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IL LIBRO DI MIRANDA
- Queste candide pagine a Miranda
- Dona la mamma, perchè l’ore liete
- Ella vi segni de’ suoi di venturi.
Che stamane trovai tra vecchie carte.
Povera mamma, solo i fiori ha presi.
Ora liete? Non so; quando verranno?
5E da questo libretto rinserrato
Per tanto tempo esce un odor si triste!
Già non l’amai perchè fosse poeta;
Povero, breve è l’intelletto mio.
Io cerco dentro a me, penso e ripenso.
10L’amai, null’altro. Non m’ha conosciuta.
Ei maggior che non sono mi credea.
Quando mi amava, quante cose amava!
I suoi libri, la musica, le stelle,
I fiori, le montagne; ed io, lui solo.
15Quanto è il suo cor più grande!
II.
Mamma, è vero,
Dolci parole non so dirti mai.
Se m’avesse sposata, io le serbavo
Per lui. Di baci son mie labbra avare,
20Ma le mani ogni sera, ogni mattina
Io baciate gli avrei, tutti i momenti,
Se l’avesse concesso. Ed or morranno
In me sepolti i baci, le parole.
Sovente a quindici anni mi sentivo,
25La sera, tanto triste, che piangevo.
Il perchè non sapea; l’intendo adesso.
III.
Da quel di ch’ei mi scrisse ora il quart’anno
Corre ed è giunto al terzo mese. Ieri
Mi par quel giorno. Pure non avrei
Prima forse potuto in questo libro
Venir notando i tristi miei pensieri.
E se fosse peccato amar sì forte?
Ah no, Signore, che non è peccato,
Perchè ad esso resister non potrei,
E Voi, Signore giusto, nol vorreste.
Scriver mi giova. Chi m’avesse un tempo
Predetto ch’io terrei, come son use
Donne d’ingegno e di saver fornite,
Un libro di pensieri e di ricordi,
M’avria fatto sorridere. Davvero
Non ho mutato solo in questo. Adesso
Tante cose comprendo un giorno oscure,
Più non aggiungo fede alle parole
Come una volta, ch’è amarezza grande.
Soffro; stanotte il cor non mi diè pace.
Tacqui sinor; ma lo potrò domani?
IV.
Fui per morire; me l’han detto poi.
Soffrivo assai, ma non credea morire.
Fosse un presagio lieto? Folle, folle!
La mamma sempre spia, povera donna,
Se in me si desta una vita novella,
Se colla febbre mi passò l’amore.
Ha si fine intelletto e non comprende!
Ella in que’ primi di chiedeami sempre:
«Che t’ha mai detto?» «Nulla,» io rispondea.
Un dì soggiunse: «Come mai se tanto.....
Speravi» disse, e dir volea «se amavi».
Donne v’han dunque al mondo che aman poco
Per poco tempo?
Tolsemi que’ fiori.
Se, come i fiori, il cor s’inaridisse!
Oggi, uscendo in carrozza, allor che a dritta
Piegarono i cavalli, ella guardommi
A discoprir se mi venia sul viso
Un’ombra di rammarico, un desio
Di volgere alla via già prediletta.
Quello sguardo sentii come un oltraggio.
V.
Madre mia, madre mia, quella parola
M’ha ferita qui dentro. Al viso il sangue
M’è corso. In faccia mia nessun s’attenti
Offenderlo; rispetto nè paura
Non conosco in quel punto. A lui fedele
Sarà l’anima mia sino alla morte.
S’egli mi amava, pur nol disse mai.
Tranne quando lasciommi. Abbandonarmi
Dovea, più in alto Iddio lo chiama; è giusto.
Mia madre mi guardava, mi guardava,
Qual se non fossi più la figlia sua.
VI.
Morì all’Adele il primo fidanzato,
Ed ora è sposa ancor. Lieta novella
Credeano darmi; il cor mi si gelava.
Questo è il mondo. Ed a me poi lo racconta!
VII.
Mi fanno intender con parole oscure
Ch’ei s’è gittato alla cattiva via.
Mentiron forse; ma, se fosse vero.
Per lui, Signor, Vi prego. Signor buono.
Ei sulla terra è solo, è giovinetto.
Non so qual’è questa cattiva via;
Ma, se talor di Voi non si ricorda.
Signor, siate pietoso più del mondo
Maligno e delle donnicciuole stolte
Che vanno giudicando in Vostro nome.
VIII.
Povero buon dottor, com’è mutato!
Scherzava meco gli anni andati e spesso
Godeva udir da me musica antica.
Or la musica più non lo rallegra,
Bench’io gaia la scelgo. Ei triste accanto
Mi siede e, quando sono giunta al fine,
Tace, la man mi stringe e s’accomiata.
Certo una volta mi piacea vederlo;
Adesso l’amo come il padre mio.
IX.
Pareami un tempo barbara favella
La musica tedesca. Or, se talvolta
N’apro a caso i volumi e tento il suono,
Entrar mi sembra in una chiesa ignota,
Di cui né fin si vede né principio;
Vi si sente pregar con tante voci,
E di tutta la gente inginocchiata
Si vedono i reconditi pensieri.
Penna, che scrivi tu? Non ti ricordi
Da qual’umile man guidata sei?
Talvolta questa musica, com’io,
D’una cosa favella e un’altra pensa.
Egli l’amava e mi diceva un giorno,
Sulle note scherzando e sui colori,
Ch’è appunto del color degli occhi miei.
X.
Oggi lungo il torrente andavo sola.
Vedevo incontro a me, sull’altra sponda,
Agitarsi le piante e batter forte
Le foglie al vento; i falciator vedea
Parlar tra loro, e solo udivo il rombo
De’ cavalloni. Gli è come un pensiero
Forte così che tutti gli altri opprime;
Come il mio. Mi fermai; parve in brev’ora
S’accordassero il fiume e la mia mente.
Passavan foglie secche, frondi, spume
E gran tronchi d’abete. Io lo vedea
Ancor sul negro scoglio, a cui percote
Il flutto. Egli dicea: «Questa nascente
Acqua ombreggiâr gli abeti ch’ella or volve.
Presso le nubi è la sua fonte in qualche
Silenzïoso dorso di montagna.
Si amavano l’abete e la sorgente;
Ma venne un giorno il boscaiuol coll’ascia,
E recise dal piè la mite pianta.
Il ruscelletto susurrolle: «Addio,
Ci rivedremo.» Allora la montagna
A sé chiamò le nuvole dal mare;
La fonte a sé chiamò dalle vallate
Le sue sorelle candide, discese
Giuso nel fondo, l’infelice amico
Trovò, raccolse a sé romoreggiando
Tra la gioia e la collera; ma triste
A lei disse l’abete: — Omai non giova.
A ber, diletta, il tuo pietoso umore
Non ho radici più, non ho più foglie
A ber l’aria vitale, i rai del sole. —
L’acqua lo porta e intorno ad esso piange.»
Così parlar di rado usava e tosto,
Di sé ridendo, a semplici parole
Solea tornar. Talor non l’intendevo;
Ma dagli occhi di lui, dalla sua voce
Un’ignota malia mi affascinava.
Mi suonan sempre le parole meste:
«Non ho radici più, non ho più foglie
A ber l’aria vitale, i rai del sole».
S’egli tornasse e dirgli sospirando
Dovessi: «Ormai non giova, non ho vita!»
XI.
Onde vengono mai certi pensieri?
Leggea poc’anzi un libro di preghiere,
E balenommi dentro la domanda:
Perchè vivo? Lasciai cader il libro.
Perchè vivo? Qual fine ha l’ozïosa
Mia vita? Pianger? Non per questo Iddio
Me la diede. Anche l’ombra d’una nube,
Che un istante ricrea l’arsa verzura,
Inutile non passa. Ed io? Per lei
Vivrò che mi ama tanto e per coloro
Che soffrono.
Non basta, anima mia.
XII.
Io pregherò per lui. Sulla montagna,
Là in mezzo ai boschi, v’ha una cappelletta
Col lumicino giorno e notte acceso
Che per noi prega e non si vede mai.
Come fa il lumicin della montagna,
Io notte e giorno pregherò per lui.
Perdè la madre fanciulletto, e forse
La sua fede vacilla, nè sovente
Al Signore s’innalza il suo pensiero.
Pregherò, pregherò; ma il lumicino
Olio riceve dalle donne pie
Che van per legna e fieno. Ah, se una volta
Sola sapessi che nella profonda
Notte destossi e mi sentì pregare!
Tormentando ti vai senza riposo;
Dillo, misero cor, tu speri ancora,
Viver tu vuoi per palpitargli appresso.
XIII.
