< Merope (D'Annunzio)
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La canzone di Mario Bianco
La canzone di Umberto Cagni L'ultima canzone
LA CANZONE
DI MARIO
BIANCO




G
IOVINE, so che vuota è la tua tomba

la nella cerchia ove le primavere
della morte una candida colomba

reca, Medea nata del Condottiere
di bronzo, quella che i suoi rosei marmi
disfoglia come rose di verziere1.

Bergamo t’ebbe. Ma colui che parmi
ti sorridesse come ad un fanciullo
gentile, non l’adunco irto nell’armi


Colleoni, sì ben Francesco Nullo2
era, la buona lancia, il grande e fermo
alfier di Libertà, col viso brullo

ancóra delle fiamme di Palermo,
rotto dal piombo slavo il vasto petto
offerto alla Giustizia ultimo schermo.

Risorrideva nel virile aspetto
il primo sogno che per il selvaggio
Agro trasse il lanciere giovinetto

quando la giovinezza era l’ostaggio
d’ogni patto segnato col Destino
ed ogni giorno era calendimaggio?

Dov’egli cadde, cavalier latino
in terra strana, ivi restò. La spoglia
dell’eroe sola è mèta al suo cammino.


Tu fosti tolto, su la nave in doglia
alla Patria raddotto e alla soave
madre che t’attendea su la sua soglia.

Tinta in minio la prora della nave
non era, né corona avea d’oliva
né la mannella delle spiche flave;

né sopra v’era teoria votiva
che il virginal tuo sangue, libamento
di guerra, offrisse alla divina riva.

Ma la mistica voce era nel vento,
ma sparso era il libarne. “È questo, Italia,
è questo il tuo fermento e il tuo cemento.„

E non era solenne la paràlia3
a Delo come il funebre vascello
che radduceva il Giovine d’Italia.


Ed all’approdo ognun t’era fratello
sentendo in sé l’immobile tuo cuore
ripalpitare come un cuor novello.

E dal silenzio fùnebre un dolore
nascea possente come la radice
della virtù. Quest’inno era il suo fiore.

E la morte era quasi Beatrice
che ci purificasse in una santa
onda per trarci a un regno più felice.

E tu non una giovinezza infranta
eri, ma la promessa e il pegno. Aroma
era del cuor la lacrima non pianta.

E passasti i deserti ove arde Roma
or d’altra febbre, e lungo il mar toscano
le salse macchie che il libeccio schioma.


Oh t’avessero almen per il Gargano
procelloso raddotto al bel nativo
colle scisso dal vomere fremano,

al chiaro colle onde il palladio ulivo
guarda il gregge dell’isole nomate
dal nome del guerreggiatore argivo

e i nostri monti quinci, le nevate
imagini dei nostri alti custodi,
e il grande Sprone, e il cerulo Nicate!

Detto io t’avrei: “Buon figlio, se non odi
qui fragor di battaglia né ti sazia
l’effuso dopo te sangue di prodi,

ben odi qui, sepolto nella grazia
di San Giovanni, le tue querci cave
vaticinare al vento di Dalmazia4.„


Ma tu rivalicato hai senza nave
a mar d’Africa Vuota è la tua tomba
che Rinfiora la madre tua soave.

Per Santa Barbara, alla prima romba
del mortaio, già, vigile tu eri;
e Gian Muzzo sonava la sua tromba.

Ed eran teco i primi cannonieri
della morte, i tuoi Sardi e i tuoi Pugliesi;
e tutti eran più bianchi e più leggeri.

E parea che la gran Vergine accesi
avesse i fuochi dell’aurora eterna
alla festa e spiegato i suoi pavesi.

Ardeva a Tripoli, a Bengasi, a Derna
la festa del mortaio e del cannone,
per Santa Barbara, in vicenda alterna.


Senza pausa correva la canzone
dall’una gola nera all’altra rossa:
rugghio d’incendii le tenea bordone.

L’odor divino della terra smossa,
fra tanta afa, lo spirto della terra
uomo e pezzo allenava nella fossa.

Biego, Desuni, Pellegrini, Serra,
dèmoni della vampa e del fragore,
àlacri sinfoneti della guerra!

Tutte le batterie un solo ardore.
Tutte le volontà un nervo istesso.
La massa era contratta come un cuore;

la fila era flessibile qual nesso
di tèndini. Fin l’ombra su l’arena
tra l’uomo alzato e l’uomo genuflesso


era un legame vivo. La catena
unanime giocava agile e dura
come i nodi nell’osso della schiena.

