< Misteri di polizia
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XVI. Cicisbei in ritardo
XV. Il Duello Pepe-Lamartine XVII. Lord Byron, i Romantici e la contessa Guiccioli

CAPITOLO XVI.

Cicisbei in ritardo.

Nei primi anni del secolo corrente tutto faceva ragionevolmente credere che il cicisbeismo, questa piaga del secolo XVIII, fosse morto in Italia. Il Goldoni e il Parini, che l’avevano messo alla gogna, l’uno nelle sue commedie piene di comicità aristofanesca, l’altro nei suoi endecasillabi riboccanti di sale oraziano, erano di già scesi nel sepolcro, e la Rivoluzione francese, questa grande ed inesorabile liquidatrice della vecchia società, insieme ai nèi, ai guardinfanti, alle parrucche, agli abiti dai colori vistosi, ai tacchetti rossi, alle pettinature architettoniche dei tempi della Dubarry e di Maria Antonietta, aveva fatto scomparire tante e tante altre cose. Una nuova vita era incominciata. I figli di quei famosi cicisbei che i nostri commediografi e i nostri poeti satirici avevano posto in ridicolo, impugnato il fucile, erano corsi a morire sotto gli ordini d’un uomo che non conosceva la galanteria, sino in Ispagna, sino in Germania, sino in Russia. Sotto le mura di Gerona, sulle sponde della Raab, sulle pianure di Malojeroslawez, la generazione uscita dai lombi infrolliti di coloro che non avevano saputo far altro che biascicar madrigali e sonettini alle signore, s’era battuta bravamente, strappando alle mani della vittoria più d’una foglia d’alloro.

Ma nella società non tutto muore in un giorno; le istituzioni, come gli usi e i costumi, sopravvivono, benchè di vita stentata, qualche volta anche clandestina, ai decreti di soppressione. Scomparso il vecchio, il logoro, dalla superficie, esso s’agita nei bassi fondi; cacciato dalla porta, rientra a nostra insaputa dalla finestra; mandato via dal trono sul quale imperava, vi ritorna di nascosto per cercarvi un posto meno sublime, meno appariscente, magari dietro le spalle dei ministri del nuovo sire.

Difatti (non si meravigli il signor lettore e sopratutto la signora lettrice) a Firenze, nell’anno del Signore 1815, quando gli uomini e le cose descritte e sferzate nel Giorno dell’immortale Parini sembravano entrate nel mondo delle memorie, la pianta del cicisbeismo continuava a coprirsi di foglie e di frutta. Soltanto allora i cicisbei si chiamavano assistenti. Ma la parola non vuol dir nulla; la cosa era precisamente la stessa.

Forse ella, signora lettrice (questa volta ci dirigiamo a lei sola, o signora) non vorrà crederci. Credere sul serio all’esistenza dei cicisbei in pieno secolo XIX!... Ci si parli degli amici della signora; via, diciamo la parola, degli amanti, meno male; chè, gli amanti non hanno mai fatto difetto sotto la cappa del cielo. Paride non era l’amico di casa, l’amico della signora e a un tempo del marito? E Paride, se non isbaglio, visse...

— Qualche cosa come più di tremila anni fa, almeno secondo la leggenda.

— Grazie, Come vede, nemmeno nell’alba della civiltà, sulla soglia della storia, mancava il genere; ma dei cicisbei, degli amanti in titolo, diremmo quasi amanti legittimi, ammessi e riconosciuti dallo stesso marito, tollerati dal pubblico che vede in essi un’appendice indispensabile di quest’ultimo, obbediti dai domestici abituati a ricevere da loro gli ordini, via.... la cosa è un po’ difficile ad ammettersi!

— Niente affatto difficile, signora, e ne sarà prova questa pagina di cronaca galante fiorentina che ci permettiamo di dedicarle rifacendola — sopratutto per smussarne le angolosità e mitigarne il realismo qualche volta più che zoliano — dai soliti nostri scartafacci di Polizia.

— O come c’entra la Polizia?