Da due mesi non piove. Stamattina
Andaron tutti su alla cappelletta
Della montagna. Anch’io vi andai. Bambini
V’erano e vecchi. Parte sul sentiero,
Parte s’inginocchiò sotto i castagni,
E pregarono insieme ad alta voce.
Erano gravi gli uomini e compunti;
I fanciulli sperdeansi per le selve
A cercarvi le fragole, ed alcune
Giovinette chinavansi pregando,
Cogliean ciclami e li metteano in seno.
Signor, dissi in cor mio, fateli paghi,
Chiedon si poco! In quel momento istesso
Mi susurrò una vecchierella: «Preghi,
Preghi, signora, lei ch’è tanto buona».
Un rimorso provai. Povera gente,
Chieggon la vita. Poveri fanciulli,
Povere giovanetto spensierate,
Se vivono la fragola ed il fiore,
Se hanno gaio color, mite fragranza,
Creder non pônno che si serbi ad essi
La fame. Si partirono in silenzio;
Solo a piè della Vergine rimase
Un mazzolin di rose. I fiori offerti
Da’ poveretti mi commovon tanto!
Per me volea pregar, non ho potuto.
XIV.
Poeta; che vuol dir? Uno che studia
Parole ornate a’ sentimenti suoi.
Indi alla gente gridali. Per questo
No, non l’amai. Se vana la speranza
Non è del tutto che mi torna e fugge
Ad ora ad ora, se mai venga il giorno
Ch’io gli appartenga, deh, non metta in versi
Mai l’amor suo, ma dicalo a me sola,
Chino all’orecchio mio me lo susurri,
Cerchi allor le parole più soavi,
E quando più non ne ritrovi alcuna.
Ch’io senta lievi lievi i suoi capelli
Sfiorar i miei! Non v’ha maggior dolcezza
Di questa, che a pensarla mi spaventa.
XV.
Qui nella biblioteca seggo e scrivo.
Come ogni sito della nostra casa
Ha la propria fragranza! Si potria
Bendarmi gli occhi, tuttavia saprei
Sempre in qual parte d’essa mi ritrovo.
Quest’odor, sia di libri o di scaffali,
Che sa di solitudine e di pace,
M’è caro. Né altro sito mi ricorda.
Come questo, mio padre. Egli che amava
Tanto i poeti, ne dovè raccôrre
Molti qui dentro e de’ migliori. Or voglio
Leggerli. Poco li intendevo un tempo;
Mestier non era intenderli; soltanto
Ammirarli dovevo e li ammirai,
Siccome agli altri piacque, docilmente.
Le lodi e ’l tedio ne rammento appena.
XVI.
Ho letto la Tempesta. Avevo udito
Tante volte che trassene mio padre
Il nome mio; ma il libro era vietato.
Né il divieto pesavami; non fui
Giammai lettrice molto assidua. Ieri
Lo scorsi dentro il piccolo scaffale
Dei libri da mio padre prediletti.
I vent’anni ho varcati, ed ora è come
Ne avessi il doppio. Il libro non mi piacque;
Bizzarre fantasie mi son discare.
Né somigliar cred’io quella Miranda
Tanto loquace, quando è solo amante
Di Ferdinando e muta quando è sposa.
E come mai le restan core ed occhi
Per ammirar sì forte Alonso e gli altri?
Diverso nome por mi si dovea.
XVII.
Trovai dentro il volume il mio ritratto.
Ero bambina. Lo sgabello ancora
Chiaro si vede ov’io sedea. Del viso
Resta un’ombra lontana e sorridente.
Certo mio padre m’era presso: «Guarda,
Miranda,» mi dicea, «guarda là dentro
A quel lucido vetro,» ed io guardai.
Ho visto male, povera piccina.
Poichè tanto contenta sorridea.
Vedea davanti a me gaia la vita.
Ingannar un bambino, amara cosa!
Signor, Signor, Voi siete giusto e santo.
Benedico il dolor che vien da Voi.
XVIII.
Ritrosa e bionda al par di Margherita.
Da due giorni il volume or lascio, or tolgo.
Noi comprendo, mi turba e mi fa male;
Non so come. Il mio cor per Margherita
Batte ed insieme ne rifugge. Sento
Che mai così non amerei, ma pure
Ch’ell’ama tanto. Quando pensa o prega,
Sorella, vorrei dir, sorella mia!
Quando gli parla, no, no, no!
Mi sembra
Scendere adagio per ignota via,
Bendati gli occhi, e sentir l’aria fredda
D’un precipizio. Libro, ti depongo.
XIX.
M’ama, non m’ama. Senza uccider fiori,
Dirmi così da tutto l’universo
Ascolto sempre e dal mio core istesso;
Starò a veder su qual dei due si ferma.
No, non domando al fior. Se il fior sapesse,
Gli chiederei soltanto s’è felice.
Ma il fior l’ignora, e chi potrebbe dirlo
Mi niega per pietà questo conforto.
Un pensier mi ferisce. E se il poeta
S’accendesse d’amor per le soavi
Figure ch’egli crea! Strano pensiero!
Davver di questi non ne avevo un tempo.
XX.
Tenevo il viso tra le palme ascoso.
Star con lui mi pareva, essergli unita
Da lungo tempo, ed ei mi domandava
Di quegli anni lontani amari tanto.
Io tutto tutto gli dicevo. Alfine
Tolsi le man dal viso, e nello specchio
Guardai se i miei capelli erano bianchi.
XXI.
Non son ita coll’altre al Camposanto.
Mamma nol volle. Dalla mia finestra
Vidi passar la gente sulla via
Di là dai prati. Si sentiano i canti;
E dopo, che silenzio! Udii cadere
Una foglia, l’udii posarsi a terra.
È strano adesso come intendo i suoni.
XXII.
Stanotte m’hanno desta le campane
Che al tempo andato né vegliando udivo.
Nel destarmi gridai: «chi batte?» e stetti
Senz’alitar. Nessuno. Udivo il rombo
Lontan delle campane. Chi batteva
Era il mio cor; batteva forte forte.
Mi passò un lampo nella mente; è desso,
L’amico mio che torna, il mal di core.
Un’orma lieve dietro l’uscio intesi;
Mia madre certo; il grido avrà sentito.
Presto s’allontanò. Tra me pensai:
Adesso ella dirà: «sognava e dorme».
Tanto amara pietà di lei mi vinse,
Che non per me, ma sol per essa ho pianto.
Poi mi riprese il sonno; alla mattina
Tranquilla mi destai.
Mi son guardata
Nello specchio; v’ha in fondo agli occhi miei
Come una fiamma che non v’era prima,
Ed il viso più pallido s’è fatto.
Mi starebbero bene il bruno e il bianco.
S’egli talvolta col pensier mi vede!
Esser bella vorrei pel suo pensiero.
XXIII.
Splende il sole nel limpido sereno,
Ma v’ha la neve a’ monti azzurri in cima.
Si vedono le case da lontano
Nella campagna. Vien l’inverno; l’amo.
XXIV.
Dunque si parte. Povero paese,
Sei troppo rude. Resta negli acerbi
Venti della montagna e porta il manto
Silenzioso e triste della neve.
Io son malata d’amore e di core,
Vado via. Nello strepito del mondo,
Sotto un cielo che ride eternamente,
Non so, vicino al mare che sfavilla,
Quello è il mio sito, povero paese.
Così vuole il dottor, così mia madre.
Tal sia, ma verrai meco, o libriccino,
Benché sarà men facile celarti.
XXV.
Visitai la Lucia. Povera donna,
Sul gramo letticciuolo era seduta;
La nipotina le filava accanto.
Mi disse che una volta ero più bella,
Che non le piaccio punto; né potei
A meno di sorrider, quando aggiunse
Che non ero vestita da contessa.
Ed ella non ha panni da coprirsi!
XXVI.
Domattina. I bauli accatastati
Son già sulla carrozza. Oggi un viavai
Perpetüo di gente. A congedarsi
Vennero tutti. A me parole allegre,
Ed alla mamma mia brevi susurri,
Mute strette di man. Tace la casa
Finalmente, ed anch’essi i mesti arredi
Dormon di tele candide ravvolti.
Io non posso dormir. Ho acceso il lume,
E scrivo ad ingannar l’ore sì lunghe.
Piove. Com’è della notturna piova
Tenero il mormorio! Parmi che il tetto
Pianga dirotto d’ogni parte e dica:
«Resta qui». Andare o star mi torna uguale.
Veggo davanti a me una grazïosa
Veste succinta, un cappellin piumato,
Ninnoli e borse. Fossi ancor bambina,
Quale allegrezza e quanti peccatucci
Di vanità! Rammento che, una volta,
Sol del cuojo di Russia la fragranza,
Diffondendosi intorno alla vigilia
Delle partenze, il cor m’inebbriava.
