< Merope (D'Annunzio)
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La canzone di Umberto Cagni
La canzone dei Dardanelli La canzone di Mario Bianco
LA CANZONE
DI UMBERTO
CAGNI




C
AGNI1, colui che a te negli anni eguale

patì l’ignavia delle vane carte,
3morso il cuore dall’aquila immortale,

e vendicò nello stridor dell’arte
la forza che sognar faceagli il fato
6e il pallore del giovin Bonaparte

quando credea nel suo silenzio armato
essere il messo della nova vita
9e della nova gloria il primo nato,


colui t’onora come la scolpita
imagine del sogno suo più forte,
12sì ch’ei disdegna l’opera fornita

e, gittando sul volto della sorte
le sfrondate corone, or solo spera
15nell’ultima bellezza della morte.

Non per la forza, o anima guerriera,
non pel fàscino invitto onde rapivi
18oltre la forza l’èsile tua schiera

quando fendevan quattro cuori vivi
l’immensa ghiaccia, e più del buio trista
21la notte senza tènebra era quivi;

non pel fertile ardire onde fu vista
una manata d’uomini discesa
24dalle navi tenére la conquista


della terra ed accrescersi, sospesa
nel pericolo come nel bagliore
27d’un nume, onnipresente alla difesa;

ma per l’amore, ma pel solo amore
onde due volte già, trasumanasti,
30eroe, t’invidio sopra il tuo valore.

Eroe di due deserti, dei più vasti
geli e delle più vaste sabbie, in quali
33eroiche immensità l’Italia amasti!

Ogni altro umano amor sembra senz’ali
e senza lena e inglorioso e impuro,
36congiunto alla viltà dei nostri mali.

Come il fiore d’un mondo nascituro
il tuo fu, schiuso all’orlo d’un’estrema
39Tule che dentro te, nell’uomo oscuro,


avevi, incognita. E la man mi trema,
quasi eternassi la mia smania ignava
42celebrandoti, eroe, nel mio poema.

Penso la mano tua che dolorava
cominciando a morire, il ferro atroce,
45l’anima indenne su la carne schiava;

la volontà spietata e senza voce
che ti facea lo sguardo come il taglio
48della piccozza; il piede più veloce

come più duro era il cammino; il maglio
invisibile che schiacciava i blocchi
51enormi, con un tuono ed un barbaglio

di prodigio pel bianco Ade ove gli occhi
seguivano i silenzii oltre i fragori;
54le dighe che rompevano i ginocchi


e i gomiti; le slitte tratte fuori
dalle crepe improvvise; la costretta
57man dolorosa ai ruvidi lavori;

e la fame in attesa della fetta
crudigna presso il cane ancor fumante
60scoiato su la neve, la galletta

muffita per panatica, all’ansante
sete il sorso dell’acqua fetida, ogni
63penuria, ogni miseria; e, se il sestante

segnava il punto suo, tutti i bisogni
conversi in riso lieve e nelle stanche
66ossa inserte le invitte ali dei sogni.

Ti sovviene? Su le pianure bianche
una vita recondita bruiva,
69nel gran giorno di Dio. Le dighe bianche


s’alzavano, crollavano; la riva
si saldava alla riva, il monte al monte.
72Tutta la solitudine era viva

di ghiacci sino all’ultimo orizzonte,
fulgida sotto il sol di mezza notte.
75Tra l’infinito e le tue brevi impronte

era la prova, augusta fra le lotte
dell’uomo. E tu dicevi a te: “Più oltre.„
78L’Oceano era un bàratro di rotte

isole. E tu dicevi a te: “Più oltre.„
Sparivano i due solchi in un tumulto
81raggiante informe immenso. E tu: “Più oltre!„

Che ti parea da uno scalpello occulto
nell’eterno cristallo solitario
84quell’altro nome ovunque fosse sculto:


lo scandinàvo. “Non è necessario
vivere, sì scolpire oltre quel termine
87il nostro nome: questo è necessario.„

E la virtù dei quattro uomini inermi
fu per un’ora il vertice del mondo.
90Ti sembrò tutto fervere di germi

immortali l’Oceano infecondo.
Sommosso ti sembrò tutto il deserto
93artico dal tuo palpito profondo.

Poi fu silenzio, sotto il segno certo.
Fu la cerchia terribile del gelo
96alla tua gioia adamantino serto.

L’anima tua su te diffuse il cielo
d’Italia. Fosti immemore e sparente
99come l’Ombra sul prato d’asfodelo.


Allora, come l’inno fa presente
l’iddio, l’amor creo l’imagin vera
102della Patria. Nel gran silenzio algente

parve con l’alito una primavera
sublime ella diffondere. Il tuo santo
105amore volse in luce la preghiera.

Piangesti. Ed ogni lacrima del pianto
eroico rilucea più che il polare
108meriggio. Sol per una, ecco il mio canto.

O messo della gesta d’oltremare,
o precursore degli eroi rinati
111sul lido ove rosseggia il nostro altare,

o tu che primo fosti ai primi agguati,
l’indice tronco della man virile,
114quel che impone i comandi o addita i fati,


non fu debole all’elsa. E il puro aprile
della tua gloria parve ad altra ebrezza
117rifervere nel sangue tuo gentile.

Ah, da qual sacro mare di bellezza,
da qual divino anello d’orizzonte,
120da qual non vista aurora escì la brezza

vigile che soffiava su la fronte
de’ tuoi, là presso i Pozzi dove forse
123Roma avea coronata la sua fonte?

Nella notte d’ottobre ardevan l’Orse
alte coi sette e sette astri fatali
126su i marinai, quando la luna sorse.