Ove il ferro faceva una radura
i superstiti in sùbito retaggio
raccoglievan la forza moritura.

I morti si drizzavan nel coraggio
moltiplicato dei viventi. L’aria
era come un ignito beveraggio.

Roma apparia. L’anima legionaria
col vasto afflato dilatava i petti.
Nel cielo spaziava l’ala icaria.

Oh date gli asfodeli violetti
d’Aïn-Zara, per tesser le ghirlande
della gloria primiera ai primi eletti,


ch’io li mesca ai narcissi della grande
Berenice, ai nettunii gigli nati
su l’orlo delle sabbie memorande

ove tinse gli affusti trascinati
a braccia il primo sangue virginale
in libamento della Patria ai Fati.

Guardiamarina, cippo sepolcrale
in Tobrucca ti sia l’un dei cannoni
ammutoliti, tolti nel campale

giorno di Santa Barbara ai ciglioni ✝︎ Gianni Mazzo di Gallipoli, Alfieri d’Alò e Giuseppe Carlini di Taranto, Nicolò Grosso di Carloforte, Salvatore Marceddu di Cagliari, Giovanni de Filippis di Salerno.
d’Aïn-Zara che videro i fuggenti.
Gli altri sei diamo agli altri sei leoni5.

Ché dove noi poniamo i fondamenti
della potenza, là poniam de’ nostri
morti l’ossa per consacrar gli eventi.


Non nelle antiche ombre, ne’ lunghi chiostri
fai cimiteri, tra gli usati avelli,
dove profusa la pietà si prostri;

ma novel tumulo ad eroi novelli
diamo, oltremare, su la quarta sponda;
e ciascun nome in pietra si scarpelli;

e sien pietre angolari che profonda-
mente radichi in terra ad opra forte
il costruttore, il saldo eroe che fonda.

O Tobrucca, alte mura e ferree porte
avrai, cantieri, maestranze, scali,
darsene, e i novi ingegni della morte.

E strapperemo alla Vittoria l’ali
perché mai dall’acropoli munita
si fugga. Avrem col Mare altri sponsali.


Una maschia bellezza redimita
di sogni avremo, senza il sacerdote,
in mezzo a noi, nel mezzo della vita.

Ché l’Africa non è se non la cote
ove affilammo il ferro, per l’acquisto
supremo, contra le fortune ignote;

e riluce per noi nell’intravisto
futuro un bene che per rivelarsi
vale il martirio d’un novello Cristo.

O Giovine, se mai nel cor t’apparsi
creato dalla pagina commossa
e del gran fuoco mio l’anima t’arsi,

odimi, qual ti vedo su la fossa
della trincera mentre ancor spirante
bevi l’odore della terra smossa,


odimi. Non morrai. Sei nell’istante
e nell’eternità. Colui che viene
e non colui che parte sei, distante

e prossimo. Tu grondi, e le tue vene
sono inesauste. Impallidisci, e il viso
tuo raggia e le tue mani sono piene

di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso
è inestinguibile. In grande ombra veli
la tua certezza, e pure io ti ravviso.

Io fui qual sei, nel mondo. Quel che aneli
anelai. Vissi come tu combatti.
Nutrii di sangue i sogni miei fedeli,

d’aspro sangue, per trasmutarli in atti.
Solo, per simulacro della guerra
posi a me, tenni a me tremendi patti.


Tutto che in sé l’insonne anima serra
perverte esalta io lo conobbi. E pure
talor fui pari a un fiume della terra!

Ma gli anni d’onta, ma le cose impure
pesavano su me. La mandra abietta
si voltolava nelle sue lordure.

A me dissi: “Ricordati ed aspetta.
Dal silenzio Ei verrà. Veglia alle porte.
La gloria fu. Ricordati ed aspetta6.„

Ed è venuto, il Grande, il Puro, il Forte,
il Signore aspettato, alto volando,
come la verità, sopra la morte.

Ecco, vedi, obbedisco al suo comando
e tremo. Vedi, sono ebro d’amore
e di spavento. Or ei dice: “Chi mando,


o gridatore ed indovinatore
di Cose sante? Chi andrà per noi?„
“Eccomi„ dico “manda me, Signore.

Con qual segno?„ Col segno degli eroi
Egli ha moltiplicata la mia gente,
accesa la virtù degli occhi tuoi.

