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XXXVI. Le Prime avvisaglie
XXXV. Luigi Napoleone Buonaparte in Toscana XXXVII. Massimo d'Azeglio

CAPITOLO XXXVI.

Le prime avvisaglie.

Fra il 1844 e il 1845 un importante movimento si compiva nella opinione pubblica italiana. Le vecchie sètte, le sètte che avevano imperato sotterraneamente nella penisola da oltre trent’anni ed avevano seminato di cospiratori ogni angolo d’Italia, cominciavano a sparire o a trasformarsi. Esse non si credevano più necessarie, almeno nella forma che avevano fin’allora assunto e in quanto ai mezzi che avevano adoperato, a formare la nuova Italia. Giuseppe Mazzini cessava quasi affatto di disporre a suo talento delle moltitudini. Qua e là e’ erano ancora dei cospiratori modellati sul vecchio stampo e che credevano alle insurrezioni popolari o alla efficacia politica dei proclami; ma nelle classi più elevate della società, sopratutto nei centri popolosi, come a Torino, a Milano, a Firenze, a Roma, cominciava a farsi strada un nuovo concetto, quello cioè, che l’Italia potesse sorgere a vita novella non per virtù di cospiratori, ma per accordo di popoli e di principi. Era un’illusione come i fatti in seguito si presero la dolorosa missione di provare; ma, quell’illusione ebbe allora per sè tutti gl’italiani, da pochi in fuori, alla testa dei quali, si capisce, il Mazzini, che non ripiegò mai la sua bandiera, nè il suo credo volle mai acconciare alle esigenze de’ tempi, e fra gli uomini di studio, che dovevano fornire a quel nuovo indirizzo politico i suoi più illustri e poderosi partigiani, il Niccolini, l’autore di Giovanni da Procida, che in quei giorni, quasi a protestare contro coloro che volevano trasformare l’Italia in qualche cosa ch’era tra l’accademia e la sagrestia, tra il credo dei carbonari e il breviario del prete, lanciava fra la folla plaudente ai nuovi iddii, il suo Arnaldo da Brescia. Corifei di codesto nuovo indirizzo erano il Gioberti, il Balbo, Massimo d’Azeglio, Vincenzio Salvagnoli. Mentre il primo, da Bruxelles, gettava le basi del nuovo partito, tutti gli altri, a seconda delle loro attitudini, lo colorivano nella penisola. Erano i tempi in cui la pubblicazione d’un libro, magari d’un opuscolo, formava un avvenimento. Il D’Azeglio, anzi, faceva qualche cosa di più. Egli intraprese quel famoso viaggio di Romagna che doveva provocare da Carlo Alberto le dichiarazioni che ciascuno può leggere nell’ultimo capitolo dei Miei Ricordi dell’autore dell’Ettore Fieramosca, e che dimostrano come nell’uomo del 1821 non fosse mai venuto meno il suo amore per l’indipendenza d’Italia.

Un nuovo spirito sorvolava dall’un capo all’altro della penisola; la Polizia, in qualche Stato, diventava meno vessatoria; qualche principe si compiaceva a mostrarsi meno legato alle massime reazionarie proclamate dalla Santa Alleanza. Da tutti si credeva ad una nuova èra. Quale fosse poi codesta èra non si sapeva dire precisamente; ma si capiva che coll’aprirsi della stessa sarebbero avvenute cose importanti. C’era dell’imprevidenza, della spensieratezza, della leggerezza in tutto ciò. Si dimenticava la storia d’Italia; s’obliava il papato, che allora era rappresentato nel modo più sconcio da Gregorio XVI, un frate d’intelletto cortissimo, ma amante del Chianti e del Pomino; si obliava fin’anco l’Austria; e l’obliava il patriarca dei nuovi credenti, il Gioberti, il quale, nel suo Primato, di tutto parlava, meno di lei: silenzio che i partigiani del filosofo torinese dicevano più eloquente della stessa parola, quasi che duecentomila baionette si potessero sopprimere con delle fiorire rettoriche.