Or guardo quella veste e quegli arnesi;
Miei mi paiono insieme e d’una morta.
Sento battere l’ore all’orologio
Della scala. Le conto; mezzanotte.
Se andrò lontana, se della mia casa
Mi punga desiderio ed al ritorno
Non mi reggan le membra, avrò conforto
Forse da questa pagina, ove noto
Le ricordanze estreme. Odo, scrivendo,
Ire e redire il pendolo. Ineguale
Quel battito l’orecchio mi percote.
Or più vibrato ed ora più sommesso.
Ei ci leggeva certi versi un giorno
Di straniero poeta. È un orologio
Che «sempre e mai» ripete, «sempre e mai» .
Questo non è così tranquillo e grave;
Ma soffre, pensa, e subite paure
Sente dell’ora che lo dee far muto.
Le imposte apersi. Un vento caldo spira,
Tace la piova, strepita il torrente,
Sempre più dense fannosi le nubi.
Vado a letto. Vorrei dormir, sognare;
Vorrei sognar che tutto questo è un sogno.
XXVII.
Sono stanca. Dal bruno davanzale
Guardando sto d’una finestra antica
Silenzïoso un fiume, vie deserte,
Ed il dolce color di questo cielo
Tanto clemente, qualche passo ascolto
Suonar di sotto, qualche voce ignota.
Stordita ancor del battito veemente
Che mi portò per piani e per montagne,
Mi credo d’esser morta e qui deposta
In un mondo di spiriti. La stella
Che al mio paese spunta nell’azzurro
Dell’alto cielo fra due cime oscure,
Pende qui sui vapor dell’orizzonte
Tinto di verde pallido e di rosa.
Laggiù, dicono, è il mar. Dunque la mia
Stella romita è fatta una regina
Che a’ piedi trae lo strascico d’argento.
Anch’ella m’è straniera. O mio pensiero,
Compagno eterno, tu sei meco e basti.
XXVIII.
Sul prato discendemmo di carrozza.
Una capra pascea tranquillamente
Lì presso; altra non v’era anima viva.
Levati gli occhi, diventai di pietra;
Indi fui per cader sulle ginocchia
A mani giunte, come se davanti
La gloria del Signor mi risplendesse.
Alfine sui gradin del Battistero
M’assisi e piansi, poiché adesso al pianto
Son pronta. Mi sentivo a Dio vicina
Veramente. Sentivo la mia fede
E le preghiere mie vive in quei marmi;
Solo guardando mi parea pregare.
Qualche profonda musica talvolta
Mi fé’ un senso provar che rassomiglia
Questo, ma pur men subitano e forte.
E, strana cosa, da quell’ora intendo
Meglio di prima che vuol dir «poeta».
XXIX.
Di questo illustre medico m’annoia
Non la man che s’attarda a polsi miei,
Ma lo sguardo che l’anima mi fruga.
Uno sguardo possente, freddo, acuto.
Sorridendo mi disse: «Una malata
Che non mi guarda! A voi non è mestieri
Davver, come a tant’altri, palpitando
L’occhio spiar del medico e la fronte.»
XXX.
Più quello sguardo scrutator non vidi.
Ma ci venite troppo, e troppo allegro
Siete, dottor, con queste donne tristi,
E troppo poco del mio mal parlate.
Conobbi le sue figlie. Accarezzârmi
Con tenerezza d’amicizia antica.
Sognar credevo. L’una e l’altra a gara
Mi confidaron tosto i lor segreti.
Scherzando mi parlavano e ridendo
D’innamorati e litigavan, quasi,
Per dir tra due qual è più bello in volto.
Altro non sanno, chè dalla finestra
Li hanno visti soltanto e nella via.
Di vesti mi parlarono, d’amiche
Nobili e ricche, d’infinita gente
Che in casa lor la sera si raccoglie.
Della carrozza d’una zia marchesa
Che va con lor tre volte l’anno al corso.
Or sorrido scrivendone; sgomento
Provavo allora che sapesser tutto
Di me dal padre lor; a lui narrato
Certo l’avrà la madre mia, pensavo.
Nulla sanno. Ch’ei stesso non sapesse?
Nè colle figlie il padre nè le figlie
Meco avrebber taciuto, stimerei.
Non gli uscì certo sillaba di bocca
Le tante volte che da solo a sola
M’ha veduta. Signor, questo sarebbe
Un sacrificio grande, le ferite
Dell’anima si care e dolorose
Ascoltarsi tentar da chi vorria
Con arte di cerusico sanarle!
XXXI.
Mi han condotta al teatro. Era festevole
La musica, brillavano le dame
Di gioielli, di fiori, di sorrisi,
E ridiceano le mie due compagne
Parole uguali a gente che mutava
Sempre, e pur sempre mi parea la stessa,
A me venia de’ monti miei, de’ prati
Solitarii, de’ vecchi olmi fedeli
Una indicibil tenerezza in mente.
XXXII.
Il nome, il nome che giammai non passa
Da’ labbri miei, l’ho visto! Lentamente
S’andava per la via. Volgo lo sguardo,
Per caso o per istinto, a una vetrina,
Veggo tra molti rosëi volumi:
Versi di..... Allora il core! Gran ventura
Fu che del mio pallor non s’avvedesse
La madre mia, ma il disperato sforzo,
Che fei per trarmi sino a casa, espio.
Che importa? Voglio il libro. Ardo d’averlo
Nelle mie mani, qui. Cos’è la vita?
XXXIII.
Mi coricai. Sotto il guancial posava
II libro. Entrò la madre mia, baciommi,
Tolsemi il lume, inconsapevol forse,
Ed uscì pria che osassi dir parola.
Lungo tempo sentii nella vicina
Stanza andare e venir l’orme leggiere
Di lei; tacquero alfine. Lungo tempo
Vidi brillar dell’uscio la fessura;
Finalmente oscurossi. Palpitando,
Immobile aspettai. D’un ebbro il canto.
Un rombo impetüoso di veloci
Ròte suonava nella via deserta,
Di quando in quando. A tesi orecchi allora
Stavo a spïar ogni leggiero moto
Della giacente, che a’ rumor seguisse.
Nulla più intesi alfine: ella dormia.
Scesi dal letto, ad ogni piè sospinto
Ristando ed ascoltando; piano piano
Con infinito studio chiusi l’uscio,
Indi apersi le imposte. Alta la luna
Nell’azzurro del cielo vïaggiava.
Pregai, chiesi perdono a Dio clemente,
Se quello ch’io facevo era una colpa.
Non so di che mi avviluppai, mi posi
A seder presso i vetri. Avidamente
Lessi. Suonavan via di torre in torre,
Ad una ad una l’ore della notte,
E suonar mi pareano ogni momento;
Allor leggea con angosciosa lena.
Eran pitture d’un paese ignoto.
Dove i monti ed il mar, la luna, il sole.
Ogni pietra, ogni fior vive, favella,
Scherza e sorride, s’innamora e piange,
Tutte le voci arrivano al poeta.
Leggendo sola al lume della luna.
Mi parea veramente esser portata
In un mondo d’incanti, e lievi lievi
Susurri udivo teneri, dolenti.
Nell’aere intorno, negli argentei rai.
Pure fra tanto amor, fra tanta vita,
Talor sentivo un freddo ed un ribrezzo,
Un istinto di trepida paura,
Come al toccar di qualche cosa morta.
Giunsi a quel canto ch’egli volge a Dio:
Io, vile effimera;
Tu sei l’Eterno.
Me cape un atomo,
Te cielo e inferno.
Mi sento polvere
Nel mio contento:
Jehovah, se lacrimo,
Fango mi sento.
Che v’ha, magnanimo,
Tra noi? Risale
Gli abissi taciti
Prece mortale?
Follie! Nel turbine
Che la travolve,
Dei fati immemore
Danzi la polve.
Gli occhi levai da questi versi in alto.
Il ciel mi parea cupo, e gl’infiniti
Astri lucenti mi parean severi;
Non so quanto rimasi a contemplarli.
Ripresi il libro. Di dolor, d’amore
Seguivano leggende in parte oscure
All’intelletto mio. Da tante larve,
Dai mister della notte, dai terrori
Onde ad ogni susurro trasalia,
Ero turbata. Già sull’orizzonte
Pendea la luna, impallidiva il cielo,
Echeggiava la via di qualche passo
Frettoloso. Indugiavansi socchiusi
Sulle pagine smorte gli occhi miei,
E il pensier mollemente, pien d’oblio,
S’effondea da quei sogni ad altri sogni.
Oh, mi destai.
Scriver non posso, è troppa
Del ricordar l’angoscia. E pur mi curva
Su queste carte sconosciuto impero
Ogni giorno più forte.