— Sicuro, che c’entra, o signora; imperocchè nel 1815, in Toscana, regnava S. A. I. e R. il Granduca Ferdinando III, di Lorena — un sovrano patriarcale, il quale precisamente perchè governava patriarcalmente quel milione e poco più di toscani che la divina provvidenza e le baionette degli eserciti della Santa Alleanza gli avevano dato da amministrare, ne voleva conoscere per filo e per segno i segreti. E questi — è facile intenderlo — non potevano essere conosciuti che per mezzo d’una Polizia dai cento occhi e dalle cento orecchie, d’una polizia capace di spingere la punta del naso sino nel Gabinetto... ma che diciamo! sin nell’alcova delle signore. Polizia impertinente ed ineducata, dirà ella, o signora; e noi risponderemo: sicuro. Ma tutte le Polizie di questo mondo sono fatte a un modo. Se i signori poliziotti dovessero portare i guanti e conoscere il galateo!... Ma ritorniamo alla nostra storia.

Ci si accordi il permesso, in questa pagina di cronaca galante, di tacere il nome della eroina. È un riguardo, per quanto postumo, che si deve ad una morta quantunque il nome della signora, in questi ultimi tempi, sia stato ripetutamente ricordato dagli studiosi della vita del Foscolo e la bellissima donna che lo portò fosse cantata dal poeta zacintio insieme a due altre signore nel suo carme delle Grazie. Era nata contessa ed aveva sposato ancora giovanissima un cavaliere toscano. Dunque era bella, ma d’una bellezza altera, scultoria, forse la più bella signora che contasse allora Firenze; una bellezza, insomma, che la stessa Luisa d’Albany, divenuta nella sua vecchiaia acre e maligna, non poteva negare. Il Foscolo, che in fatto di beltà muliebre era conoscitore finissimo, non solo la cantò, ma l’amò, e benchè nessuna testimonianza seria e inappuntabile ci rimanga per dire sin dove si sia spinto il poeta col suo amore, pure è da credere che l’autore dei Sepolcri non si sia appagato di qualche dolce sorriso o di qualche espressiva stretta di mano, dal momento che le male lingue fiorentine — e, Dio buono! qual’è il paese che non ne abbia almeno una dozzina? — parlavano a bassa voce di certe visite misteriose che la leggiadrissima e nobile dama faceva ad Ugo. Probabilmente la signora non avrà fatto quelle visite che per ammirare con più agio, nella solitudine del sacello domestico, al di fuori della presenza d’ogni profano, uno degli iddii maggiori del Parnaso italiano. Gli è certo però che alla contessa la corte piaceva, e molto, e nei romanzi galanti ch’ella ripetutamente nella sua lunga carriera di bella mondana ebbe ad imbastire, l’azione semplice, senza intrighi, come quella del famoso racconto dell’ottimo abate Bernardino di Saint-Pierre, non le andava a sangue. Amava, all’incontro, i romanzi d’amore a duplice azione: la qualcosa, come ognun può rilevare da sè, mentre era una violazione delle regole aristoteliche sulle famose unità che allora in Italia tutti rispettavano, formava intorno alla formosa donna una certa riputazione di ruba-cuori e d’ammazza-uomini, che la metteva in una luce assolutamente equivoca presso quel numeroso e rispettabilissimo stuolo di dame a cui l’età o la bruttezza non permetteva di fare altrettanto. E quando il poeta partì, la contessa gli diede subito un successore nel generale Pignatelli, comandante allora le truppe napoletane d’occupazione: un Dio-Marte, in verità, piuttosto attempato, pieno di decorazioni, di ferite e di reumi, ma galante e gran signore.

Ma un bel giorno — brutto pei nostri due amanti — Marte-Pignatelli lasciò Firenze, e la gentile contessa nelle deserte ed ampie sale del suo palazzo s’annoiava maledettamente. Gli appunti di Polizia da cui attingiamo queste notizie, dicono che la nobile signora era desolata per la partenza del suo cavalier-servente. Vi si legge proprio così come se l’autore di quegli appunti scrivesse non nell’anno del Signore 1815, ma verso la metà del secolo XVIII, quando il Colpani, un abate di Brescia, enumerando le virtù che occorrevano ad un compito cicisbeo, cantava:

„Sappia or presso la tempia ed or vicino
  Al vermigliuzzo tumidetto labbro,
  Or su la molle alabastrina gota
  La nera macchia collocar con arte.„