Le polizie, soprattutto la Toscana, rimanevano intontite dinanzi quel movimento, che uscendo dalla cerchia delle solite sètte, abbracciava tutto il paese. Si capiva che i soliti arresti, i soliti avvertimenti del signor commissario, il confino, e magari la relegazione in fortezza, non erano più sufficienti per infrenare quel nuovo torrente. L’agitazione, benchè allora fosse soltanto morale, minacciava di traboccare, e i principi, che avevano imparato come bastasse ricorrere ai vecchi mezzi di repressione per ristabilire la calma, vi ricorsero. Ma il moto non poteva più soffocarsi; non si trattava più di contenere pochi cospiratori, ma l’intiera nazione. Pure i principi vi si provarono, non escluso Leopoldo II, che qualche anno dopo doveva precedere lo stesso Carlo Alberto nel promettere ed accordare dapprima leggi informate ad idee di progresso, poi Statuti e Camere.

E Sua Altezza Imperiale e Reale, il Granduca di Toscana, che pure nei tempi di oppressione generale s’era tenuto col Fossombroni e col Corsini lontano dalle esagerazioni dei governi reazionarî, perduti codesti due uomini di Stato, parve che insieme a loro perdesse ogni memoria dei precedenti di famiglia. Posto a capo del Governo il Cempini, vecchio pubblicano, mise agli esterni il Paüer e all’interno l’Humbourg, gente dalla mente piccina, da affogare in un bicchiere d’acqua, ma gesuitante ed austriacante come da Pietro Leopoldo I non s’era mai vista l’uguale in Toscana. Ad essi faceva sostegno il Bologna, presidente del Buon Governo, che il Granduca nominava Consigliere di Stato, ufficio che portava seco il titolo di Eccellenza.

E quasi che il secolo, che toccava la sua metà fosse ritornato sino ai bei tempi in cui, cacciati i francesi, si ripristinavano gli ordinamenti e le leggi manipolate prima della Rivoluzione, codesta gente credette bastasse prendere un atteggiamento — magari da Metternich in ottantaquattresimo — perchè birri e preti intonassero il De Profundis sul movimento liberale, che abbracciando l’intiera penisola, minacciava di mandare a gambe in aria il vecchio edificio.

Uno dei momenti più culminanti di siffatto moto reazionario, è certamente quello della estradizione di Pietro Renzi alle autorità pontificie.

Benchè Massimo d’Azeglio nel suo viaggio in Romagna avesse sconsigliato i liberali d’insorgere, pure questi, o almeno i più insofferenti, non vollero attenersi ai consigli dell’autore del Niccolò de’ Lapi; e a Rimini, insorsero. Il moto, come era facile prevedere, fu represso, e i suoi autori, in parte furono tratti in carcere, in parte presero la via dell’esilio.

Pietro Renzi, riminese, fu tra questi ultimi.

