< Misteri di polizia
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IV. Le Spese segrete
III. Le Spie V. Il Gabinetto Nero

CAPITOLO IV.

Le spese segrete.

Con un sistema di governo a base di delazione, le spese segrete dovevano naturalmente figurare in fronte ai fondi assegnati per la polizia. Certamente, nè monsignor M..... nè i marchesi, i conti e i ciambellani, o i professori membri di congressi, o i frati e i preti aventi cura d’anime che trasformavano il tribunale della confessione in tribunale di spionaggio, vivevano alle spalle della polizia. A codesta gente, la sua collaborazione clandestina, si pagava con tutt’altra moneta. Per essa c’erano gli ufficî di corte, le alte cariche, le promozioni, le prebende, le croci. Ma c’era la gente che viveva col premio della delazione, e ad essa la sua opera si pagava in contanti. C’erano le rimunerazioni fisse e quelle straordinarie. Per esempio, al Berlingozzi, che abbiamo visto associato nell’opera di spionaggio all’Arcivescovo di Firenze, per la sua delazione, con biglietto di don Neri Corsini del 28 febbraio 1832, furono dati trenta zecchini da prelevarsi dal fondo delle spese segrete del dipartimento del Buon Governo. La stessa spia aveva già ricevuto in precedenza quattro zecchini dal Ciantelli. Fra i delatori a stipendio fisso, troviamo nel 1818, che don Carlo Marzolini, cappellano della I. e R. marina a Livorno, riceveva cinquantotto lire al mese per riferire intorno alle cose della città e allo spirito pubblico in generale, su quello degli ufficiali della guarnigione in particolare. Anche qui, come si vede, il sacramento della confessione era prostituito fino al fango della delazione, sotto un governo, che almeno a parole si fondava sulla morale e sulla religione.

Ma quanto a nomi di spie, meno poche eccezioni, le carte della polizia sono mute, e la riservatezza non ha bisogno di spiegazioni. Le spie, peraltro, figuravano nei conti, come nel rapporti, sotto la designazione d’amici o di fiduciarii, ed erano pagate direttamente dagli ispettori, dai bargelli, dai commissari, dallo stesso presidente del Buon Governo senza ritirare quietanza, meno in casi assai rari, e per spie non stipendiate a mese, e per le quali il prezzo della delazione assumeva nome di sussidio. Questo, alla sua volta, pigliava altra veste, e trattandosi di darlo a persone portanti un bel nome in società, si trasformava in largizione sovrana. Laonde il principe, ricompensando ignobili servizi prestati da uomini di lettere, diventava Mecenate, se non addirittura Cesare Ottaviano Augusto; e in questo caso, Orazio o Virgilio erano, si capisce, qualche cosa fra Giuda e il delatore. Nel 1826, un alto funzionario dello Stato soffiò all’orecchio di Aurelio Puccini che ad un uomo di lettere, un collaboratore dell’Antologia, di tendenze liberali, erano stati in quei giorni confidati in deposito i manoscritti del matematico Ferroni. Questi, nei rivolgimenti del 1799, era stato un giacobino non meno ardente dello stesso Puccini; ma al contrario del presidente del Buon Governo, cambiati i tempi, non cambiò con questi opinione, nè coscienza; e ritiratosi a vita solitaria, occupò gli ozî forzati nello stendere le memorie della propria vita: memorie in cui si credeva fossero trattati assai duramente parecchi uomini di Stato toscani, specie il Fossombroni, allora primo ministro, e il Frullani, ministro delle finanze. Il Puccini, che non si sentiva la coscienza pulita, appunto per quel certo suo voltafaccia, ne scrisse subito al Corsini, ministro dell’interno, per vedere se fosse il caso di comprare in tutta segretezza quelle memorie, anche perchè correva la voce che il possessore delle stesse, per mezzo di persona amica, cercasse in quei giorni di procurarne la stampa all’estero. „— Si teme, scriveva il Puccini, che siano pubblicate fuori d’Italia, perchè il Ferroni era un uomo vano e la sua fama di eloquenza attica non era che maldicenza, condita di motti spiritosi e di molte bugie1.„ — Al Corsini, al quale non poteva riuscire indifferente una requisitoria d’oltre-tomba contro i suoi colleghi, la proposta del Puccini non tornò sgradita; ed ufficiato il nostro uomo di lettere, questi consegnò le memorie del Ferroni al Puccini, ricevendone in compenso cinquanta zecchini, che il Principe accordava quale segno di sovrana riconoscenza al traduttore di Tacito, perchè il nostro letterato (ci eravamo dimenticato di dirlo) aveva dato in quei giorni alla luce una traduzione degli Annali del grande storico latino.

L’ispettore di polizia di Firenze giustificava mensilmente le spese da lui incontrate pel servizio segreto. Dalla nota di quelle fatte nel gennaio 1827, spigoliamo le seguenti:

„ Per la notizia contenuta nel rapporto riservato del 10 detto sulle stampe in rame o caricature riguardanti il signor principe Don Camillo Borghese e il poeta T. Sgricci ed esibizione delle medesime 
L. 13,68
„ Al solito amico incaricato di vigilare alle Stanze del Cocomero ed altri luoghi pubblici per informarsi di quanto vi accade in genere di discorsi ed altro 
„ 80,00
„ Ad altri amici per sorveglianza presso ristoratori, botteghe di caffè, gabinetti letterari più frequentati, specie di carattere liberale 
„ 216,00
„ A diversi amici per arresti, sorveglianze, informazioni e notizie politiche 
„ 284,00

Nella nota di spese del marzo dello stesso anno leggiamo:

„ Per la critica insorta sulla tragedia del prof. Niccolini (Antonio Foscarini), rispetto alla medesima e simili materie, come da rapporti 16 e 20 febbraio 
„ 13,6,8.
„ Per aver fatto vigilare sullo spirito delle prediche state fatte nella capitale 
„ 30,00„


Dai rapporti del 1836 si scorge come le spese segrete fatte dal solo Ispettore di polizia di Firenze ascendessero a quasi due mila lire al mese. Per la vigilanza sui forestieri sospetti si spendeva trecento lire; settanta per la vigilanza sui cartelli sediziosi; cento ottanta per le notizie colle quali l’Ispettore imbastiva ogni quindicina un rapporto che aveva una grande rassomiglianza colle cronache dei nostri giornali, coll’attrattiva in più del pettegolezzo, che spesso non rispettava nemmeno il segreto delle pareti domestiche. Era codesta una cronaca che metteva in grado l’illustrissimo signor presidente del Buon Governo d’assistere dal suo gabinetto a quanto di più importante e degno della sua attenzione di poliziotto, avveniva in città. Laonde in quella specie di lanterna magica ch’erano i rapporti quindicinali dell’Ispettore, dai discorsi che si facevano nei caffè, si passava ai giuochi rovinosi che si tenevano nelle case di famiglie aristocratiche; dagli arrivi e dalle partenze d’ospiti illustri, si saltava a quanto in pubblico si vociferava che accadesse nella penombra del gabinetto d’una bella signora patrizia, se non addirittura dietro le cortine d’un talamo poco rispettato. Naturalmente, le notizie che il signor Ispettore faceva passare sotto gli occhi del Capo della polizia, non vagliate, nè seriamente riscontrate, erano consacrate nelle sue cronache quindicinali con tutta la malignità con che il pubblico le spiattellava in piazza, e con tutta l’indiscrezione con che gl’informatori segreti le raccattavano.

Peraltro, codesto mestiere di cronista clandestino, i signori ispettori di polizia di Firenze, lo facevano coscienziosamente. Nel raccogliere i più intimi particolari di famiglia, i più delicati segreti d’alcova, i pettegolezzi d’ogni sorta che facevano le spese della conversazione degli sfaccendati, erano d’un’imparzialità a tutta prova. Il pettegolezzo, l’indiscrezione, il fatto vario, insomma, bastava che corresse per la città, che fosse materia di discorso in un pubblico ritrovo in un circolo privato, perchè subito fosse raccolto con una passione da collezionista; poco poi importando al cronista-poliziotto che quella sua cronaca cogliesse in pieno petto l’onore e la riputazione d’un alto magistrato, d’un funzionario di corte, d’un ministro, o d’una signora della aristocrazia. S. E. Fossombroni e Tommaso Sgricci, il primo, ministro, e il noto poeta dai costumi infami, erano uguali dinanzi alla cronaca del poliziotto, la quale colla stessa imparzialità registrava la satira non sempre attica, non sempre urbana, che un Giovenale da strapazzo lanciava contro il primo, e l’epigramma che bollava con ferro rovente il secondo; i cartelli che portavano scritto: Morte a Leopoldo II, e i giudizi per nulla lusinghieri che il pubblico dava sugli atti e sulle persone del governo; le debolezze di cuore d’una donna ammessa all’intimità della corte, e le divagazioni nel regno di Venere d’una virtuosa celebre o d’una diva del mondo equivoco.

È proprio il caso d’esclamare: — Dinanzi al rapporto segreto d’un poliziotto, non vi sono distinzioni nè di nascita, nè di grado, nè di colore politico; tutti gli uomini sono uguali.

Un’égalité... da polizia segreta!

Abbiamo detto che la penna degli agenti della polizia, nelle loro cronache, non risparmiava nessuno, nemmeno i ministri. Ecco come il Commissario regio di Firenze, in un suo rapporto riservatissimo al presidente del Buon Governo, in data del 20 aprile 1844, parlava del primo ministro del Granduca, il conte Vittorio Fossombroni, morto allora.

Il Commissario regio, ch’era il Tassinari, dopo d’aver detto come grande fosse il cordoglio della città per la perdita del grand’uomo, aggiungeva: „Ma siccome anche i grandi sono uomini e tutti gli uomini hanno le loro debolezze, le debolezze del conte Fossombrosi si sono rese palesi in due fatti: nel matrimonio da esso incontrato in età quasi ottuagenaria e nel suo testamento che ora si è aperto. Lasciando di parlare di quell’orgoglio inflessibile che eminentemente lo dominava e che esigeva che tutto piegasse al di lui volere, sino al punto di pretendere per sé solo ogni attenzione ed ogni riguardo, dirò solo che tutto il pubblico ha menato e mena sempre gran rumore sopra le ultime di lui tavole testamentarie lamentate e criticate per la comune convinzione, che sono state dettate dalla prepotenza domestica, anziché dal retto giudizio d’un uomo di senno. Difatti ha recato sorpresa, disgusto e dolore, il sentire che di tutta la sua ricca sostanza si è fatta padrona la vedova..... Al dottor Andreini che lo curò per trent’anni lasciò quattordici crazie al giorno, ma è un reddito così meschino e miserabile, da fare vergogna a chi l’ha fatto ed avvilisce chi deve riceverlo. „

E pensare che pochi giorni prima, l’illustrissimo signor Commissario regio avrebbe avuto a grande onore piegare la schiena anche dinanzi ad uno di quegli atti ch’egli, morto il Fossombroni, chiamava informati ad orgoglio inflessibile!....

Il vero calcio dell’asino!


  1. Intorno all’eloquenza e al giacobinismo del Ferroni si veda il nostro studio: Firenze ai tempi di Ugo Foscolo nell’opera: Epistolario di Ugo Foscolo e Quirino Mocenni-Magiotti. Firenze, Adriano Salani, 1888.
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