, orecchie per udire, non cessa un istante di vegliare au salut de l’empire, come diceva mio padre di buona memoria, cantarellando vicino al fuoco.
Scrissi quindi, privatamente, prima, ad alcune influentissime persone di Milano, — persone alto locate, assai alto locate, che mi onorano di loro stima e amicizia, per aver informazioni sul conto del signor D’Emma e famiglia.
Non posso attribuire il loro ostinato silenzio alle mie replicatissime lettere, a una dimenticanza a un oblio, che offenderebbero, oltre che la mia persona, anche le vostre, o signori, di cui sono, e me ne onoro, il rappresentante... benchè indegno... come dice il parroco quando si dà il nome di pastore.
Un mormorio che voleva significare: «le pare, degnissimo! ma so ben che scherza ecc. ecc.» salì alle nari dell’Intendente, più soave della presa di tabacco che gli tenne dietro.
Il magistrato continuò:
— Difficilissima posizione, o signori, è la mia. Alte questioni di giurisprudenza ci sorgono intorno ad ogni piè sospinto nella intricata selva della amministrazione. Dove finisce il diritto privato, dove l’ingerenza del pubblico diritto incomincia? Come uomo, come figlio di questo fortunato comune che il governo di Sua Maestà Sabauda mi assegnava come una seconda patria, e tale è per me, voi lo sapete, — io poneva a me stesso questa domanda: noi siamo davanti ad un fatto nuovo, stranissimo, oscuro, il quale presenta, sotto ogni lato considerar lo si voglia, adito al sospetto, al dubbio, alle incertezze, alle diffidenze. E che, o signori! Una delle più ampie e considerevoli case della nostra città, è cercata, contrattata, venduta, nell’ombra, nel mistero, come se in quella ricerca, in quel contratto, in quell’affare si nascondesse un delitto. Il venditore interrogato, non risponde, si eclissa, diventa invisibile. L’acquisitore è assente e direi quasi d’ignota dimora. Si sa finalmente che giungerà da Milano; più tardi, che si chiama il signor Abbondio de Emma. La vecchia casa del Giudeo viene in fretta ed in furia riattata: eccoci invasi da una turba di operai d’ogni mestiere e condizione; arrivano carri pieni di suppellettili; l’oro e i marmi scintillano di sotto alle imbottiture indiscrete e alle coperte che svolazzano al vento. Tutto ciò, — una montagna di roba, — entra, si ammassa là dentro; la porta si chiude; e così ermeticamente che un gatto non potrebbe trovar un buco per cui dare un’occhiata... — Signori, ho letto, nei tempi in cui avevo tempo da perdere, le mille e una notti, un libro pieno delle cose più stravaganti di questo mondo e dell’altro. Ebbene, assistendo a questo spettacolo, quel libro mi tornò in mente. L’impressione che questo complesso di cose fece sull’animo mio, d’uomo e di cittadino, fu l’impressione che voi tutti provaste, o signori. Me lo dicevano, fin dal primo giorno, i vostri sguardi scrutatori, le vostre sommesse parole; le timide inchieste delle vostre spose e delle vostre fanciulle me lo dicevano. Questa nostra pacifica famiglia, così calma nella sua modestia, così modesta nella sua calma, somigliava ad un nido su cui passi d’improvviso l’ombra di qualche augello solitario e lontano.
A questa immagine poetica e peregrina, il facondo oratore si arrestò, e parve accorgersi che era da un pezzo che si logorava i polmoni, giacchè, voltasi alla padrona che lo guardava tutta attonita, coll’ammirazione beata di chi non capisce ciò che ascolta, le ordinò con aria di paterna protezione:
— Madama... una mezz’acqua d’agro: mah!... mi raccomando.
