< Mio figlio ferroviere
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II. Nestore o la macchina
I III

II.

NESTORE E LA MACCHINA.

Quando noi entrammo in guerra, mio figlio Nestore finiva il liceo. Aveva appena incominciato il suo primo anno di medicina che la sua classe fu chiamata sotto le armi. Nestore fu assegnato all’artiglieria e perciò diventò automobilista. Il nesso tra il cannone e l’automobile sfugge alla mia intelligenza antiquata e borghese. Gli chiesi se almeno nel suo autocarro trasportasse proiettili. No: per lo più trasportava grano, patate, tavole e pioli.

Fin da ragazzo egli è stato tanto sicuro di sè, tanto sagace e pronto a mutare tutto a vantaggio suo, e per queste qualità che io non ho mai possedute, sua madre l’ha sempre ammirato ed elogiato tanto che io devo confessare d’essermi sempre occupato poco di lui. Forse ho fatto male, prima di tutto perchè in qualche modo, a curarmene, avrei potuto correggerlo e mettergli in core un poco più di umanità, e poi perchè a seguirlo più assiduamente e attentamente avrei capito meglio, da vicino, il sorgere e il formarsi della nuova società che Nestore rappresenta, se non sbaglio, alla perfezione. Ma costretto dalla mia professione a correre tutto il dì la città e il sobborgo, affidandomi pel resto a mia moglie, sentendo sempre più questo distacco tra mio figlio e me, e d’altra parte sempre più convincendomi che Nestore con la sua ingegnosa destrezza si difendeva meglio che coi miei vecchi consigli, non mi posso in verità dar troppa colpa. E poi il carattere e la condotta d’un uomo dipendono da certe native incapacità che l’educazione non può guarire; e ad obbligare, per esempio, chi nasce stonato a studiar canto, si fa infelice lui e chi l’ascolta. Come uno stonato non sente e non gode l’armonia, così Nestore non aveva, e non ha, il minimo sentore delle buone qualità del suo prossimo. Non gliene importano che i difetti. E quando li ha scoperti e se li è fissati bene nella memoria per trarne profitto, sembra felicissimo, e il suo potere, se l’ha, lo adopera súbito a soddisfarli: a soddisfarli, cioè, dico io, a incoraggiarli. La quale cattiva abitudine, per essere giusti, non può essergli venuta proprio da me medico? Io, per dovere professionale di diagnosi, mi sono tutta la vita occupato a trovare súbito i difetti fisici dei miei clienti; ed egli s’occupa invece a trovare i difetti morali della gente che gli si avvicina. Ma tant’è: l’occhio di mio figlio corre alle debolezze ed ai vizii come corre il mio. Nestore cominciò presto a parlare e tardi a leggere. A otto anni, per quanti sforzi facessimo tutti, egli si degnava di leggere solo le inutili parole che gli uomini stampano a lettere majuscole. Era però un ragazzetto con gli occhi di pepe, sveglio, svelto e instancabile, tutto muscoli come un foxino, capace, mentre i suoi coetanei se ne restavano seduti ed assonnati sui banchi della scuola per sei e sette ore del giorno, d’inerpicarsi fino in cima alla collina petrosa che con la sua rocca domina questa città, e di tirare da lassù, con un furore d’assediato, per ore e ore, rinunciando anche a bere e a mangiare, sassate precise sui tetti, comignoli, persiane e anche vetri delle abitazioni sottoposte: tanto che gli abitanti venivano da noi a protestare, taluni recando in mano come Santo Stefano il sasso ricevuto, anche quando il povero Nestore era rimasto chiuso in casa per castigo o semplicemente perchè le due paja di calzoni che possedeva erano state ridotte tutte e due, durante quelle spedizioni, in polverosi brandelli. Questi giochi infantili anche audaci sarebbero, pel filosofo Spencer, il disinteressato inizio dell’arte. Purtroppo il disinteresse di Nestore durò poco, nè sboccò mai nell’arte. Non aveva dodici anni che, per calmare le ire di sua madre tutta occupata a spazzolarlo e a rammendarlo quando egli tornava dal suo libero tiro a segno, Nestore cominciò alla stagione buona a portarle delle grandi cartate di fiori di capperi ancóra in boccio, colti sulle vecchie mura della rocca. Con due soldi, e senza il pericolo di rompersi la testa, se ne poteva allora comprare il doppio, al mercato: ma a Giacinta, massaja e madre impietosita, quei capperi sembravano un