Inconscia quasi.
Una pagina volsi. Eravi scritto
«Feste d’amore». Salgono al mio viso
Le fiamme del rossor; la mano trema.
Era come un pugnale ogni parola,
Ed io mi dibattea sotto i pugnali.
Per chi, per chi? Non sono donne, ei mente.
Non sono donne! Dio, ma in questo mondo
Quale vergogna, qual viltà si cela?
Di superbia peccai la prima volta;
Levai la fronte fieramente ed alta
Più ch’esprimer si possa mi sentii;
Sin l’orgoglio provai della bellezza,
L’orgoglio del mio sangue e del mio nome.
Indi tutto mancò, il dolor, l’orgoglio,
La vita e sul sedil m’arrovesciai.
Quando rinvenni, mi trovai nel buio.
S’era ascosa la luna, avevo freddo;
Mi posi a letto.
Era il volere inerte
E pur come da sé, come del sangue
Irresistibil moto, e core e mente
Mi veniva un proposito occupando:
Offrir la vita misera all’Eterno,
Perchè gli sia clemente. Avea le membra
Fievoli sì, che mi parean sospese
A sommo quasi d’un aereo letto;
E tanta pace dentro, che, le braccia
Incrociate sul sen, m’addormentai.
Accetta, o Dio, quest’anima, recidi
La giovinezza mia sin che del mondo
Sente alcun dolce, sin che la speranza,
Quale tenace un’erba della via.
Non vuol morir, benché ferita, oppressa.
Se nell’angoscia delle lotte estreme
Questo debole cor vivere implori,
Il grido della polvere disdegna.
Ch’io noi vegga più mai, che di Miranda
Egli ponga in oblio sembianza e nome.
Sol mia madre mi pianga e le fanciulle
Del mio paese. Sia, dopo la morte.
Di me quel che a Te piace. Oh, Dio pietoso,
Ma ch’egli creda in Te, ch’egli T’adori,
Che gli risplenda la tua gloria in fronte!
XXXIV.
Addio, mesta città. Come una stilla
Di questo fiume tacito, passai
Per le tue mura. Vado al mare anch’io,
Ma non si presto troverò riposo.
XXXV.
Or mi sarebbe grave ogni dimora.
Fui col dottore al solitario campo
De’ monumenti. Al mar scendeva il sole,
Ed infocava in alto tutte quante
Quelle montagne candide di marmo.
«Lassù guardate,» sclamò il vecchio «il sole
Precipita dal ciel come un eroe
Che, quando cade sotto il fato, accende
Di sè l’anime grandi, e mutuo sdegno
Dalla plebe codarda lo divide.»
«In questi marmi è l’anima» diss’io,
«D’un poeta.» «Non l’anima,» rispose,
«La fantasia. Di rado s’accompagna
Dell’arte il magistero a spirto eletto,
A proba vita. Dal miglior cammino
Torce i poeti fantasia, nè il mondo
Li frena, mite giudice. Nell’alto
Lor canto, e forse nel pensier talvolta.
Un vago amore, un’indistinta idea
Del ben si effonde e di gentili sensi
Forme ideali. Tra le nubi vive
Di lor la miglior parte e l’altro a terra.
Vi movo a sdegno, povera fanciulla;
Lo so, non arrossite. Un vecchio parla,
Che forse mai non rivedrete. I libri
Miei non aveano il farmaco migliore
Per voi, l’oblio. Dimenticate! Amore
V’inganna. Quando il sole alto risplende
Sull’orizzonte, di giojelli e d’oro
Par che ogni gora putrida sfavilli.
Quanto indegno di voi,..»
Qui lo interruppi.
Quando tornammo a casa, ci guardava
Ambo la madre mia. Forse ella stessa?......
Mi potrebbe evitar questi dolori.
XXXVI.
Ho raccolto sul lido una conchiglia.
Se all’orecchio l’appresso, udir mi sembra
Un lontano fragor. Là dove l’onda
Dell’oceano ruggì, forse rimane
Perpetua l’eco. Quando sulle arene
Seggo in silenzio, al par della conchiglia,
Spoglia vacua di vita pur son io,
Cui suona dentro senza posa un’eco.
XXXVII.
Egli adora l’oceano. L’àer molle
Ne canta, la tempesta e la bonaccia,
Le mille voci dal susurro all’urlo.
Immaginar gli sconfinati flutti
Qual persona non so, cui si favelli
E che risponda. Sento Iddio nel mare,
Un terribile Iddio che ad altri parla,
Non a me. Pur quant’è profondo senso!
Gl’ispirerebbe altre parole. Intesi
Dir che il suo verso odora di marina,
Quando la pinge. Non saria più grande
Prodigio udirvi del Signor la voce?
XXXVIII.
Lasciai mia madre sotto i pini e sola
Escii sul lido aperto. Gigantesche
Nubi occupavan d’ogni parte il cielo;
Era livido il mar. Una lontana
Vela fuggir guardavo all’orizzonte.
Povera lieve pellegrina, or forse
La travolgono i turbini, ed il nero
Flutto su lei vittorioso esclama.
Qualcuno errava sulla spiaggia. Accanto
Venne lenta a passarmi e ripassarmi,
Sdegnando il vento che torceale a’ fianchi
La bizzarra eleganza delle vesti.
Giovinetta bellissima. Sovente
L’avea veduta a Pisa, e per gli sguardi
Sapevam di conoscerci. In quel punto
Mi lesse il cor negli occhi lagrimosi.
Stette, la mano porsemi e con voce,
Che tra i clamor’del mar dolce suonava,
In inglese mi disse: «Per amore?»
«Si,» le risposi. Se straniera e tanto
Ella non m’era, non avrei risposto.
Misteri. In volto lampeggiò d’un riso,
Udendo il suon della natia favella
Dalle mie labbra. Indi soggiunse: «Amica
Mi vorreste?» Qual fascino spirava
Dalla persona grazïosa ed alta,
Dagli occhi scintillanti! Or Diana ed io
Siamo amiche. D’affetti repentini
Schiva qual son, come avvenisse ignoro
Che tanto docil mi piegassi a questo.
Così è strano veder le madri nostre
Seguirci assieme per la via, parlarsi
Qualchevolta, comprendersi giammai.
XXXIX.
«Un poeta!» diss’ella. «Qual ventura
Averlo amato, amarlo ancor, sebbene
Egli non t’ami più! Guardami, Neve
(Così mi chiama ognor quando s’adira),
Tu Inglese esser dovresti ed io d’Italia.
Son laggiù figlie della nebbia, io forse
Dell’oceano, Un poeta! Ei mi amerebbe
Tuttavia; sol discioglierti tu sai.
Eppur t’invidio. Innanzi che ancorarsi
Sopra uno stagno putrido, perire
In mar, discender sopra i fior dell’alghe
Fantastiche, le perle ed i coralli!
Sai che m’attende? Certo un baronetto
Orribilmente placido, assennato
Che vorrà farmi de’ sermoni. Oh caro,
Ma ci divideremo! A ritrovarti
Verrò, ti comporrò col tuo poeta.
Sorrideresti! Neve, tu mi geli!»
Quindi mi cinse colle braccia il collo.
«S’io fossi un uom t’adorerei!» Dal mare
Nacque davver. Se un’anima può mai
Rassomigliarsi all’onda capricciosa
Che muta di colore ogni momento.
Sorge, si piega, si lamenta, ride
E tutta sino al fondo si rivela,
Ell’è questa bizzarra anima inglese.
XL.
Deh! perchè la conobbi? Come mai
Troppo da me disforme non l’intesi?
Pure mi dice il cor che solo adesso
Incomincio ad amarla; ed ogni anello
È spezzato tra noi. Tranquillamente
A dir mi venne che gli avrebbe scritto.
Quando negli occhi videmi lo sdegno,
Si morse il labbro. «Non dovea svelarti»
Diss’ella «il mio disegno. Ora ho fermato
Di compierlo.» Pregai, la supplicai;
Piegar non volle. A mezzo le preghiere
Dal cor mi ruppe collera veemente.
M’ascoltò stupefatta. «Neve, Neve,
Eri tu dunque sovra l’Etna assisa?»
Poi dell’ombrello coll’eburnea punta
Segnò una retta. «Questa è la mia via.
Gli scriverò,» seguì con ferma voce,
«Gli vo’ parlar come una donna inglese
E nobile parlar può all’universo.
Gli dirò, se lo vuoi, che m’hai per questo
Detto con poca tenerezza addio.»
«No, non basta,» gridai, «Diana, più altera
Di te son io, benché in Italia nata.»
«Addio,» diss’ella. Più non la rividi.
Che ne potrà pensar? Che far poss’io?
