< Miranda
Questo testo è stato riletto e controllato.
Il libro d'Enrico. - Parte prima
La Lettera Il libro d'Enrico. - Parte seconda




IL LIBRO D’ENRICO


PARTE PRIMA





I.


iranda, dolce nome.


Ella sedea
Sul picciolo sedile a piè degli olmi,
Qual se le Grazie ve l’avesser posta.
Mio zio parlava del buon tempo antico;
5Era scura la sera; io la guardai.
Larghe e rade sentimmo in quel momento
Goccie cader di piova repentina;
Ella surse la prima, io dopo tutti.



II.



Quando senza parlar prima incontrai
10Gli occhi di lei, li vidi grandi e belli.
Il cor balzommi la seconda volta;
Ma quella sera mi si fece oscuro
Tutto all’intorno, di terror tremante
Vidi salir negli occhi grandi un altro
15Mondo ed un’altra vita, in fondo in fondo
Un’anima ho veduto veramente;
Qui la pupilla mia da sè si chiuse.



III.



Venni a baciar nell’erba l’orme tue.
Non si doleano i fior dove passasti;
20A destra e a manca lievemente chini,
Ivan di te a’ compagni susurrando.
Dicevano il color degli occhi tuoi,
Dicean delle tue vesti la fragranza.
Molle di piova ritornai, m’han detto.



IV.



25Rassomigliano invan le tue parole
I ghiacci di quei monti ad orïente,
Poichè il tuo sguardo rassomiglia il sole,
Quando gl’incendia tutti da ponente.



V.



Tra i sassi a’ piedi della sua finestra
30Mite reseda odora. Allor ch’io giro
Il canto della casa, la fragranza
Mi fa balzar il cor, e, s’è di notte
Buia, mi fa veder come alla luna
Il muro, il gelsomin, l’alta finestra.



VI.



35Sull’acque furïose del torrente
Passavano d’abete ignudi tronchi.
Come un genio talor dentro mi spira,
Degli abeti parlai, della montana
Fonte che all’ombra lor forse discese
40Dalle grotte natie. Dagli altri ottenni
Facile plauso; muta ella rimase.
Sdegnosa forse. Mai non mi favella
De’ versi miei, nè sola una parola
Ebbi da lei di lode. Ah, se per gioco
45In me volgevi le pupille brune.
Se di me ti vuoi rider, se non m’ami.
Mi amerai, piangerai, ti struggerai!



VII.



Quando nei rai del giorno moribondi
Si fa silenzio intorno a te sul vago
50Ricamo china, e senza muover ciglio
Tu susurri una timida parola,
Sembra in alto la voce d’Arïele.



VIII.



Forse tu pensi che da’ labbri tuoi
Cadendo si dileguin le parole,
55Come a sommo di placide correnti
Ad una ad una
Si posan lievemente aride foglie,
E senza ombra nè segno
Fuggono mute sulla queta via.
60Invece in me discende
Ogni suon della tua voce soave,
Siccome cosa grave
Scende per acque immobili e profonde.
Presto al guardo s’asconde
65E nell’imo si posa.



IX.



Ella suonava il cembalo e le corde
Raccontavan l’affetto in lor favella
D’uno nell’ombra dietro a lei seduto.
T’ama, diceano tenere, sospira;
70Il cor, diceano gravi, gli si frange;
Volgiti a lui, seguivano scherzando;
Se t’ha compresa chiedigli, sorridi;
Sull’agitato sen gli piega il viso,
Finiano dolcemente, attendi e taci.
75Quindi sclamar pareano tutte quante.
Dicean di rotti accenti e di singhiozzi
Impeto fiero che ogni freno ha vinto,
Virili braccia intorno a lei serrate,
Lo scoppio di due cor, l’uno sull’altro.
80A quel modo suonar mai non l’intesi;
Quando levossi, nè lodarla osai.



X.



Siccome un prato sotto il sol che passa
Da nube a nube, ella si cangia in viso.
Semplice fanciulletta appar talora,
85Giovin donna talor grave, pensosa.
Pur ne’ capegli suoi tra bruni e biondi
Van folleggiando sole ed ombra insieme.