tesoro di bontà e d’economia. Nè all’industria di Nestore bastò quel poco raccolto. Un giorno la madre gli trovò in tasca venti lire, e gliele sequestrò. Tornò dopo qualche giorno a frugarlo: gliene trovò altre venti. Nestore si confessò senza fatica, anzi con orgoglio. La rocca sulla collina, dietro due o tre cortine di mura antiche e nuove, grige di pietra o bianche di calce, era allora un reclusorio. Con la sua davidica abilità di fromboliere Nestore riusciva, nascosto dietro certi spuntoni di roccia, a scagliare di là dalla seconda e terza muraglia del reclusorio, legate a un sasso, lettere e biglietti che erano destinate ai reclusi e che donne e uomini appostati lontano gli consegnavano con precise indicazioni del luogo e dell’ora più opportuna pel lancio. E si faceva pagare un buon tiro anche cinque lire: come chi dicesse oggi cinquanta. Gli spiegai severamente l’orrore morale di ajutare così ladri ed assassini. Nestore mi rispose che non li conosceva nemmeno di vista, e i biglietti che aveva lanciati, non li aveva mai letti. Era presente la madre, pronta, s’intende, appena aveva udito la mia voce salire alla spietata severità, a cercare un modo per salvare di Nestore almeno l’onore: — Tu non capisci che Nestore l’ha fatto per buon cuore. Ha fatto male, ma per buon cuore. Le obiettai le quaranta lire e le alte tariffe da lui imposte. — Ma questi danari li ha presi perchè glieli hanno dati, per forza. Se non glieli davano, non li prendeva. Nestore ascoltava tranquillo e distratto, con quello sguardo ripiegato in dentro che hanno i ragazzi quando ascoltano pazientemente i grandi discutere di loro senza capirli. E io più m’angosciavo perchè vedevo Nestore magari condotto a scapaccioni alla sezione dei carabinieri o, peggio, preso di mira dal fucile di qualche sentinella. Glielo dissi per sperimentare le sanzioni penali dopo quelle morali. Alzò la testa, mi piantò in faccia i suoi occhietti di pepe, gli vidi balenare tra occhi e bocca per la prima volta quel sorriso di rispettosa compassione che poi, ahimè, m’ha fulminato tante altre volte, e: — I carabinieri e le sentinelle non vedono mai niente, – Nestore sentenziò. Aveva (me ne accorgo adesso nell’estate del 1920) giudicato il Governo e lo Stato. Ed era in età di anni dodici. Devo aggiungere che, almeno a notizia mia, Nestore non si prestò più a fare da postino agli amici e parenti degli ergastolani. Ma una domenica mattina lo vidi tornare con sua madre dalla messa vestito d’un bell’abito alla marinara di panno turchino, in testa un berretto sul cui nastro lessi stampate a lettere d’oro Duilio. Giacinta lo aveva vestito così con le quaranta lire ch’egli s’era, diremo, guadagnate, e gli aveva posto in fronte addirittura il nome d’un console romano vincitore dei Cartaginesi. Che potevo fare? Conoscevo il bilancio domestico: e tacqui. Del resto quell’anno Nestore riuscì finalmente a sgusciare in ginnasio. Ma fin dal primo mese le sue pagelle segnarono temperature polari: zero, due, tre, e non solo in condotta. Cercavo d’accendere l’orgoglio di Nestore: – È possibile che un ragazzo intelligente come te, ecc. ecc? Guarda Guido, guarda Carlo: sono dei cretini rispetto a te, eppure riescono ad avere sette, otto, dieci anche in latino, ecc. ecc. – Nestore non contrastava: taceva e studiava i compagni e i professori invece dei libri. E ne cercava le fessure con l’attenzione con cui l’anno prima le cercava sulle mura della rocca per ficcarci una mano, poi un piede, e arrivare a cogliere i capperi. Un giorno infatti mi rispose netto: – Guido ha sempre dieci perchè il padre regala il vino al professore. Carlo ha sempre otto perchè la madre è la sarta della moglie del preside.... – E Giacinta, pronta a seguirlo: – Cerca di sapere chi è il medico del preside. – Puntuale, due giorni dopo Nestore riferì che il preside e sua moglie erano senza medico. Il preside frequentava il Circolo Umberto di cui ero socio anche io e dove andavo, e vado, di sera a leggere i giornali. Disperato, provai ad avvicinarlo; e prima dagli amici, poi da lui stesso, seppi che per buona fortuna egli aveva una moglie malazzata, anemica, dispeptica ed infedele. Non che l’infedeltà sia propriamente una malattia che possano