Ah perché, mentre tutto è rinascente
in una primavera più gioiosa
che quella delle Esperidi, e il presente

è tessuto di porpora famosa
e di stami indicibili, e la vita
nella pietra di Pallade corrosa

riscolpisce l’imagine compita
della divinità novella, e ignoto
nume è il soffio che t’agita e t’incìta,


ah perché non rinasco dal mio loto
Principe della Gioventù traendo
i miei compagni a me duce e piloto,

meco giurati a un patto più tremendo,
e, per guidarli, d’un più alto e puro
fuoco in me stesso non mi riaccendo?

O Giovine d’Italia, il morituro
ti saluta. Il mio sogno, astro vegliante,
declina sopra i mari del Futuro.

Tu sorgi. Non morrai. Sei nell’istante
e nell’eternità. Colui che viene
e non colui che parte sei, distante

e prossimo. Tu grondi, e le tue vene
sono inesauste. Impallidisci, e il viso
tuo raggia e le tue mani sono piene


di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorriso
è inestinguibile. In grande ombra veli
la tua certezza, e pure io ti ravviso.

Ave, Giovine. Gloria a te nei cieli,
gloria nei mari, gloria su la terra!
Combatti e canta come il pio Mameli;

semina e mieti; i varchi tuoi disserra;
assoda e guarda le tue vie; con pugno
intrepido le tue fortune afferra;

e sappi come traggo il miel del bugno,
l’acqua del fonte, della piaga il dardo;
e vedi come il mio dolore espugno.

Quando tu abbia col tuo chiaro sguardo
abbracciato il dominio, su la vetta
vertiginosa infisso il tuo stendardo,


offerto al Sole l’ultima saetta,
alfine avrò da te forse il selvaggio
inno che il paziente orgoglio aspetta,

l’inno alla mia vigilia e al mio coraggio.