XLI.
Ancora! Io mi credea ritrovar presto
La mia casa deserta. Almen l’estrema
Prova fosse! Dal mare alle montagne
Mendicar questa vita prezïosa!
All’aer molle chiesi aiuto indarno,
Or ch’io mi volga all’aëre pungente.
Una stilla di vita nell’oceano
Per me non era, ed or ch’io salga l’alpe,
E trovi una sottil fonte che geme
Timidamente da segrete roccie.
XLII.
Freddo, silenzio, un mar di nebbia in alto,
Tra la nebbia qua e là boscaglie nere.
Fianchi nevosi di montagne immani;
Campanelle di capre nella via.
Un sentimento strano mi governa;
L’ultima età del mondo mi par giunta.
Occupa il fronte de’ giganti alpini
Un’austera vecchiezza in gravi assorta
Pensier’ di Dio. Trascorsero da secoli
Gli splendor, le follie del mar, dei colli;
Persino il sole si oscurò. Sommesso
Vorrei parlar come si parla in chiesa.
XLIII.
Stasera invece tutto è gaio. Il sole
Brilla sui ghiacci e sulle rupi eccelse,
Sulle selve d’abeti e, giù nell’imo,
Sui prati di smeraldo, sulle azzurre
Acque della Moesa e sulla greggia
Delle candide case al fiume accolte.
La brezza odora di recente piova.
Anche qui regni, o giovinezza. Oh quanto
Bella mi sembri ancora e quanto regni
Nel mio core! Giammai nessun paese
Mi parlò tanto all’anima, giammai
Con tanto foco l’anima rispose.
Come ritrar saprebbe la sua penna
Queste scene si grandi! Io, taciturna
Fanciulla che cammino al par d’un’ombra
Fra tanta gente allegra, un prepotente
Bisogno sento di parlar con esse.
XLIV.
Ho ben agio di farlo. In sulle prime,
Qualcun volgeami la parola. Appena
Rispondevo; nessun più mi si appressa.
Da lontano mi guardano e susurrano,
Poco benigni forse. O nella stanza
Io passo l’ore, o per sentier deserti.
Sin dove il cor malato mel consente.
La madre mia tentò di quando in quando
Conversar co’ vicini, ella sì timida,
E cercarmi amicizie. Or m’accompagna
Silenzïosa per boscaglie e prati,
E, quand’io salgo qua, move alla chiesa.
Sol colla gente povera, talvolta,
A ragionar si ferma nella via.
XLV.
Sereno. Par che l’aria stessa brilli.
Contemplo dal balcone la chiesuola
Accovacciata sovra un dorso erboso
Col piccioletto campanile accanto,
In mezzo a’ fior’. Teme la neve e ’l vento;
Pur non s’appiatta, nè altro schermo invoca,
Che la propria umiltà. Povera chiesa.
Finalmente, vedrai, sossopra andarne
Ti toccherà. Non basta esser piccini.
Se la fede, l’amor ci porta in alto.
Il vento qui non ha mai posa. Io soffro,
Ma nol dico alla mamma. Se le membra
Son travagliate, cresce del pensiero
Qui la potenza e neppur esso ha posa.
Quattr’anni son che l’intelletto mio
Si trasforma; giammai rapidamente
Come adesso. Se al mondo lo narrassi,
Nol crederebbe. Cresce in me del paro
D’ogni senso l’acume; il tocco lieve
Talor d’un filo d’erba m’addolora.
XLVI.
Anche qui dentro nella chiusa stanza,
Sento sin nelle viscere l’aroma
Degli abeti. Dovunque il guardo io volgo
Dalle finestre, nereggiar li vedo
A selve, a gruppi, or densi ora dispersi.
Come s’aman gli abeti! Cupi, austeri,
Drizzano al ciel la folla delle punte,
Né l’un vêr l’altro piegansi giammai.
Ma giù sotterra le radici snelle
Si cercano, s’abbraccian, s’avviticchiano
Con mille modi insieme avidamente.
Era un giorno così. Noi vivevamo
L’un presso all’altro. Gelido fu il viso,
Gelide e rade furon le parole;
Ma per mille reconditi pensieri
Non detti mai, compresi, eran congiunte
Le nostre vite. Voi felici, abeti!
Dentro convalli occulte senza nome
Dove sole non penetra, protesi
Sulle cascate candide, sublimi
Sulle torri scoscese ove non giunge
Nemico piede, voi felici, abeti!
Vivervi oscuri e solitarî accanto
Non vi pesa, nè tentanvi altri sogni,
Sotto la neve, che del sol venturo.
Son commossa. Vorrei di qua levarmi.
Non posso. Come mai da questa penna
Escon si nòvi ed infocati accenti?
Pensa egli forse a me, passa nel mio
Spirito un soffio dell’arder che ispira
I suoi canti? O saria l’amor soltanto.
Quest’amor di cui muoio, che attraverso
Le selve e le montagne a sè costringe
Parte di lui? Mio Dio, pietà, ho paura!
XLVII.
Ti ringrazio. Signore, a mani giunte;
Tornò la mente lucida e tranquilla.
Un teatro quest’anima somiglia.
Alla splendor di mille fiamme ardenti,
Al sospiro di musica divina,
Vi recitan gli attori amaro dramma.
Son deserti i palchetti e la platea,
Regnan di fuori nella via le tenebre;
La gente passa e nulla ne sospetta.
XLVIII.
È questo un fiore d’arnica montana.
Chi l’ha cólto? Nol so. Chi mel donava?
Nol so. Era bella, giovane, felice.
Talor sorpresi i suoi grand’occhi azzurri
Contemplarmi tra mesti e curïosi;
Quindi pareva stringersi al suo sposo
Con più tenero affetto. Alla sorgente
Se, mattutine, mai c’incontravamo,
Vêr me chinava il suo viso gentile.
Non ci parlammo mai. Nè il mio dolore
Detto le avrei, nè forse avrebbe osato
Ella contarmi la sua gioia; ed ora
È partita. Passaron la montagna.
Pria di salir nella carrozza volse
La testa, presso videmi e mi porse
Semplicemente il fior che in mano avea.
Questo sito di prima è più deserto.
Addio. Chi sa? Nel grembo della pace
Eterna ancor ci rivedremo, e forse
Ricorderem quest’ora ed il sospiro
In cui, senza parlar, ci siam divise.
Triste pensiero affannami sovente;
Se, nell’entrar là dentro, si perdesse
Delle cose passate ogni memoria!
Liberami, Signore! Egli è, cred’io,
Uno spirto maligno che mi tenta
Sovra la Tua bontà, sulle promesse
D’allegrezza ventura.
A flutti a flutti
Folto nebbione dalla valle ascende,
Su noi si versa rapido, ci è sopra.
Scriver non posso, mancami la luce.
XLIX.
Salivam tra la nebbia invér l’Ospizio.
Appena si vedean presso la via
I foschi abeti, si sentiano appena
Tintinnar i sonagli delle capre
Per le balze invisibili, e i torrenti
Nei burroni mugghiar. Di tante voci
Piene e nel manto della nebbia avvolte,
Grandi, solenni mi pareano l’Alpi
Oltre natura.
Questa gloria intendo
Degli uomini sdegnosa; ma la fama
Mondana, il culto dei piccini, abbassa,
O ch’io m’inganno, chi la va cercando.
Certo m’inganno, poiché l’altre donne
Nulla sopra la fama odo che accende.
Diana mel disse un di ch’ero di ghiaccio.
Mai vincer non credea l’eccelso varco
Ed oltre ad esso profondar lo sguardo.
Quel plumbeo lago tra un abisso e l’altro,
Le rive nere, quei macigni informi
Qua e là franati, quel sinistro cielo
E gli azzurri burron di Val di Reno,
M’hanno impresso nel cor tetro sconforto.
Giunta lassù, pareami esser guardata
Da tutti i monti curïosamente.
Non nacqui per le cime, amo le valli.
L.
Oggi al Campo de’ fior’ soave nome.
Sovra un abisso cupo, a nereggiante
Montagna in faccia, tremolano al vento
De’ miti fiorellini le miriadi.
Come fuggite là d’ogni montana
Balza falciata e päurose ancora.
Paion le vecchie piante e l’Alpi immani
Del lor timido riso innamorate.
Un falciator, m’han detto, sul recente
Fieno di questo prato addormentossi,
Or compie l’anno, e non rivide il sole.
Non so perchè, m’attrista degli uccisi
Fior la vendetta involontaria.
Il giorno
Moriva quando toccavam l’estremo
Orlo del monte, dove prati e boschi
Si versan d’ogni banda nella scura
Valle. Colà s’aggrappano al pendio
Due capannuccie piccole di pietra.