guarire i medici, specie quelli della mia età e indifferenza; ma il preside, un biondino calvo sui quaranta, era psicologo, si vantava d’essere psicologo, scriveva di psicologia e narrava d’essere in corrispondenza con non so quali psicologi americani modernissimi ed illustrissimi i quali come lui sostenevano che l’anima, specie delle donne, si guarisce facilmente curando il corpo. Perciò era sereno quando mi parlava degli errori di sua moglie e, presosi di molta stima per me, m’assicurava scientificamente che, se io la guarivo dell’anemia e della malattia di stomaco, ella certamente sarebbe stata súbito guarita anche della sua infedeltà, con un vantaggio evidente, almeno per quanto tocca l’uomo morale, di lui marito. Il preside restò tre anni nella nostra città; io per tre anni curai meglio che potei l’anemia e la dispepsia di sua moglie; sua moglie ebbe, tanto come dispeptica quanto come infedele, degli alti e bassi, oso dire, che più rendevano convinto quello psicologo della bontà della sua teoria; egli non mi pagò mai nemmeno una visita: ma per compenso in quei tre anni mio figlio, tra esami ordinarii e di riparazione, estivi, autunnali e primaverili, riuscì con quell’ajuto onnipotente a liberarsi dal ginnasio inferiore. Io ricorderò finchè viva, con riconoscenza ed ammirazione, quello psicologo indomabile. L’andavo a trovare per suo espresso desiderio verso sera quando avevo finito il giro delle mie visite e il declinare del giorno induce gli uomini stanchi alla mansuetudine. Ma sua moglie era sempre in ritardo: io e tutta la città sapevamo perchè ella era in ritardo. Arrivava stanca distratta profumata ed ansante, gli occhi larghi, i pomelli rossi, le labbra umide; qualche asola dei suoi stivaletti non aveva fatto in tempo a ritrovare il suo bottone, qualche uncinello della veste o della blusa, forse per protesta davanti al cattivo esempio, non aveva voluto ritrovare il suo occhiello. E il marito improvvisamente dispotico, voleva che io súbito, là per là, la interrogassi, visitassi ed auscultassi: – Le ascolti il cuore. Cara, apriti un poco la blusa. – E puntuale, poichè il pranzo si avvicinava, egli stesso le faceva cadere nel bicchiere le gocce di noce vomica, e gliele somministrava accigliato, come un giustiziere la cicuta. Intanto egli m’aveva procurato la clientela di quasi tutti gl’insegnanti di ginnasio e di liceo, così che, anche quando egli partì, Nestore non rimase senza appoggi benevolenti. Qualcuno pagava ma io, s’intende, trovavo tutti i modi possibili per non farmi pagare almeno dagl’insegnanti della classe frequentata da Nestore. Ve n’erano purtroppo d’una sanità implacabile. Mi ricorderò sempre d’un professore di matematica che aveva bocciato Nestore per due anni di séguito. Un giorno mi vidi arrivare in farmacia Nestore, trafelato e raggiante: – Presto, papà. La figlia del professore di matematica s’è slogato un braccio. Son venuti a chiamare il professore mentre era in classe e io gli ho promesso di condurgli te dentro cinque minuti. T’aspetta, t’accompagno io. – M’accompagnò difatti, rimisi a posto e ingessai religiosamente il braccio della figlia. E Nestore passò anche in matematica. Mia moglie che alla mia scienza e professione non soleva attribuire gran pregio perchè di fatto non ci procurava, oltre lo stipendio del Comune, molto danaro, commentava: – In fondo, queste promozioni di Nestore costano meno a noi che alla signora Elvira la quale per amore di suo figlio fa da sarta, povera donna, alle mogli e figlie di tre insegnanti. – Ma aveva la gentilezza di non fare questi commenti alla presenza di Nestore. Nestore, le ore che aveva libere da quel suo po’ di scuola, le dava in quelli anni alla meccanica: intendo a quella meccanica pratica e spicciola che va dalla bicicletta alla motocicletta. Io allora non m’impensierivo a veder Nestore limare, tornire, lustrare, ungere ruote, telai, assi, fusi, molle, sfere, e perdere ore e ore a bilicarli e congegnarli. Credevo che fosse una mania passeggera come pei giovanetti dei miei tempi era stata quella dei francobolli usati o delle farfalle con lo spillo. Nè m’avvicinavo troppo a lui quando in una stanzuccia oscura e ragnosa che sta a terreno davanti alla porta della