Ma la povera signora non doveva portare le gramaglie che per poco. Il piccolo e bendato arciero (la mitologia non era stata ancora bandita dal regno della poesia) non rimase a lungo inoperoso. Difatti, sul principio dell’anno 1815, arrivò a Firenze da Napoli la principessa di San Sev..o, una gran dama circondata da una piccola corte, quasi fosse una regina viaggiante in incognito, e servita — la parola era del tempo — da un bel giovane olandese, dal portamento piuttosto marziale, che nei ricevimenti dei ministri ai quali fu subito ammesso, portava una bella uniforme straniera. Si chiamava Enrico Mollerus e si diceva che fosse figlio d’un Consigliere intimo di S. M. il Re dei Paesi-Bassi, benchè a taluni — e fra questi c’era il Poliziotto autore dei nostri appunti — paresse un avventuriere avendo già servito, non si sapeva bene, se in qualità di uffiziale, di paggio o di scudiere, alla corte di Madrid e a quella di Pietroburgo. Qualunque fosse il suo passato, gli è certo che in quella microscopica corte viaggiatrice, egli occupava il primo posto nella sua qualità d’assistente della gran dama.

La principessa poi, stante il silenzio dei nostri appunti, non sapremmo dirle, signora lettrice, se fosse giovine o attempata, bella o brutta, bionda o bruna; le note dell’Ispettore dicono che appena il Mollerus conobbe nel famoso salotto dell’amica dell’Alfieri la nostra contessa, se ne invaghì pazzamente. La passione del giovine straniero fu corrisposta dalla leggiadra dama, ed allora cominciò un romanzo galante i cui capitoli si svolsero fra i sarcasmi della d’Albany a cui ogni fiore deposto sull’ara della gioventù e della grazia era per lei, vecchia e ridotta alla parte di spettatrice, uno sterpo, un pruno, e le furie gelose dell’altra dama, la principessa. Questa però non era gran dama per nulla; imperocchè, dopo d’aver rappresentata per qualche giorno la parte d’Arianna abbandonata, non volle essere più lo zimbello del pubblico e in particolare del suo ex-assistente; e fatti in fretta e in furia i bauli, colla piccola corte vedova del suo capo, partì per Genova, non senza far sapere al signor Mollerus che quando non gli fosse riuscito sgradito, egli avrebbe potuto ritirare dal banco Fenzi il suo solito appuntamento mensile.

Come vede il signor lettore (questa volta ci si permetta di non fare appello alla signora lettrice) il carattere di Monsieur Alphonse non è stato creato da Alessandro Dumas figlio....

Il nostro Monsieur Alphonse, ch’era stucco della sua principessa, augurò alla dama un buon viaggio e un felice soggiorno negli Stati di S. M. il re di Sardegna e corse — non lo diciamo noi, ma lo dice il signor Ispettore — a ritirare dal banco i suoi emolumenti di cavalier servente.... in ritiro.

Tutto ciò è narrato dal nostro poliziotto, senza che la condotta di quel Monsieur Alphonse del 1815 gli strappi una sola parola di biasimo. Il rispettabilissimo funzionario trova anzi naturale che la bella contessa, stanca della sua vedovanza, prenda al suo servizio un nuovo assistente, e se il cuore del poliziotto sente qualche cosa, gli è appunto quando narra la risoluzione presa dalla principessa di non lasciare sul lastrico e senza un soldo in tasca il suo favorito. Egli, uomo di cuore e di gran senso pratico ad un tempo, riconosce che quella Didone abbandonata aveva agito da gran dama.

Anche i poliziotti hanno un cuore!...

Il Mollerus andò, dunque, a prestare l’opera sua galante di cicisbeo in casa della contessa. Era nel suo diritto e nessuno poteva metterci il dito, nemmeno il marito, che allora, come tutta la rispettabilissima classe a cui aveva l’onore di appartenere, contava nella famiglia come il due di briscola. Il marito-cavaliere, per altro, viveva in perfetta armonia colla contessa-moglie. Ognuno di loro aveva il suo appartamento, il suo personale di servizio, il suo circolo di conoscenze, le sue abitudini. La signora andava al teatro? Il marito andava al Casino. La signora andava ai famosi ricevimenti della contessa d’Albany? Il marito aspettava precisamente quella sera per andare a far visita ad una principessa russa o ad una dama inglese. La signora ordinava la vettura per fare una trottatina alle Cascine? Il marito restava in città. La signora andava all’opera, alla Pergola? Il marito andava alla commedia, al Cocomero. Marito e moglie pranzavano insieme quando.... non pranzavano separati. Così le occasioni di guastarsi il sangue erano studiosamente evitate, e l’armonia più invidiabile regnava in quella casa.