  1. [p. 223 modifica]Le due prime terzine alludono alla giovanissima figlia di Bartolomeo Colleoni, a quella vergine Medea sepolta nella stupenda Cappella costrutta in Bergamo dall’arte di Giovan Antonio Amadeo, dell’architetto scultore che lavorò al fronte della Certosa di Pavia e all’interno del Duomo di Milano. Vedi nelle Città del Silenzio i tre sonetti su Bergamo.
  2. [p. 223 modifica]Francesco Nullo (1826-1863) bergamasco condusse nelle Cinque Giornate la sua colonna di prodi, con prodezza senza pari. Fu, poco dopo, nel Trentino alfiere potentissimo. Militò alla difesa di Roma nella legione dei lancieri. Fu in Bergamo alcun tempo prigioniero del Governo austriaco. Dal 1859 al 1862 seguitò il generale Garibaldi, dando continue prove di valore sublime. Nel 1863, con sedici bergamaschi ed altri pochi giovani d’altre province, partì per soccorrere la Polonia insorta. Il cinque maggio, nella giornata di Krzyfcawka, rimase ucciso sul campo da una palla che gli forò il petto generoso. Così egli è rappresentato a Palermo, nella Canzone di Garibaldi:
    “il maschio
    Nullo a cavallo oltre la barricata
    con la sua rossa torma, ferino e umano
    eroe, gran torso inserto nella vasta
    groppa, centàurea possa, erto su la vampa
    come in un voi di criniere....„
  3. [p. 224 modifica]Paralia era detta la trireme sacra che, ornata di ghirlande, trasportava, la teoria a Delo.
  4. [p. 214 modifica]L’episodio della battaglia sostenuta dai quattro legni cristiani contro l’intera armata di Maometto II, sotto le mura di Costantinopoli, è narrato nelle Croniche di Giorgio Dolfino e di Niccolò Barbaro che ne fu testimonio, e nella Cronica di Costantinopoli del greco Giorgio Phranzes, il quale anche assistette alla fazione. I quattro legni, venendo dal Mar di Marmara, portavano viveri e munizioni all’imperatore assediato. Pei contrarii vènti, avevan cappeggiato a lungo nei paraggi di Chio; cosicché, favoriti alfine dall’Ostro, entravano nell’Ellesponto e s’appressavano al Bosforo quando già tutta la città era stretta. Come l’armata turca li avvistò, il sultano diede ordine all’ammiraglio di assalirli con tutte le forze e di catturarli o di colarli a picco. Suleyman bey salpò con circa duecento vascelli (a centoquarantacinque li riduce uno dei cronisti); innanzi l’ora di nona incontrò i quattro legni sotto le mura, propriamente fra le Sette-Torri e i giardini di Blanca. In quel punto il vento cadde, cosicché i Cristiani perdettero il vantaggio. Tuttavia si prepararono a combattere. Combattimento ineguale e portentoso, d’un naviglio sottilissimo contro il grosso dell’armata ottomana. Allo spettacolo accorse su le mura, dalla parte della Propontide, la moltitudine degli assediati, e lo stesso Costantino. Su la riva, fuor della cerchia, presso il promontorio di Zeitun, a breve distanza dalle Sette-Torri, accorsero i Turchi, e lo stesso sultano a cavallo per godere della prima vittoria. Il cielo era sereno su tutto il Bosforo. Prima parlarono i mortai e le bombarde; poi un de’ legni cristiani e la galeazza di Suleyman vennero all’arrembaggio per prua e rimasero conficcati per prua l’uno nell’altra. Intorno s’accalcarono le navi turche. E le tre genovesi nell’investimento persero l’uso dei remi. Allora i ponti accostati furono il campo d’una mischia feroce. Con le pietre pugnerecce e coi fuochi lavorati i nostri opposero una così fiera difesa [p. 224 modifica]Mario Bianco nacque in terra d’Abruzzi, a Fossacesia, nell’antica regione frentana. Quivi, sopra un’altura querciosa che domina l’Adriatico, sorge la Basilica di San Giovanni in Venere, così detta dal ricordo di un tempio di Venere Conciliatrice che coronava il promontorio. Insigne d’architettura, la Badia fu ricca, potente e variamente mista alla storia religiosa e civile dell’Abruzzo chietino. Nel 1194 vide dalla sottoposta marina partire le galèe di quella Quarta Crociata che doveva rinnovare l’egemonia italica nel bacino orientale del Mediterraneo e fondare l’Impero latino. Nell’immenso spazio di mare, che la vista abbraccia dall’altura sonora di querci, appariscono in lontananza le Tremiti, le isole che gli antichi chiamarono Diomedee dal nome di Diomede figlio di Tideo, socio di Ulisse; perché la tradizione recava che quivi i compagni del guerriero si fossero trasfigurati negli uccelli marini che abitavano le rupi e accoglievano con grandi clamori di giubilo chiunque di stirpe ellenica vi approdasse.
  5. [p. 224 modifica]I marinai morti nello sbarco di Bengasi furono sei: Gianni Muzzo di Gallipoli, Alfieri d’Alò e Giuseppe Carlini di Taranto, Nicolò Grosso di Carloforte, Salvatore Marceddu di Cagliari, Giovanni de Filippis di Salerno. Il guardiamarina Mario Bianco comandava due cannoni sbarcati a viva forza e situati su le dune della Giuliana, a ostro della Punta. Egli fu sorpreso alle spalle da uno stuolo di Turchi e di Arabi che vennero all’assalto con grande impeto. Mentre dirigeva il fuoco de’ suoi uomini e rispondeva egli medesimo scaricando la sua pistola, fu colpito da una palla all’inguine. Perdeva sangue; non volle essere sorretto; continuò ad animare i suoi [p. 225 modifica]marinai. A ostro della Giuliana, sotto un gruppo di palme, cadde. Il suo corpo fu veduto riverso nella sabbia, con le gambe penzoloni nella fossa d’una trincera dove un colpo d’una delle nostre mitragliatrici Aveva, abbattuto e ridotto in orribile car- name un mucchio di venti Arabi.
  6. [p. 225 modifica]La terzina che reca le parole: “Ricòrdati ed aspetta„ è formata con emistichii tratti dai sonetti che fanno da preludio ai Canti della Morte e delta Gloria cominciando:
    “Verità cinta di quercia, canta
    la tristezza del popolo latino....„
    “La gloria fu„ sono le prime parole del terzo sonetto, che finisce con questi versi qui citati ad onore:
    “Alziamo gli Inni fùnebri, sul gregge
    ignaro, alla Potenza che ci lascia,
    alla Bellezza che da noi s’esilia.
    Implacabile è il Canto, e la sua legge.
    E però leva su, vinci l’ambascia,
    Anima mia. Questa è la tua vigilia.
    E così comincia l’ode piena di presagio che prelude ai Canti della Ricordanza e dell’Aspettazione:
    “Il Sole declina fra i cieli e le tombe.
    Ovunque l’inane caligine incombe.
    Udremo su l’alba squillare le trombe?
    Ricòrdati e aspetta.„

Note

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