XI.



È mezzanotte, nè trovar quïete
Pòn le mie membra. Presso al suo ricamo
90Oggi rinvenni tra le sparse lane
Picciol libro dorato. Il nastro bianco
Era confitto a questo canto acceso
D’estrania musa. Il lampo d’uno sguardo
Me lo raccolse nella mente intero:

95«Quando più ferve intorno a me la danza,
Quand’alto il riso nei conviti suona,
L’anima mia, nella sua buia stanza.
Di te, di te, solo di te ragiona.
«Il dolor, la calunnia, i tradimenti
100M’appresti pur, lo sfido, amaro fato;
Esser potrà il mio cor ne’ suoi cimenti
Da te, da te, solo da te spezzato».

Miranda entrò in quel punto, ed una vampa
Le corse di rossor fino a’ capelli,
105Enrico, dunque le dirai che l’ami?


La fiammella del lume oscilla e nega:
«Soffri, poeta, ma rifiuta indegni
Ceppi di te che ad alto fato aspiri».
Io chino il capo, chiudo gli occhi, e penso
110Che nel mondo dei sogni esser vorria,
Sotto la luna andar con lei soletto,
Le sue mani sentir dentro le mie,
Parlar, parlar d’amor teneramente,
E le parole si portasse il vento.

115E se quel nastro a caso vi posava?
Su tutta è vana illusïon la mia?



XII.



Domani vado via.
Una pallida rosa
Guardavi pensierosa;
120Quale segreto mai
Nei petali celava?
Mesta, di te più assai,
La rosa ti guardava;
Qual segno arcano v’era
125Nella pupilla nera?
Domani vado via.



XIII.



Iersera ti lasciai
Col sorriso sul labbro,
Indi tutta la notte lagrimai.
130Or, a te accanto assiso.
Sento il tepor delle tue gote in viso,
E l’aura delle fini
Chiome odorose; il morbido
Tocco mi fa tremar della tua veste.
135Sogno è la vita vana;
Tu sei lontana.



XIV.



Mai tanto la città non fu deserta.
Gente non è che passa nelle vie;
Agli occhi miei son ombre, e lor favella
140M’è sconosciuta. Nel mio cor v’ha un mondo
Sì bello e grande, che ho quest’altro a sdegno.

Quando soletto seggo meditando
L’indocil verso e le sconvolte fila
De’ miei pensieri, m’affatico indarno;
145Presto m’esce di man la penna inerte.
Così, d’estate, allor che a mezzogiorno
Brucia il sole terribile, ogni cosa
Nella campagna squallida si tace.



XV.



Entrai stasera in chiesa. Sfolgoranti
150Ardeano i ceri dell’aitar maggiore,
Per le buie navate si spandea
Sovra la curva folla dei devoti
Trïonfante dell’organo la voce.
Colà, mentre ciascun pregava Iddio,
155Chiuse le ciglia, nel pensier di lei
Mi profondai. La musica solenne
Piena d’amor parevami e di pianto
A me solo parlar. Non ho pregato;
Da lungo tempo la preghiera ignoro.
160Ma pure, uscendo tra le turbe, ancora
Nell’anima ho sentito la dolcezza
Dei dì perduti, quando, pio fanciullo,
M’inebbriavo della fede ardente.



XVI.



Sino ad oggi il mio cor quant’era duro!
165Ed or dell’infelice che mendica,
Del misero augellin che non ha cibo,
Ognor mi prende una pietà profonda.



XVII.



Passano i giorni l’uno all’altro eguale,
Nè mi giunge di lei novella alcuna.
170Stamane al primo dì balzai dal letto
Per un furor che subito mi prese.
I miei libri afferrai cari e negletti;
Ad uno ad un gli apersi tutti e tutti
Gl’incominciai, ma legger non potei.
175Più non sentivo nei poeti antichi
Le delicate veneri dell’arte;
Il più grande poeta in petto io sento.



XVIII.