Ne uscîr bambini, gli odorosi offrendo
Fasci dell’iva e del lichene. Indarno
Si chiederebbe un frutto alla montagna;
Non dona che fragranze. Indarno vita
Le si domanda; ella non ha che sogni.
Pur quella strada candida, quel serpe
Che attorce in su le pazïenti spire,
Lo troncherei! Non più frutta di vita
Ha per me il mondo, sol qualche fragranza
Errabonda, fugace, qualche sogno.
LI.
E l’anima dei fior’della montagna,
Quanto dalla mollezza si diparte
De’ nostri! Son gli odor qui men soavi,
Ma vi si sente una purezza austera.
LII.
Piove. Ci scrivon che laggiù si brucia,
Che il gelsomino della mia finestra
È moribondo, rosseggianti i prati,
E che saliron jeri alla Madonna
Dei boschi. E qui la piova lenta, eguale,
Lava gli scogli, e le foreste nere
Rigan sottili rivoli d’argento.
Povero gelsomino! Il fior che a terra
Dimette tutti i petali e che piange
Colle pendule foglie, angoscia sente.
Misero, pur, benché non ha peccato.
Abbi fede, cor mio, credi che ascosa
Dietro a queste parvenze amare, ingiuste,
V’ha una Bontà segreta e sapïente.
LIII.
Odo le risa e il chiasso delle mense
Sonore. Allegri voi? Fuor dalle anguste
Mura fuggir vorrei, volar, posarmi
Sulla cima più libera, se basti
A quest’ardor selvaggio che m’esalta,
Sia vera gioia o sia, gran Dio, follia!
Era varcato il mezzogiorno appena;
Passeggiavamo lente tra la folla
E il ponte toccavam della Moesa,
Quando il cor mi die un balzo, folgorommi,
Come balen, per l’anima, più certa
D’occhio che miri, più di man che stringa,
duesta certezza: «ei pensa a me».
Ch’io il vegga
Scritto ancor una volta: «ei pensa a me».
Pensava a me in quel punto, a me, a me sola!
Esco in cerca di cielo e di silenzio.
LIV.
Mamma iersera, quando la baciai,
Si trasse indietro e mi guardò negli occhi.
Tacqui, povera mamma, e tacque anch’ella.
Perchè non posso effondermi? Ritrosa
Mi fé’ natura. Tarda d’intelletto.
Timida, schiva d’ogni gentilezza,
Mi credetter ne’ teneri anni miei
Forse più rude ch’io non fossi. Il core
Ferito in sé si chiuse, ed ogni gioia,
Ogni lieve dolor dentro serrato
Gli si costrinse, quasi marmo, intorno.
Lo sdegno sol d’escir trova la via.
Perchè lo sdegno e non l’amor, le accese
Parole e non le tenere? Misteri.
Più il cor mi cerco, più mi vi smarrisco.
Or umile mi credo ed or altera.
Cheta e grave fui sempre; e pure in fondo
Al petto un ferver di follia mi sale,
Quando penso: se mai!... Che son io dunque?
LV.
Temo l’ebbrezza e temo il ridestarsi.
Qual tra cespugli squallidi e tra scogli
Arsi dal sole, dentro un alto grembo
Della montagna, qualche fior non visto
Empie di mite odor gli ermi silenzii,
Nasconditi così, speranza mia,
In un angol dell’anima deserta.
Ch’io non ti vegga in viso e pur ti senta!
LVI.
Quando guardando sto senza pensiero
Dalla finestra, m’esce della mente
Talor tutto il passato, e pendo incerta
Dell’esser mio. Poi tornano in un lampo
E le dolci memorie e le dolenti;
Alfine è un trasalir da capo a piedi.
Di là mi tolgo e vado tra la gente.
LVII.
Si va sui prati morbidi, muscosi,
Dove senza romore il pié s’affonda;
Si va per molli dorsi e per segreti
Seni d’umili collinette brevi.
Sin che giù tra lo scuro degli abeti
Il tremolar d’azzurre onde si vede.
In verde anel di boschi e prati e colli
Brilla, qual gemma vivida, un laghetto.
Era il tramonto. In mezzo all’acque chiare
Si spogliava la neve delle cime
Infocate. La mano ancor mi trema
Scrivendo qui, mi salgono le lagrime
Prepotenti dal petto. Ecco, pensavo,
Ebbe la piova l’ora sua, concesso
Fu al vento d’ulular per le vallate,
E con aspetto di dominio eterno
Su noi le pigre nuvole sedêro.
Ove son esse? Brillan terra e cielo
Di pacato splendor, alla cadente
Luce Dio buono e grande si rivela.
Chètati, non pensarvi, anima mia.
Triste il ritorno fu per mozza selva
Nell’umid’ombre vespertine. Folta
Spandea su quelle povere radici
La pia rosa dell’alpe il cupo verde.
LVIII.
Addio, paese del silenzio, abeti
Religïosi! Nel partir mi sembra
Che dalla vita mia cada una foglia
Ancor vegeta e verde. Mi leggea
Forse nel cor l’attonita capretta.
Che testè da una balza mi guardava
Immobile. Quassù resta, lo sento.
Una parte di me.
Stetti sul ponte
Della Moesa un’ora. Un sassolino
Vi raccolsi a memoria. Addio, montagne.
LIX.
Eccomi ancora dentro le pareti
Della stanzetta mia. Dallo scrittoio
Aperto esce il sentor degli anni andati,
Qual d’appassiti fiori. Odo l’antico
Battito egual del pendolo ed il noto
Rumor de’ passi nella densa ghiaia
Sotto le mie finestre; odo muggire
Di tempo in tempo i buoi, chiocciar galline,
Pigolar sotto il portico i pulcini,
Pianger fanciulli ancor come il mattino
Della partenza. Nove mesi! Appena
Mi par vero. Ecco là tra un pioppo e l’altro.
Oltre i prati, la picciola casetta.
Adesso nel granturco accovacciata.
Che ognor mi guarda colle due finestre.
Pur qui dentro passò qualche gentile
Genio misterioso. Il vecchio cembalo
Cesse ad un altro di famoso nome,
E la mia stanza par l’aerea casa
D’un augel, tutta fiori e chiaro azzurro
Le pareti, il soffitto e le cortine.
Sol vi resta di prima lo scrittoio
E a capoletto l’angelo. Parecchi
Bei volumi dorati un’elegante
Scansia racchiude presso alla finestra.
Ieri, al nostro arrivar, non un fil d’erba
Era ne’ viali, nella casa intera
Non un granel di polvere. Domani
L’erba ritroverà l’antica via;
A quest’ora un sottil velo di polve
Adombra il cuoio nitido de’ libri.
Dev’essere il mio cor molto malato,
Se mi fa sospirar cosa si lieve.
Povera mamma!
LX.
Parvemi il dottore
Di molti anni invecchiato. Anch’io, se guardo
Chi mi guarda, comprendo che mutai.
Il bambin della Rosa in rivedermi
Non mi conobbe più. La madre sua
Sgridollo e disse: «Non ha ancor quattr’anni».
Ne ha più di cinque. Lo baciai, celando
Nel suo picciolo collo il mesto viso.
Più non mi restan che capelli ed occhi.
LXI.
Il gelsomin guarisce. In fondo in fondo
Aveva ancor non doma una sottile
Radichetta e suggeva un fil di vita,
Sin che la piova impetüosa giunse.
Or tutto rinverdisce e si distende.
Come alla mamma imbiancano i capelli!
Non s’alza più coll’alba, e lievemente
Par le si curvi l’esile persona.
Queste cose notando il cor mancommi.
LXII.
Coraggio! Un’altra vita ora s’imprende.
Stamane fummo in chiesa. Dodici anni
Or sono, in questo dì perdei mio padre.
Pregai, volli evocar quel caro viso
Dalle memorie mie lontane; chiusi
Gli occhi, mi parve nel suo sguardo aprirli.
E dicevami: pensa che l’amai
Più della vita, pensa che lontano
Io son da lei nei suoi cadenti giorni.
Ed ha solo il tuo seno ove si posi,
A mia madre mi volsi, la guardai.
Era seduta e come abbandonata
Nell’atto di chi prega e non ha speme,
E dona i suoi dolori a Dio severo.
Un pentimento amaro il cor mi morse.
Quella madre che timida m’adora,
La uccido per un sogno, una follia.
Tremavo tutta. Dio, come potei
Far questo? Perchè mai non ho tentato
Dimenticarlo? E, se noi posso, almeno
Perchè non premer questa rea memoria
Addentro sì nell’anima, che al tutto
La credessero estinta? Ho il cor malato.
Ma troppo delirar gli consentii.