Ricoveratosi in Toscana, a mente di una convenzione conclusa poco prima fra il Governo granducale e la Corte Romana, il Renzi si sarebbe dovuto consegnare a quest’ultima. A Roma viveva ancora papa Gregorio XVI e la consegna sarebbe stata pel Renzi la sua condanna di morte. Laonde il Governo, che ancora non aveva rinunziato alle sue gloriose tradizioni di gentile ospitalità, fornito il Renzi d’un passaporto, l’imbarcò a Livorno per la Francia colla comminatoria di tre mesi di carcere, ove avesse fatto ritorno nel Granducato. Ma ivi a poco, la polizia di Rimini intercettò alla posta diverse lettere che un certo Antonio Stella dirigeva colà ad una certa Antonia Dini. Si sospettò che sotto il nome di Antonio Stella si nascondesse il Renzi, e sotto quello d’Antonia Dini, l’amante di lui, Annunziata Polverelli; e che le lettere provenissero dalla Toscana. Il sospetto si mutò subito in certezza, quando la Polizia ebbe in mano altri indizi; così il Governo pontificio potè indicare a quello Toscano la casa dove il Renzi, sotto mentito nome, si nascondeva a Firenze, e chiedere nello stesso tempo la consegna del rifugiato. Ai Ministri del Granduca la domanda della Corte di Roma non recò nessuna sorpresa: perocchè, a Palazzo Vecchio, non governava più nè il conte Fossombroni, nè don Neri Corsini; c’erano, all’incontro, colà delle persone che non sognavano che gesuiti, suore di carità, esili, manette, birri e la gloria del duca di Modena, un boia mascherato da principe. Laonde ordinarono che pel momento il Renzi fosse ricercato e tratto in arresto; in seguito il Governo avrebbe provveduto per la consegna. Dapprima si suppose che il proscritto fosse ricoverato presso la signora Genovieffa Farini, moglie del dottor Carlo Luigi Farini, donna d’alti spiriti, coraggiosa, soccorritrice d’esuli, quantunque essa stessa fosse un’esule „nota ricettatrice — scriveva l’Ispettore di Polizia — di persone sospette.„ La signora Genovieffa abitava nel palazzo Catani, dietro le campane di San Lorenzo. La sua casa fu perquisita e vi si sequestrarono lettere e carte; però il Renzi non fa rinvenuto. Ma il Paüer e l’Humbourg, a cui faceva coro il Bologna, s’erano di troppo addentrati nella via della reazione, perchè dinanzi alle prime indagini infruttuose si arrestassero. Si cercò, dunque, ancora, sguinzagliando sulle orme del riminese bracchi e spie. Alla fine la Polizia fu sulle tracce della selvaggina, e il Renzi fu scovato in casa della contessa Maria Ruffo, di Rimini, che abitava in via delle Oche, nella casa segnata allora col N. 704. Si rinvenne il ricercato sotto un letto, punto eroicamente; ma già si sa, visti in camicia, nell’intimità della vita privata, gli eroi perdono la loro aureola e ridiventano uomini, specie che nel Renzi nemmeno c’era la stoffa dell’eroe, come in seguito i fatti dimostrarono. Nella stessa casa la Polizia trovò l’amante di lui, quella Polverelli colla quale questi aveva carteggiato. Richiesto dall’Ispettore delle sue generalità, il Renzi dapprima disse d’essere Antonio Stella, poi l’altro insistendo, non nascose più l’esser suo. Tratto in arresto, tutta la città e con questa tutta la Toscana, furono riempite del suo caso: imperocchè il Governo Papale era esecrato, anche da coloro che non dividevano le nuove idee di riforme; ed in tutti era vivo il ricordo delle fucilazioni e delle impiccagioni che in Romagna avevano reso infame il nome del Vicario di Cristo. Avrebbe il Governo granducale, che memore di Pietro Leopoldo non aveva mai visto di buon’occhio preti e frati, ceduto questa volta alle richieste della Corte di Roma? Oppure avrebbe opposto un rifiuto, come l’aveva opposto nel marzo di quell’anno stesso, quando avendo fatto arrestare, in seguito a dimanda d’estradizione avanzata dal Governo pontificio, il dottor Artidoro Marcolini, di Ravenna, ne rifiutò la consegna, sulla considerazione che questa non poteva farsi, per non trattarsi di prevenuti da giudicarsi da tribunali ordinari, ma da commissioni militari straordinarie?