cantina e che puzza d’aceto, di vino e di mosto secondo le stagioni, egli s’affaticava in quell’opere per me misteriose. Non m’avvicinavo appunto perchè di meccanica io, con quasi tutti quelli della mia generazione, non ho mai capito niente, e non volevo offrire a Nestore altre occasioni di vantare la sua pratica contro la mia ignoranza. Ma adesso penso che molti malanni del secolo derivano appunto da questa universale mania per la meccanica e da questa onnipotenza di essa nella nostra vita quotidiana, così che senza un elettricista a portata di mano noi si resta all’oscuro e senza un manovratore sul tranvai noi si resta a piedi. Ai tempi del lume ad olio e della candela, del cavallo e del mulo, ogni uomo era padrone di sè. Nè il cervello è tanto libero dalle nostre mani e piedi che la schiavitù di questi non leghi e mortifichi anche quello. Da quando i meccanici sono diventati il manico della società, anche la nostra intelligenza s’è fatta meccanica, per forza, e i poeti che si sono messi a cantare le meraviglie della macchina a vapore e del motore a scoppio, sono come i cortigiani d’una volta che cantavano le prodigiose gesta dei loro padroni, perchè la loro vita, mangiare, vestirsi e dormire, dipendevano da essi e non c’era scampo. Venite all’ombra dei bei gigli d’oro.... I gigli d’oro ora sono leve d’acciaio, ma la schiena del poeta si dà alle stesse flessioni. Soltanto, dall’ombra dei Gigli d’oro e dell’Aquila imperiale e delle Somme Chiavi sfuggiva facilmente chi cercava pace e niente altro. La meccanica invece oggi ti toglie, se vuole, la luce, il moto, le vesti, il cibo, e al più ti lascia solo la libertà di dormire a digiuno. E come allora i cortigiani si studiavano d’imitare nelle vesti e nella favella, nei gesti e nei pensieri, nei gusti e negli amori il monarca, così oggi tutti si fanno più che possono, dentro e fuori, meccanici. E Nestore in quello stambugio davanti alla cantina seguiva il secolo, e non tanto aggiustava un congegno quanto accomodava sè stesso ai suoi tempi. Ma io allora non me ne accorgevo. Solo mi sentivo anche in quest’angolo di provincia stringere e soffocare da questo macchinario universale sempre più vasto, preciso, vicino, implacabile. E la guerra, mi parve che ci dovesse liberare anche da questo tiranno o almeno dovesse allentarne la potenza, rimettendo d’un colpo in onore gli eroi e i santi i quali sconvolgono il mondo e lo riformano e lo governano con la potenza sola dell’intelligenza o dell’esempio. E Nestore, come ho detto, aspettavo che diventasse un eroe, modesto ma sincero. Il pericolo, il dovere, l’emulazione, i disagi, la fusione d’ogni egoismo nella fiamma del sacrificio, ecc. Tornò a casa a salutarci prima di partire per Udine. E, ahimè, era già automobilista. Alla prima licenza s’era già imparato a mente le seguenti frasi: – Questa guerra non si sarebbe fatta senza il motore a scoppio. Il motore a scoppio è il re della guerra. Vincerà chi avrà più motori. – E in testa sul berretto e al braccio sulla manica recava l’immagine schematica d’una macchina che pareva d’oro. La croce dei nuovi crociati. Ma quel che disse e fece durante la guerra, era niente. Te l’ho detto, lettore mio. Io mi cullavo allora nell’illusione che il gran miracolo la guerra non poteva farlo súbito; che il miracolo l’avrebbe fatto la vittoria; tutt’al più l’avrebbe fatto, dopo il cataclisma, la pace ritrovata. Invece nella primavera del 1919 Nestore ci tornò a casa col suo congedo. Lo vedo come se mi stesse davanti adesso. Era vestito di saja blu, con una camicia di lana nera e una cravatta nera a fiocco. — Devo ripartire dopodomani, – m’annunciò quando l’ebbi abbracciato e baciato. — Per andare dove? — A Torino, alla scuola macchinisti. — Che macchinisti? — Babbo, ho scelto la mia professione. Io faccio il ferroviere. — Che cosa? — Il ferroviere. Lo sai, babbo: io sono socialista. E prese dal vasetto di fiori che era in mezzo alla tavola apparecchiata, un garofano rosso, e se lo mise all’occhiello. L’abito era nuovo, l’asola stretta. Sua madre l’ajutò; poi si tolse di sul seno una spilla e gli appuntò nel rovescio del risvolto, il gambo del fiore, delicatamente.

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