Tornammo a casa, accompagnai la mamma
Nella sua stanza, le gettai tacendo
Le braccia in collo, ed abbiam pianto insieme.
Non so che dissi poi; so che comprese.
Ci visitar più tardi alcune amiche
Curïose di me. Mai non le accolsi
Con soverchia esultanza, è mio costume.
Oggi le festeggiai tanto, che mute
Qjuasi restârne. La lor madre udii
Che in segreto alla mia di me parlava
E sorrideva; ma tacea mia madre.
Uscimmo insieme. C’incontrò il dottore,
Mentre, ristrette all’orlo d’un fossato,
Folleggiando, ridendo, or l’una or l’altra
Il piè spingeva e ritraeval tosto
Dal periglioso ponticello. Aiuto
Egli ne porse. Non saprei dir come
M’abbia guardato, non saprei dir come
La man gli strinsi. Certo ci dir volea:
«Vi veggo allegra,» ed io risponder volli:
«Si, ma...» Non oso scriver la parola.
Piantò mio padre a piede d’un cipresso
Una glicine. Sin che bello e verde
Fu il cipresso, languì l’altra; ma quando
Gli andâr seccando lentamente i rami,
Su la glicine corsegli alla punta
In un baleno e lo copri di fiori.
LXIII.
Fummo a render la visita. Discendo
Or di carrozza, e le mie glorie scrivo.
Ho una leggiadra veste azzurra e bianca,
Alle orecchie due grandi anella d’oro,
Un bizzarro berretto di velluto
Colla penna cerulea.
Ancor son bella
Così col viso dal piacere acceso,
Dal sole e dalla febbre!
Era la villa
Zeppa di gente allegra. Una signora
D’ingenuo cor suonò söavemente
Musica grave. Parvemi che soli.
Dai lor vasi di bronzo e di cristallo,
Comprendesserla i fior tolti al giardino
Ed un ritratto alla parete appeso.
Poi pregarono me. Tremato avrei
Un tempo. Pronta al cembalo m’assisi;
Sovra le corde docili e possenti;
Strappai con foga amara una selvaggia
Tarantella di Napoli dagl’irti
Nodi e viluppi di tedesche note.
Mi scoppiò dalle man tutta a memoria,
Benché a lungo negletta. A poco a poco
Si spegneano i bisbigli, si scioglieano
I crocchi e, sin dagli usci, intenti volti
S’affisavano in me. Poi m’accerchiâro.
Le ornate lodi e i lusinghier sorrisi
Non mi turbar; mutai vita e natura.
Forte voler anche sul male impera;
Guarir mi sento. Di vigor crescente
Mi ferve il sangue, pur non chiusi ciglio
La notte scorsa, né da un giorno intero
Le labbra mi varcò cibo o bevanda.
LXIV.
Quale tramonto splendido! Vorrei,
Sole, seguirti, non aver mai posa
Nè il giorno nè la notte, gl’infocati
Deserti cavalcar, correr sui mari.
Oprare, oprar. Non lo conobbi mai
Quest’ardor ch’era in me. Consunto l’olio
Vile, un licor possente ora fiammeggia
Alla lucerna della vita mia.
Le forme ed i color’della natura
Guardai sinor con occhi sonnolenti.
Ogni cosa che or vedo, in cor la sento
E vi diventa viva. Il sito istesso,
Ove son nata, sembrami mutato.
Talor correndo la città di notte
In rapida carrozza, allor che passa
Il lampo dei fanali, per le case
Illuminate, per le vie fuggenti
Si getta un guardo e di sognar si crede.
Non si ravvisan più case nè vie;
Pare un altro paese, un altro mondo.
Simile un senso provo. Almen sapessi
Dove son, dove vado e chi mi porta!
LXV.
Sonagli di cavalli da lontano.
L’ora è tarda, le tenebre profonde,
E forse il carrettier dorme ubbriaco
Sul carro. Avanti! gemono i sonagli;
La strada è lunga, il peso è grave, avanti!
Non sonno e non riposo, avanti sempre!
Di giorno coi pennacchi e colle frondi,
Colle piastre lucenti onde superbi
Paion quei gran cavalli, anco i sonagli
Han voce allegra. Ed or come son tristi!
Addio, stanzetta mia. L’ultima volta
Passo la notte qui. Dissi alla mamma
Che dormirò con lei. Povera donna,
Piangea quasi di gioia e non volea.
LXVI.
Non potevam dormire. Cominciammo
A parlar della culla, ove bambina
Riposavo tra il letto e la parete.
La mente e le parole a poco a poco
Trapassar dalla culla alla bambina.
I miei motti infantili e gli atti e mille
Ombre segnate in fondo al cor materno
Da una stilla, da un atomo di polve
Passata riviveano. Via via
Vagavano la mente e le parole
Per quel tempo lontano a ricordanze
Languide in me, nitide in lei, di volti
Dileguati, d’affetti omai sopiti
Insieme ai cor’che accesero. Si dolce
Mai non mi parve come allor nel buio
La voce di mia madre. Ella parlommi
Della sua giovinezza. Mi dicea
Quasi timidamente i suoi pensieri.
La gioia di quegli anni, i lievi errori
E le memorie lungo tempo ascose.
Ero commossa. Quella voce ancora
Giovanile e l’accento ed una fine
Man delicata che la mia stringea,
Non mi parean di madre, ma d’amica.
Anch’io parlai. Le angoscie, le speranze.
Ogni pensier ond’è rimasa un’orma
In questo libro, dissi. Oh quanto gravi
Cose a pensarle mi pareano e quanto
A dirle eran meschine! Eppure il petto
Mi gonfiavan, n’uscivano a singulti,
Qual se tutto un oceano tempestoso
Mi salisse alla gola. Ora mi sento
Più tranquilla di pria, ma stanca, stanca.
LXVII.
Pagine care, non credea più mai
Segnarvi. Quale inverno! Dal mio letto
Ho guardato passar l’ultime foglie
Portate via dal vento di novembre.
Ho guardato cader muta la neve.
Mentre qualcuno si moveva intorno
A me senza rumore e favellava
Senza voce. Supina, tra le ciglia
Socchiuse, vidi pendermi sul volto
Un altro volto pallido ed ansioso,
Che poi, quand’io le apriva, sorridea.
Sentita ho l’ineffabile dolcezza
Della vita che torna. Attenüato
N’è forse il fil, ma tuttavia mi regge.
Riede la primavera. Ancora il pesco
Non mette fior, nè spuntano le foglie;
Pur l’aëre mutò, su per le spalle
Delle montagne si ritrae la neve,
Si vede nelle nubi nereggianti,
E nella piova tepida si sente
La novella stagione. Il figliuoletto
Della Rosa portommi le vïole.
A salutarmi vien tutto il paese;
Chi mi reca vïole e chi giuncata,
Chi vien colle castagne o colle pere.
Chi coll’erbe salubri. Altri mi conta
Le preghiere che sole ebber possanza
Di vincere il mio fato. Alla bambina
Del gastaldo l’altrier dissi: «Che hai
Tu da recarmi?» Ammutolì. Stamane
Venne lenta da me, colla sinistra
Mano celando il suo vermiglio viso;
Tenea nell’altra un ramo di cipresso.
Tolto l’avea dall’arco trïonfale
Che pel parroco nuovo han fatto in piazza.
M’ero offerta, Signor; non m’hai voluta.
LXVIII.
Stasera la campana vespertina
Suona più tardi. Non è triste adesso
Il venir della notte. Al di venturo
Meno breve, più tepido si pensa.
Odo parlar la gente che ritorna
Dai campi. Della piova e del sereno
Conversano. Chi guarda la montagna,
Chi ’l corso delle nuvole, chi spia
Il vol d’augelli altissimi ne’ cieli.
Conversar della piova e del sereno
E al cittadin dir nulla; se quest’erbe,
Se queste piante avessero idïoma.
Non saria d’altro il semplice sermone.
Perchè dal cor degli uomini e del volto
Così non s’indovinano i misteri
Di lor fortuna, l’allegrezza e ’l pianto
Dell’indomani? Come adesso l’aria
Tutta odora de’ fiori ancor non nati,
Perchè così non si presente il nostro
Tempo felice? I moti, i ciechi istinti
Del cor son vani?
È forse una malìa
Della dolce stagion di primavera.
Ogni zolla calpesta, ogni abborrito
Pruno da tutti fuor che da Natura,
Sente speranza nella madre pia.
Mette ogni pover’anima il suo verde.
LXIX.
Sognai che camminavo e camminavo
Per landa ignota al lume della luna.
Mi palpitava il cor pien di terrori
E d’angoscie. Qual era il mio cammino,
Quale la meta? Mi parea saperlo
E non poterlo dir. Allor che stava
Per fulger nella mente o per balzarmi
Dalla lingua il secreto, all’intelletto
Veniano meno ed al voler le corde.