Disgraziatamente, i nuovi ministri, insieme all’eredità del Fossombroni e del Corsini, non ne avevano raccolto nè la dignità del carattere, nè lo spirito d’indipendenza. In quei giorni medesimi, quasi vi vedessero una sanguinosa satira verso di loro, avevano vietato che alcuni amici del defunto don Neri Corsini, alla testa dei quali era il marchese Cosimo Ridolfi, mettessero in giro una medaglia da loro fatta coniare, in onore dell’ultimo Segretario di Stato perchè portava l’iscrizione: A don Neri Corsini — che insieme al decoro del Principe — Tutelò sempre quello della Patria. E sanguinosa satira alla loro codardia doveva parere quell’iscrizione al Paüer e all’Humbourg, se al potere non avevano portato altre virtù se non quelle di cortigiani compiacenti e striscianti. Difatti, non scossi dalla pubblica opinione che contro la consegna del Renzi s’era pronunziata arditamente, e sotto mille forme; non scossi dall’avversione che contro quella stolta misura non sapevano nascondere parecchi antichi e devoti servitori del principe, i quali ricordavano certe fiere risposte del Fossombroni e del Corsini, i ministri proposero al Granduca che il Renzi fosse consegnato. Leopoldo, ch’ebbe carattere sempre fiacco, dapprima tentennò; la sua coscienza, ch’era quella d’uomo onesto, si rivoltava dinanzi a quella misura che avrebbe condotto il Renzi dinanzi un picchetto d’esecuzione, o sulla scala d’una forca. Ma i principi deboli hanno questo di comune coi principi crudeli: che i primi per fiacchezza, i secondi per ferocia d’animo, acconsentono alle proposte violente. E di questa fiacchezza approfittarono i ministri a cui s’unì il Bologna, al quale i suoi quasi tre lustri di governo delle cose di polizia, davano un certo prestigio. Dipinsero codesti tristi al principe come miserrime le condizioni politiche dell’Italia, e di quelle della Toscana in particolare, e come occorressero provvedimenti energici perchè la marea rivoluzionaria non sommergesse il trono e l’altare, non senza insinuare come causa delle peggiorate condizioni fosse la politica fiacca e tollerante dei vecchi ministri. Ma i dubbi nell’animo del Granduca facevano sempre capolino, e quando essi, per un istante cedevano, era una gioia pei suoi consiglieri. Il 4 gennaio 1846, il Bologna scriveva confidenzialmente al Paüer: „S. A. I. e R. mi sembrava stamattina molto penetrata della convenienza della consegna.„ Ma, ritornati i dubbî, la gioia di quei tristi spariva. Allora si pensò di deferire il caso alla Consulta di Grazia e Giustizia, e quei malvagi consiglieri non mancarono di adoperarsi a tutt’uomo perchè il parere del Supremo magistrato non fosse l’espressione sincera della sua coscienza. Si seppe, difatti, che un membro della Consulta (designato in un biglietto confidenziale del Bologna al Paüer colle iniziali P. B.) era contrario alla consegna1; e da uno degli altri si tentò e si ottenne che cambiasse, dalla sera alla mattina, parere. E quando il collegio, due contro uno, opinò che il Renzi si potesse consegnare, ai consiglieri del principe parve toccare il cielo col dito perchè mancava la unanimità per rendere solenne il verdetto. Ma la gioia di quegli sciagurati non fu divisa, non diremo dalla popolazione, ma nemmeno dagli stessi funzionari del Governo. Questi capivano che colla consegna del Renzi si troncavano le tradizioni di ospitalità e di mitezza che avevano fatto della Toscana un paese da tutti invidiato. Ma siffatti rimpianti segretamente fatti non mutarono d’una linea la condotta dei ministri; e il 24 gennaio, tratto il Renzi dalle carceri, sotto buona scorta, fu inviato alla frontiera. Il 26 il Commissario Regio di Firenze, il Tassinari, scriveva riservatamente al Bologna: „È certo che la generalità, per non dir tutti quelli in ispecie che sono affatto estranei al doloroso affare di che si tratta, avrebbero desiderato che non fosse stata fatta la consegna.... A molti però è di conforto (Se n’era fatta sparger la voce per mitigare l’impressione prodotta della misura adottata dai ministri) che il Governo Toscano possa essersi in precedenza garantito che sarebbe non solo stata salva la vita, ma non sarebbe altresì andato incontro ad una soverchia esasperazione di pena.„ E facendosi ancora più imponente il sentimento di riprovazione verso quell’atto da tutte le classi dei cittadini, nè salvandosi da quella riprovazione lo stesso Principe, a cui estremamente cara era sempre l’aura popolare, il Regio Commissario scriveva al Presidente del Buon Governo, che dinanzi a tanto scoppio d’indignazione era quasi doveroso il riflettere che il Ministero si sarebbe risparmiato tante accuse se più consentaneo ai suoi stessi precedenti avesse soltanto sottoposto il Renzi alla carcere, per quindi rimandarlo ancora in Francia. „Difatti, soggiungeva il Regio Commissario, cosa si disse al Renzi quando fu imbarcato per Marsiglia? Che non rimettesse più piede in Toscana sotto pena, in caso di trasgressione, di tre mesi di carcere. Non poteva il Governo limitare le sue misure ad applicare al Renzi quel pronunziato?„