Dal bianco cielo discende la neve
Continua, lenta. M’era cara un tempo,
180Quando involvea degli alti suoi silenzii
L’acre lavoro dell’acceso ingegno;
Quando, la notte, dalle vie deserte,
Folle coorte di bizzarri amici,
Nel baglior dei teatri irrompevamo.
185Malinconicamente or guardo e sogno.
Sogno di molle primavera i primi
Languidi fiati e la campagna aperta.
Vita, vita! Desio persin la via
Umile, piana, tra le siepi ascosa,
190Se vi si vegga e vi si senta aprile.
Fuor da’ tepidi sassi il filo d’erba
Tremando al vento mi direbbe «anch’io».
Alle piante, alle nuvole, al sereno
Racconterei l’amore.
Ah, chi mi dona,
195Chi mi dona l’aprile? Oggi son triste.



XIX.



Da molto tempo non apersi il libro.
Tutto m’irrita, l’ozio ed il lavoro;
E, stanco, di posar non trovo loco.
Nell’inerte pensier richiamo a stento
200La sua voce, il suo sguardo, il suo sorriso.
T’amo, sì t’amo, ognor mi sei presente!

Stasera danno il Faust. Furbo dottore,
Si comperò coll’anima l’amore,
E poi gabbò l’inferno
205Che venduto gli avea merce rubata
Al Padre Eterno.

Ci andrò. Lo spirto mio sete ha di canti.



XX.



Quando piena d’amor l’anima, i sensi,
Voci e sospiri Margherita effonde
210Ai rai voluttüosi della luna.
Mi si abbuiò la vista e l’intelletto.

Mefistofele, ridi? Fatti frate,
La via del paradiso hai loro appresa.
Ed or che lenta sovra i muti amplessi
215Scende la tela, sovrumano un canto
Copre i susurri della folla, opprime
L’atroce ghigno del demonio e dice:
«Ah, godano l’amore, avranno il pianto;
Amar, soffrire, altro non è la vita».

220Uscii, m’immersi nella notte, errai
Per laberinti di solinghe vie.
Rapido andavo e dove non sapea.
A fianco, a tergo mi seguiano voci:
«Amor, mistero, chi sei tu, se d’ombre
225E di larve fantastiche t’appaghi?»

«Follia», mi susurravano, «follia
Di mente sciocca, vacüo profumo
Senza il liquor che nelle vene avvampa.»
Io fuggivo. Da splendide finestre
230Ecco balzar la melodia che folle
Pria sulle corde salta, indi sospira
Voluttüosa ad esse intorno e chiama
Margherita a danzar. Vieni, dicea,
Inèbbriati! Ristetti. Sulla soglia
235Dell’atrio illuminato un mazzolino
Giaceva. Lo raccolsi, ed in quel punto
Mi risovvenni d’un olezzo istesso,
Di Miranda, dei palpiti miei primi,
D’un fior che le donai là sotto gli olmi.
240Mi ritornò nell’anima la pace.



XXI.



Benchè rivesta il mondo primavera,
Pur mi sembra che tutto si scolori.
Come ritorna tacita una spiaggia,
Calati i flutti dell’alta marea,
245Così è fatto il mio cor muto e deserto.



XXII.



Come mai, come mai! Chi l’avria detto?

È ver ch’ell’ha due grandi occhi celesti,
È ver che sulla sua candida nuca
Folleggian vaghi ricciolini biondi,
250Che argentino è il suo riso e la sua voce
Tenera; che soventi ella mi guarda,
Che mi stringe la mano alla sua guisa;
Ma quest’oggi soltanto me n’avvidi.



XXIII.



Divengo io pazzo? Come splende il sole?
255Come ride la gente nella via?
E come questa lettera sì frale
È di ferro? Con ambe man mi stringo
Le tempie. È vero, splende il sole, allegra
Passa la gente nella via, la lettera
260È ben di ferro. Non potrebbe Iddio
Far che lo scritto non sia stato scritto.
 
