< Misteri di polizia
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XIX. Il Malcostume in piazza XXI. Le Pratiche religiose

CAPITOLO XX.

I Libelli.

Con tanti scandali, in mezzo ad un ambiente siffattamente corrotto, la poesia-libello non poteva far difetto. Peraltro, l’attività dello spirito era troppo compressa, perchè per vie clandestine non rompesse fuori in mordacità e punture che volevano essere satire, ma che spesso erano sconci frutti maturati sul terreno della immoralità. Questa, come si sa, segue dappresso la costrizione del pensiero, e il cavalier Marini, l’abate Casti, il Baffo, il Batacchi non prosperarono che in tempi in cui la censura teneva imbrigliata la stampa. Nè diversamente avvenne in Toscana nel periodo di cui abbiamo intrapreso a favellare; imperocchè, mentre gl’imperiali e regi censori castravano il pensiero e pesavano nelle loro bilancie le parole dei letterati, i libelli correvano da un punto all’altro del paese, senza che la loro clandestinità nocesse alla loro pronta e larga diffusione. Il mistero in cui s’avvolgevano era il miglior passaporto che si potesse loro accordare per correre all’impazzata da una città all’altra.

La Polizia, naturalmente, dava loro una caccia spietata, anche perchè essi talvolta non risparmiavano funzionari altissimi, nè avevano paura di penetrare dentro le residenze dei vescovi. Nel 1825, fu assai diffuso un poemetto in ottava rima, i cui personaggi erano le più note persone d’una certa città. Non vi era risparmiato nè monsignor Vescovo, nè l’illustrissimo signor Commissario regio, nè la stessa signora di questo. Il poeta immaginava come si fosse allora fondato un ordine monastico in onore di Venere Pandemia; e di quest’ordine descrisse con linguaggio osceno i riti. Il libello non poteva passare inosservato; quasi tutta la nobiltà di quella certa città, il cui nome ci piace di lasciare nella penna, vi era posta alla gogna; alla gogna sopratutto era posto il regio Commissario di cui si cantava con sapore ariostesco la tresca che aveva con una signora. Ricercato l’autore, questi non fu difficile a cadere nelle mani della Polizia. Era un certo Salvatore Arcangeli, d’anni 19. Il Presidente del Buon Governo, stante l’età giovanile del delinquente, lo condannò ad un mese di carcere ed alla vigilanza speciale della Polizia, previo un mese di relegazione nell’eremo di San Vivaldo, in quello di Volterra, coll’obbligo di conformarsi alla stretta disciplina di quel cenobio.

Più rumore, perchè più vasto campo abbracciava, fece un altro libello in versi: Le Litanie pel giubileo del 1826, diffusosi in quell’anno in Firenze. „Satira oscena — dice un rapporto del 26 ottobre — contro le dame fiorentine, facendo uno strazio veramente micidiale dal loro onore, con isfregiare d’infamia i lignaggi sublimi cui appartengono e cimentare l’armonia dei talami.„ — Probabilmente molti signori mariti, malgrado la sublimità del loro lignaggio, come enfaticamente diceva il poliziotto nel rapporto sopra citato, non avranno appreso nulla da quella turpe pubblicazione che prima non fosse stato da loro conosciuto; ma lo scandalo destato da quella rivelazione di turpitudini fu immenso. Quasi tutta la nobiltà fiorentina fu dall’anonimo poeta fatta passare attraverso tutto quel sudiciume, non risparmiando il libellista nè mogli, nè figlie di ministri, di consiglieri intimi o di ciambellani. L’audacissimo scrittore fu ricercato con pazienta industria sguinzagliando all’uopo la Polizia i suoi bracchi migliori. Dapprima fu creduto autore di quella immonda satira l’abate Giuseppe Borghi, il traduttore di Pindaro. Così almeno volle far credere alla Polizia uno de’ suoi soliti amici: ma l’ispettore Chiarini, che aveva miglior naso dei suoi bracchi, non vi prestò fede, quantunque non ritenesse il Borghi per uno stinco di santo. Si pretendeva che il chiaro poeta avesse incominciato le Litanie ai Bagni di Lucca, e ne avesse letto un passo al marchese Giuseppe Paternò Di Raddusa, esule siciliano, e al giovinetto marchese Benedetto Paternò-Castello Di San Giuliano, di cui il Borghi era pedagogo. Istituitasi una processura economica, furono uditi il Di Raddusa e il Di San Giuliano; ma questi negarono recisamente che il Borghi fosse autore di quella oscena satira e che ne avesse scritto il principio ai Bagni di Lucca (ove, peraltro, non s’era fermato verso quel tempo che un par d’ore) e ne avesse loro letto qualche passaggio. Più fruttuose parve che riuscissero altre indagini praticate nella società che frequentava la casa del duca don Salvatore Sforza-Cesarini; — una società di scapestrati, di don Giovanni, di cacciatori di donne; e parve che l’autore si rinvenisse in un certo Cortini, romano, il quale, benchè negasse ostinatamente la paternità del libello, fu sfrattato dal Granducato.