Al Bologna, quelle censure, fecero perdere la pazienza; ed impugnata la penna, a margine del rapporto del mite Commissario, scrisse le seguenti parole, che sono un misto di comica umiltà e di goffa presunzione. „Il sottoscritto fa umilmente osservare al sig. Regio Commissario che le sue ragioni non l’hanno per nulla persuaso, e se domani dovesse dare ancora il suo parere sul noto affare, lo darebbe per la consegna, imposta da necessità politiche e di sicurezza.„

Però mancò d’un pelo che la consegna non si facesse. Arrivati i birri, insieme al Renzi, al confine, quivi non trovarono, come era stato preventivamente stabilito, i gendarmi del Papa, e il vicario regio Balbiani ordinò che il Renzi fosse ricondotto ad Arezzo. All’ordine del vicario era già stata data in parte esecuzione, quando sopraggiunti i gendarmi, il Renzi fu ricondotto al confine e consegnato. Il Lami, che fu poi Ministro Guardasigilli, essendo allora Procuratore Generale, denunciò il Balbiani al presidente del Buon Governo qualificando il suo ordine come imprudentissimo e nello stesso tempo gli raccomandava „di farne parola a S. A. I. e R.„

In uno dei precedenti capitoli, riportammo alcune delle poesie che furono scritte e poste in giro per Firenze in occasione dell’arresto e della consegna del Renzi. Qui riproduciamo le due quartine di un sonetto attribuito dalla Polizia alla penna pungente del Salvagnoli.

A SANT’ANTONIO.

O santo protettor dei Consiglieri,
     Poichè m’han detto che proteggi i porci,
     I quadrupedi anzi bianchi e neri,
     Tutti dagli elefanti fino ai sorci,

Se in queste stalle, dette Ministeri,
     Tu non vieni, per Dio, rimedio a porci,
     Ben presto il Robespier dei Gabellieri2
     Avverrà che del capo ancor ci scorci.

La Polizia, che aveva lasciato impunito il Giusti, non volle che i nuovi Giovenali sfuggissero alle pene minacciate dalla legge contro gli autori e i diffonditori di scritti satirici ed offensivi, ed aprì contro costoro una campagna. Avendo saputo come Pietro Thouar fosse l’autore d’una stampa allora divulgata contro i ministri, ai quali si attribuiva il proposito di volere introdurre le Suore di Carità a Pisa, fu dato ordine che si procedesse in via economica contro di lui e di Filippo De Boni, il quale si riteneva autore dei due epigrammi diffusi in occasione della consegna del Renzi, l’uno dei quali cominciava:

„Per farti Roma amica„

e l’altro:

„Giunti appena al Governo questi broccoli.„

Allo stesso De Boni poi, la Polizia attribuiva una poesia poco prima diffusa in Toscana in occasione della visita fatta da Niccolò I di Russia a Gregorio XVI; poesia che girò sino a Roma e della quale, a titolo di saggio, offriamo ai nostri lettori le seguenti strofe:

Io vidi e scrivo. Oh! martiri
    D’Italia, di Polonia e del Vangelo,
    Vergini sante, cui gittava il barbaro
    Ove congiura coi tiranni il gelo,
    Entro i calici sacri un’altra volta
    Il vostro sangue fu venduto ai Re.
        Popol fanciullo, quel che vidi ascolta;
    Poi vanne e bacia dei tuoi santi il piè.