Tutta bella tra il golfo dei corsali
e il deserto, levava al gran ritorno
129l’Oasi le sue palme trionfali.


Simile all’invocata alba d’un giorno
mistico era il notturno effuso lume;
132e l’annunzio e l’attesa erano intorno.

Parea, spirato dall’antico nume,
intra il libico monte e l'apennino
135spander il ciel di Dante il suo volume.

Da qual nascosto vortice marino
la colonna rostrale era polita
138perché splendesse al novo eroe latino?

Quali mai braccia avean diseppellita
da secoli di sabbia e di barbarie
141Minerva, chiarità di nostra vita?

Di sotto l’oro della sua cesarie
spiava ella gli imberbi, dalla vetta
144cerula delle palme solitarie?


Era forse Ebe la parola detta,
come nella battaglia di Micale
147vinta col nome d’Ebe giovinetta?

Tutto era senza limite, eternale
ed imminente, nell’abisso cieco
150del tempo e in sommo della vita frale.

Carme romano ed epinicio greco
passavano con tuono di tempesta,
153e la canzone italica era teco.

E la canzone italica di festa
e di guerra, di vóto e di riscossa,
156la sua face scotea su la tua testa.

Tu, come le midolle son nell’ossa,
eri in quel pugno d’uomini. L’odore
159del coraggio era nella sabbia smossa.


Ferìan la notte fasci di splendore
dalle grandi pupille delle navi
162insonni; e la potenza delle prore

pareva entrar nei parapetti cavi
a rendere invincibili i tuoi pochi.
165In piedi tu, come sul ponte, stavi.

Tutta l’Oasi rossa era di fuochi
scroscianti. I cani urlavano alla morte.
168L’assalto era un inferno d’urli rochi.

La città senza spalti e senza porte
avea l’inespugnabile cintura:
171te, giovinezza, amore della sorte!

Ti canto, aurora; e la tua mano pura
come la rosa, piena di semente.
174Ti canto, eroe, per l’anima futura;

e la battaglia presso la sorgente.

  1. [p. 221 modifica]I tre compagni di Umberto Cagni nella spedizione polare partita con le slitte dalla baia di Teplitz la domenica 11 marzo 1900, rimasti con lui dopo il rinvio degli altri due gruppi, furono Giuseppe Petigax, Alessio Fenoillet, entrambi di Cormayeur, e il marinaio ligure Simone Canepa di Varazze. Espeditissimo fu il Cagni. Superò ogni altra conosciuta celerità sul ghiaccio dell’Oceano artico. Percorse seicento sette miglia in novanta cinque giorni. Fritjof Nansen faceva nel periodo migliore cinque miglia al giorno. Il nostro ne fece dieci. Il pensiero della celerità lo assillava di continuo. “La mancanza di luce prima, il freddo intenso poi, mi hanno impedito di oltrepassare e talvolta di raggiungere le otto ore di marcia. Vedo che i miei uomini in queste marce e nel lavoro d’accampamento, con tenacia di volontà ammirevole, dànno quanto possono dare nella massima misura. Ritengo che in queste condizioni sarebbe imprudente richiedere uno sforzo maggiore da essi. Ed ora il vento che soffia violento e la neve che ci involge ergeranno nuovi ostacoli al nostro cammino. Eppure ad ogni costo bisogna che questo sia più rapido! (domenica 18 marzo).„ Il 25 marzo, costretto a far senza guanti il lavoro improbo del riattare le slitte, vide formarsi una vescica “all’ [p. 222 modifica]estremità dell’indice della mano destra, già congelatasi due altre volte.„ “L’indice della mano destra mi tormenta continuamente da alcuni giorni, ma non lo scopro mai per timore d’infettarlo, e poiché a nulla ciò servirebbe, non avendo né tempo né modo di curarlo. Lo guarderò il giorno del ritorno (mercoledì 11 aprile.)„ Il lunedì 23 aprile egli doveva superare il termine raggiunto dallo Scandinavo. “Il ghiaccio cigolava da tutte le parti e si incavalcava, e rumoreggiando ergeva dighe: canali serpeggianti si aprivano e ove altri si richiudevano nuove dighe s’inalzavano. Mai avevo veduto il ghiaccio così vivo, così palpitante, così minaccioso. I cani intimoriti guaivano e si arrestavano; noi li spingevamo con la voce e affannosamente aiutavamo or una slitta, or l’altra.„ “Nei brevi riposi ci guardavamo sorridendo, ma nessuno parlava; forse ci pareva che la nostra voce dovesse rompere l’incantesimo che ci conduceva alla vittoria....„ Il dolore del dito lo tormentava sempre. Bisogna leggere nel Diario con quale atroce pazienza egli stesso operò il taglio della parte annerita. Per recidere l’ossicino sporgente, dolorosissimo, con un paio di forbici comuni, impiegò quasi due ore. “Canepa ad un certo momento non ha più resistito ed è scappato fuori della tenda nonostante il vento e la neve.„ Rinunziava a lavare la piaga col sublimato “per risparmiare tempo e petrolio.„ Come più crescevano gli stenti e gli impedimenti, più gli cresceva l’energia. “Mi sembra di avere una nuova grande energia fisica, conseguenza forse di quella morale potentemente eccitata dal pericolo, dalla lotta per la nostra conservazione e da un desiderio infinito che supera forse quello della vita: dal desiderio che tutte le nostre fatiche ed i nostri sacrificii non vadano perduti, che l’Italia sappia che i suoi figli dalla lotta secolare, nuova per essi, escono con onore.... „ [p. 223 modifica]Con ancor più veloce energia la spada di Bu-Meliana fu stretta, sul limite del Deserto libico, dal pugno cui mancava la falange congelata nel Deserto artico.

Note

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