«Miranda avrai, morrò felice, vieni,»
Scrive mio zio. La lettera mi posa
Davanti. L’una dopo l’altra ascolto
265L’ore suonar. Gridar vorrei: fermate!
No, no, no, mi rispondono.
Così!
Si annera il ciel di nuvole, da lunge
Romba il tuono ed un soffio repentino
Giunge stridendo, sbatte imposte e vetri.
270Fuori! Perchè nelle selvagge furie,
O Madre, e negli amor teco s’accende
Questa polve ch’è tua, pel dolce verso
Che di te canta, ispirami. Natura!


XXIV.



Lungo le case giallastre, squallide,
275Curvi fuggiano
I vïandanti;
Lampi infocavano
La via davanti;
Il vento a tergo m’urtava, urlavami:
280Avanti, avanti!
Siccome foglia che in alto balza,
Siccome flutto che spuma e s’alza,
Qual procellaria che slancia l’ale,
Tripudia e sale,
285Battea, batteva, di gioia torbida
Il cor gonfiavasi.
Avanti, avanti!
Fuor dalle mura!
Piangeano gli alberi,
290Rade, sonanti
Goccie cadeano;
Qua del poeta in fronte l’impeto
De’ tuoi vitali baci, Natura!

Pallido, anelo,
295Dai misti strepiti di terra e cielo
Gridar sentiami;
Libero, libero!
Liberi canti, liberi amori,
Tempeste, ardori,
300Fior dalla polvere,
Polve dai fiori,
Libero, libero!



XXV.



Scrissi, è finito. Pure il cor men dolse!
Ella era bella e gentil nome avea.
305Vorrà oblïar sì presto il primo amore?

Amar, cercar la donna che si sogna,
Delirare, oblïar, amare ancora!
Questa d’ogni alto spirto è qui la sorte.
Oggi Ofelia, Desdemona domani!
310Non sa l’ignobil volgo che ci accusa,
Qual divino fantasma ne tormenti.

È un altro amor che dentro a me matura.
Un foco ardente che m’inebbria i sensi,
Sogni non ha, non ha mestizie e brucia.



XXVI.



315Voluttüosa è la sua voce, arguta
La sua parola; ma se tace e ride,
Ella è tutta carezze, tutta riso,
Tutta malizie dai capelli folli
Della fronte al piedino irrequïeto.



XXVII.



320Dalle cortine opache un fioco lume
Si diffondea; levissima fragranza,
Qual d’un fior che passò, l’aria serbava;
Nè quasi udii sul morbido tappeto
Il picciol piè venir quand’ella apparve,
325Rosea nel volto, le cineree chiome
A tergo effuse sul velluto nero.
Nel toccar quella mano delicata
Che dalle bianche trine ignuda escìa,
Toccar mi parve l’ombre d’una volta,
330Quando, fanciullo, sulle carte oscure
Io vigilavo de’ poeti antichi,
E dalle smorte pagine sorgea,
Misteriosamente sorridendo.
Qualche fantasma di bellezza molle.
335Da quelle soglie mi partii com’ebbro.
All’onda della gente mi confusi
Per le vie più frequenti. Camminavo
Con la test’alta e rapido. Lo sfarzo

De’ sfolgoranti fondachi, il possente
340Muggito della folla, degli arditi
Cavalier l’alterezza e delle dame
In fondo a’ cocchi fulgidi supine,
Tutto era polve per l’orgoglio mio.

Mio zio mi scrive irato acerbe cose,
345E rivedermi nega ov’io non muti
Pensier. Mutar pensiero? Adesso è tardi.



XXVIII.



Bambino, invêr la luna
Agitavo le mani picciolette,
E chiedea, chiedea l’ale
350Per salir dalla cuna
A disfiorar con elle il vago argento.
Fanciul negletto, oscuro,
Talora un acre foco mi struggea
Per le ebbrezze del mondo e gli splendori.
355Ed or l’ali mi sento,
Ed or, mondo, sei mio.
Col fascino del verso
Ti traggo; a me la gloria, a me gli amori!



XXIX.



Dentro la nera terra in Orïente
360Chiudono i rai del sol, future gemme.
O libro, qui ti chiudo; a’ di venturi
Nelle tue brevi pagine raggiante
Vo’ ritrovar la giovinezza mia.



Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.