Crucciata mi fermai, ma scôrsi ancora
La via fuggir sotto i miei piedi, e forte
Sentii ventarmi in viso. In quel silenzio
Allor tutto parlò. L’erbe, le pietre
Sfiorate dalle mie pendule vesti
Mormoravano: «A lui». Da mille occulte
Lingue nell’aria intorno a me veloci
Scoccavan le parole: «A lui, a lui,
A lui!» Vedea la via farsi piccina,
E l’orizzonte a’ fianchi smisurato;
Le membra come piuma erano lievi.
Di pria più grande mi parea la luna,
E abbrividir faceami il romor sordo
Delle vesti dal vento flagellate
Al par di vele. A’ piedi mi guardai;
V’eran flutti laggiù, v’era l’Oceano!
Allora il dubbio di sognar m’assalse.
No, pensai, non è sogno; odo il fragore
Del mare, e là nell’acqua ecco l’imago
Mia. Strana cosa Avea di Diana il volto.
Intanto un altro mar di nebbia folta
Tutta m’avvolse. Ad esso la persona
Come a morbido letto abbandonai.
Portavami ad ondate. A poco a poco
Per quel candido Oceano si diffuse
Un lieve color d’oro, in alto apparve
Pallido azzurro, e vidi là di fronte
Dalle nuvole uscir picchi di ghiaccio
Scintillanti nel sole, e farsi incontro
A me fantasmi torbidi, velati.
Ad un selvaggio fianco di montagna
La nebbia tra gli abeti mi posò.
M’arrampicai per l’erta rotta e scabra
Di sasso in sasso; ad un sinistro lago
In riva giunsi. Frettolosa incontro
La madre mia mi corse. «In brune vesti
Perchè venir?» mi disse. Non rammento
Che avvenne allor.
Nei vortici travolta
Di pazza tarantella mi trovai
Tra ignota onda di genti. Avevo il riso
Sul labbro, turbinavanmi d’intorno
Azzurri e bianchi veli, mi saltavano
I pendenti agli orecchi, ne’ capegli
I fiori, il cor nel seno. E pure umana
Lingua non può ridir quel ch’io soffria
Per una voce viva, irrequïeta.
Che in fondo alle mie viscere vagava,
Tra dolorosa e tenera parlando:
«Quando più ferve intorno a me la danza,
Quand’alto il riso nei conviti suona,
L’anima mia nella sua buia stanza,
Di te, di te, solo di te ragiona.»
Si trascorrea su ciottoli pungenti
Che i piè mi laceravano, e da’ piedi
Al cor mi säettavan doglie acute.
Toccar pareami un ponticel di legno,
Quando intesi chiamarmi. In un baleno
Sparvero tutti, ed io rimasi sola;
Ah no, non sola! Ed or, che Iddio mi tolga
La memoria!
LXX.
Pensier, dolce pensiero,
Mi metti orrore; ch’io t’opprima! Povero
Dottor! Darei la mia per la sua vita;
Sì, tosto la darei.
Trovommi sola.
Aperse il piano e m’invitò a sedervi;
D’allegra danza incominciai le note.
M’interruppe: «Non questo». Obbedïente
Trassi dai tasti i fragorosi accordi
D’un preludio di Thalberg. Surse in piedi;
«Non questo,» disse. Tra le sparse carte
Andò frugando, tolsene il volume
Del Pergolese, posemi davanti
Nina, la malinconica ballata:
Tre giovili son che Nina
A letto se ne sta.
Il sonno l’assassina,
Svegliatela per pietà.
Era, lo so, la mesta cantilena
Che dalla madre cara udia sovente
A’ dì lontani, e non gli escì del core.
Soave cosa, un vecchio afflitto e stanco
Pensar la madre sua.
Mentr’io suonavo.
Chiuse gli occhi e tremavangli le labbra
Lievemente. In silenzio indi rimase,
Sin che senza volerlo io ripetei
Sullo strumento il doloroso grido:
Svegliatemi Ninetta.
«Basta,» diss’egli, e con sicura mano
Volse le carte sino al canto estremo:
Quando corpus morietur.
Poi, quand’ebbi finito, alla finestra
Andò, stette guardando il cielo, i prati,
E sorridente mi tornò vicino.
«A settant’anni» disse «non è il tempo
Di partire così come fanciulli
Rapiti dal capriccio della morte.
A quest’ora, si sa, la diligenza
Passa di casa; pigliansi i fardelli,
Si scende cogli amici e, quando il rombo
Vien delle ruote, si dà un bacio a tutti;
Addio! Ma pur, Miranda, avrei sperato
Fine più dolce, e te vedere ed altri
Presso al mio letto allora. Compatisci
Questo povero vecchio che s’attrista,
Un momento il passato ripensando
Pria di tutto disporsi all’avvenire.»
S’empirono di pianto gli occhi miei;
La man gli porsi e domandai che avesse.
«E finito,» rispose, «ora men vado;
Otto giorni saran, dieci fors’anche.
Sentirete suonar la mia campana.
Addio! Miranda.» Volli dir che certo
Ei s’ingannava. «No,» riprese, «addio,
A salutarmi non verrete. Ascolta....»
Fermossi, e sotto voce indi soggiunse:
«Io non posso morir senza vederlo.»
Il cor balzommi. Egli movea le labbra
Senza dir verbo e fiso mi guardava.
Poi trasse un anellino e me lo diede.
«Vado a tuo padre,» mormorò. Le mani
Benedicendo imposemi e lasciommi.
Forse malore passeggier lo turba
Oltre misura; pur le sue parole,
Il grave aspetto, la dolcezza nova
Della voce oblïar non potrò mai.
Ed a’ pensier’di morte un odïoso
Pensier di vita si confonde, ognora
Oppresso e rinascente. Ah, di qual vile
Creta son fatta?
Antico è l’anellino.
Son due cerchietti neri avviticchiati
Insieme a spira, e sopravi una perla
Di piccioli brillanti incoronata.
Entro v’è scritto in laminetta d’oro:
Ave. Si legge appena. La perluccia
Per tanti flutti non perdè candore,
E come al primo dì brillan le gemme;
Ma la soave timida parola
Cede al tempo e si spegne. Ave! Somigli
Spossato a morte un messaggier che giunge,
Di favellar fa segno e non ha voce.
LXXI.
Sta male. Han detto che non c’è speranza.
Ci va la mamma; voglio andarci anch’io.
Non lo vidi. La piccola casetta
Avvolta è già d’alto silenzio. Ei muore.
Questa sera l’aspettano!
LXXII.
Ben ferma
Di conoscer, se puossi, la mia sorte,
In biblioteca mi recai. Di fianco
Alla porta è nell’ombra uno scaffale
Paüroso che i brividi mi mette,
Solo a passarvi accanto. Ivi mio padre
I libri d’arte medica raccolse,
Neri volumi, a cui brillano in fronte
Sinistri nomi a gran lettere d’oro.
So che bambina li chiamavo i gufi.
Quegli occhi gialli, immobili, splendenti
Tutti affrontai. Mali del cuore.
Trassi
II volume e sedetti. Ero tranquilla;
O v’era almeno dentro a me uno spirto
Imperioso che domava i miei
Nervi ribelli, e sospingea la mano
Lenta di foglio in foglio e l’occhio acuto.
Come coltella rigide, gelate
Erano quelle pagine. Talvolta
Un violento tremito correami
Da capo a piè, leggendo gl’incompresi
Nomi latini d’un arcano fato
Echeggiami, che paiono fantasmi
Sotto maschere strane. Indarno il mio
Male cercai; me li sentivo in seno
Tutti. Ho persin creduto udire un lieve
Melodioso murmure del sangue,
Com’è scritto là dentro.
Dietro a’ morbi
Seguian nel libro, pallido corteo,
Col nome in fronte, giovani, vegliardi,
Trïonfatori della vita e vinti.
Piccini, grandi, tutti là distesi.
Inerti nelle man d’un taciturno.
Vestito a nero (fantasia mi pinge
Così l’autor del libro) che si curva
A numerar lor palpiti. Guarito —
Morto. Alla vita — al cataletto. L’onda
Qual dei naufraghi avventa sull’arena,
E qual seco ritrae nell’alto oceano.
La sorte mia? Mistero, ognor mistero.
Deposi il libro e caddi ginocchioni.
Pensavo a Dio, null’altro. Non ho osato
Nè col labbro pregar, nè colla mente.
Poscia, insensata! corsi alla deserta
Mia stanza, e nello specchio mi guardai.
LXXIII.
Egli è giunto. Jersera, a mezzanotte.
Non posso scriver più. Signor, la pace!