Fu servito, bavette un sorsellino, si soffiò il naso, ecc. ecc., e riprese:
— È colomba o avoltoio cotesto signor De Emma? Ci porterà la benedizione o la rapina? Ecco il pensiero che mi assediava e pesava, lo so, sulla città intera. Ma, ripeto: dove finisce il diritto privato, dove comincia l’ingerenza del pubblico diritto? Oh! se si fosse sconnessa una sola pietra del selciato di publico dominio davanti alla casa Zaccaria, se vi avessero ammonticchiati sol quattro mattoni che disturbassero più o meno la circolazione, oh! siatene certi signori, che in tal caso avrei scritto immediatamente ex ufficio, e tutto sarebbe venuto alla luce. Ma nulla di tutto ciò; non uno spruzzo di calce, non un granello di sabbia su cui poter movere il più modesto lamento. Ecco perchè non scrissi, dapprima che in forma affatto privata e confidenziale. Confido, o signori, che voi apprezzerete questo mio prudente procedimento.
— Però... tuttavia... osarono interrompere alcuni sommessamente.
Il signor Intendente alzò allora il capo, a guisa del gallo che sta per cantare; — e fu con tono di superna commiserazione per quegli ingenui interruttori che ripigliò:
— Tuttavia, però, se... ma... davvero che, con tutto il rispetto dovuto, miei cari signori, mi fanno da ridere. Mi ascoltino, e s’accorgeranno che l’autorità sa e può fare il suo dovere. Irritato dal silenzio dei miei amici di Milano, e come il mistero in quistione cresceva ogni giorno e assumeva ogni giorno più allarmanti proporzioni..... — Tuttavia, però... dicevano loro signori? Ebbene io presi una eroica decisione: riferii il tutto nei suoi minuti particolari all’illustre mio collega, che è a capo della regia Intendenza centrale di Novara, chiedendo per mia regola e per tranquillità dei miei amministrati, ampie, formali, categoriche informazioni.
— E...? E...? Si udì da tutte le parti.
— E le informazioni mi sono giunte categoriche, ampie, formali!
Viaggiando in ferrovia, voi avete provato senza dubbio insieme ai vostri compagni di viaggio quel senso di sollievo che vi allarga il petto, avete mormorato o pensato quell’ah! della liberazione che sale involontariamente alle labbra, quando dopo essere stati sepolti dei minuti che sembrano eterni nella oscurità fuliginosa di una galleria, il convoglio sbuca finalmente a riveder la luce del sole.
Così respirarono tutti gli avventori del piccolo caffè, alle ultime parole dell’Intendente, mentre un pallido raggio di sole si faceva strada attraverso alla pioggia diminuente, come se anche la natura sentisse il bisogno di tirar il fiato dopo quella interminabile filastrocca.
Per giustificare ancor meglio quella febbrile curiosità, mi basterà dire (avrei veramente dovuto dirlo prima) che quel mattino stesso quattro carrozze da posta portanti il misterioso signor De Emma, la sua famiglia e uno stuolo numeroso di servidorame erano trionfalmente entrate per la via principale, facendo traballar le imposte delle case e più ancora la fantasia dei loro abitanti.
Momento solenne! Il piccolo cancelliere allungava il collo, si palpava le braccia, spirava tenerezza e beatitudine da tutti i pori, dileguava come un sorbetto; il fabbriciere cacciava fuori dell’orbita due occhi vischiosi che somigliavano due pallottole di amatista, e non s’accorgeva d’aver in mano la scatola da cinque minuti e che metà del tabacco era andato ad asciugare i liquidi di cui era costellato il pavimento. Anche il maestro che aveva appena mostrato di prestar attenzione al bello stile del magistrato, si era degnato di avvicinare la sedia, e, guardando al soffitto per non aver l’aria di un gonzo metteva negli orecchi tutto l’acume di cui privava le pupille. La partita al bigliardo si era interrotta; il bell’Ernesto, colla stecca fra le gambe e un mozzicone di zigaro spento in un angolo della bocca si era abbassato al livello della attenzione di quei provinciali; la padrona del negozio si asciugava il sudore...
Il signor Intendente gongolava, gongolava...