Fu in tale circostanza che corse per Firenze il seguente epigramma:

„Quando chiamò un satirico civettone
     Le dame di Firenze buggerone,
     Tutte chieder volean soddisfazione;
     Ma poichè un serio fecero
     Esame di coscienza,
     Dissero che il Vate
     Usato avea prudenza.„

Qualche anno innanzi aveva suscitato a Firenze gran rumore una satira intitolata: Elenco delle galanti signore fiorentine, coi soprannomi loro assegnati dai Settari del Burinca. Benchè qua e là rasentasse il libello, pure la satira era tanto lisinghiera per la maggior parte delle dame che vi erano nominate, ch’essa non sollevò nè sdegno, nè processure. La Polizia, in un rapporto dell’Ispettore del 31 agosto 1822, ne attribuiva la paternità a Guglielmo, figlio unico del noto zoppo Libri; nientemeno che al futuro professore e scienziato Guglielmo Libri!

Diamo per intero la satira, sopprimendo qualche nome di signora per rispetto di coloro che oggi, nella Società aristocratica fiorentina, lo portano ancora. Si capisce che le soppressioni riguardano i soli casi in cui la satira è sortita dal lecito. Alla galanteria abbiamo conceduto libero il passo.

Pentimento.
(Angelica Aldobrandini).
Sì bel pregare ogni suo fallo ammenda.

Armida.


(Bargagli Del-Turco).


Argo non vide mai, nè Cipro o Delo
D’abito di beltà, forme sì care.
                              (Tasso).

Diana.
(Francesca Pucci).
La Dea del primo giro aborre amore,
Ma Endimïon le fa cangiar consiglio.

Didone.
(Marchesa Vernaccia).
Qual ti sembra costei?
Superba e bella.

Capriccetto.
(Marchesa Tempi).
Volubil farfalletta incerto ha il volo.

Tradimento.
(Eleonora Pa... i).
Cangiò col nome anche l’amor costei.

Sentimento.
(Anna Rucellai).
Tenero cuore a tanti vezzi unito;
Di quai conquiste non sarìa capace!?

Pot-Pourri.
(Teresa Mo....).
Qual mai d’amanti mescolanza è questa?
Un ottico, un milord, un parrucchiere!


Aquila.
(Marchesa Teresa R.....).
Vola coll’ali di Cupido in trono1.

La Parisienne.
(Signora Pon.).
Non potrò mai di tutti il nome dirti.

La Gatta di Masino.
(Venturi-Ginori).
Che bella fedeltà!
Quale innocenza!

Bauci.
(Giovanna Strozzi).
Qui poi la fedeltà non è mentita.

Nasino.
(Urania Masetti).
Povera lei se incontra il Guadagnoli2!

La Villanella d’Esopo
(Maria-Anna Sp....).
Sul freddo cenere
D’un sposo amato
Piangea la misera,
Ma ha poi trovato
Un uom sensibile
Che in dolce gaudio
Quel duolo orribile
Le fe’ cangiar.

La Levrierina.
(Giuseppa Cor...).
Sculetta, balletta
Fa festa con tutti.

Eco.
(Signora Bertolini).
Ti strazii in lagrime
Per un crudele,
E sei fedele
A infedeltà.

  1. Il senso di questo verso si lascia interpetrare al lettore (Nota dell’autore della satira)
  2. Il poeta Aretino che, come si sa, era fornito d’un grosso naso.


Note

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