Ma il dramma intimo, galante che si svolgeva sotto quel tetto, parve ad un tratto che uscisse fuori di quella falsariga sulla quale si modellavano allora gli amori.... in partecipazione. Nei circoli aristocratici, nei colloqui dei conoscenti cominciarono a farsi strada certe voci per nulla lusinghiere sul conto dei nostri due amanti, specie del Mollerus. La stessa contessa d’Albany ne scrisse qualche cosa al Foscolo, s’intende, per farlo arrabbiare ed anche un po’ per punirlo di non aver voluto fare un sol dito di corte alle sue grazie parecchio mature. L’ex-bella dell’autore di Jacopo Ortis era anche scomparsa dal gran mondo per qualche tempo, e su questa scomparsa le solite male lingue avevano fatti certi commenti, che se fossero arrivati all’orecchio d’Ugo, Dio sa quali sdegni avrebbero suscitato nell’animo vulcanico del poeta!

Ma, malelingue a parte, la condotta, se non della contessa, certo del Mollerus destò una viva indignazione in tutto quel mondo d’innamorati e d’innamorate in attività di servizio o in riposo; e più di tutti ne fu indignato l’illustrissimo signor cavaliere Aurelio Puccini, presidente del Buon Governo, al quale, in tutta segretezza, la nobilissima madre della bella contessa aveva creduto suo dovere di ricorrere perchè in via economica e tutta prudenziale volesse mettere un riparo a quello sconcio. Nè minore di quella dell’illustrissimo suo superiore fu l’indignazione provata dal nostro poliziotto, il quale incaricato di fare le opportune investigazioni, constatò come si trattasse d’una vera violazione delle leggi della galanteria. Il Mollerus, nientemeno, picchiava di santa ragione la contessa... Picchiare una gran dama, e picchiarla non per gelosia, ma per costringerla a a consegnare le chiavi della cassa!... Ombre di tutti i cavalieri più meno serventi messi in ridicolo dal Parini, nelle vostre fastose tombe, non vi sentite, sotto la parrucca, rizzare i capelli?

Al cavaliere Puccini, a cui, nella sua qualità di ministro della Polizia, incombeva l’obbligo di vegliare sulla moralità dei suoi amministrati, quelle busse per nulla scritte nel codice della galanteria, fecero davvero rizzare i capelli, e non istette molto a deliberare per punire il colpevole, che nato nel paese della nebbia, delle ranocchie e del formaggio, era venuto a Firenze, sotto il cielo azzurro d’Italia, a discreditare coi suoi modi da mercante di coloniali la nobile istituzione del cavalier-servente! Il Presidente del Buon Governo, tacendo affatto sul romanzo, ma ricordandosi soltanto che il Mollerus nella sua qualità di straniero non aveva le carte di soggiorno in regola, gli fece intimare dal Commissario del quartiere di Santa Croce (egli abitava in Borgo degli Albizzi) che nel termine di tre giorni sfrattasse da Firenze e dal Granducato.

Il Mollerus, dinanzi a quell’ordine che aveva l’aria d’un fulmine a ciel sereno, dapprima trasecolò, poi protestò, strillò, tirò in campo i suoi nobili natali, i servizi prestati in diverse Corti, quelli che il padre prestava in quei giorni in Olanda; ricorse anche a un pezzo grosso della aristocrazia fiorentina perchè interponesse i suoi buoni uffici presso il capo della Polizia. Ma questi tenne duro, e il Mollerus, fatte le valigie e preso commiato dalla contessa, lasciò Firenze.

Quel certo Ispettore di cui abbiamo parlato, riferendo al signor Presidente del Buon Governo i particolari della partenza del sedicente uffiziale, aggiungeva malignamente: „Si crede che il Mollerus, sempre in caccia di denari, sia andato a raggiungere a Genova l’altra dama...„

Il signor lettore ha già capito: la principessa di San Sev....o.

E così, per la seconda volta in poco volgere di tempo, la divina donna cantata da Ugo Foscolo restò priva di cavalier-servente.


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