Era dorato e splendido
    Di mille candelabri il Vaticano;
    Torba la disdegnosa onda del Tevere
    Muggiva, e il tuon le rispondea lontano.
    Scheletri informi apersero le tombe
    Da più secoli chiuse e via fuggîr;
        Per tutto risuonâr le catacombe
    Di gemiti echeggianti e di sospir.

Fra salmeggianti cantici
    Entrar due regi a solitaria festa,
    Qual rovente metallo orride splendono
    Le mitre coronate in sulla testa.
    Fugge all’alito lor l’aura commossa,
    Manda ogni face un tremolo balen,
        E dei lor vestimenti ad ogni scossa
    Gronda pioggia di sangue in sul terren.

Torvo lo sguardo e pallidi
    Stettero all’ara su gemmate sedi,
    Colmâr di vino banchettando i calici,
    E a tracannarlo si levâro in piedi.
    L’un disse: — Il regno della spada è mio.
    — Mio, disse l’altro, è il regno del pensier.
    — Noi siam quaggiù l’imagine di Dio....
    — Su, dividiamci l’universo inter.

    
·········

Coro I.


Pietà! Contempla di Varsavia il danno;
    Della tua croce siam caduti al piè.

    L’anima nostra sciogli dal tiranno,
    Vicario di Cristo, o Re de’ Re!

I due guatârsi; e un orrido
    Ghigno formando, ritornare al soglio;
    L’un trasse il ferro, in sull’altar fra i calici
    Lo pose, e disse: — La Polonia io voglio!

    
·········

Coro II.


Pietà! D’Italia tu sitisti il sangue,
    Fatta serva all’estraneo e all’infedel,
    Almen concedi a chi sorvive e langue
    La libertà che tu confini in ciel.

I due guatârsi, e trepido
    Il vescovo la mitra si coperse;
    Poi trasse un libro, in sull’altar tra i calici
    Ruppe i sigilli, e il gran volume aperse.
    — Giura, qui sul Vangelo, innanzi a Dio,
    A me l’Italia! il vescovo gridò.
    — Prete, io non giuro che sul brando mio!
    E la mano sul brando egli posò.

Coro III.


Tu la giustizia, i popoli tu vendi;
    Tu vendi, o traditor, Cristo e la fè.
    Nato è il futuro, nella polve scendi;
    Dei popoli e di Dio l’ira è su te!

Allora imperatore e papa esclamano:
    — Di libertate ai popoli
    Scuola eterna è il vangelo, e a noi contrasta;
    Pera di fuoco! Sia vangelo agli uomini
    La nostra legge, il nostro cenno, e basta.
    Cristo, gridando allor Morto è il perdono!
    La stanca testa in sul petto inchinò;
    E il crocifisso con orrendo suono
    Cadde dal sacro legno e si spezzò.


Nella processura contro il Thouar e il De Boni fu coinvolto, insieme ad altri, Eugenio Albèri, essendo stato provato come alcuni degli scritti clandestini che allora circolavano per Firenze fossero stati stampati nella tipografia da lui condotta. Ma l’Albèri giustificò che a quella stampa era rimasto completamente estraneo, essendo stata eseguita durante un’assenza di lui dalla città: e il procedimento fu continuato contro gli altri prevenuti.

Sopra Filippo De Boni, sopratutto, la Polizia portò le indagini, anche perchè non toscano; ma il futuro traduttore della Vita di Gesù, del Rènan, saputo che era ricercato, prese il volo da Firenze; e quando la Polizia andò a cercarlo in casa, trovò il nido vuoto. Quasi nello stesso tempo la Polizia di Venezia chiedeva a quella di Firenze notizie su di lui; e questa, il 7 aprile, rispondeva che il De Boni per parecchi anni era stato a Firenze occupandosi di letteratura e godendo fama di buon letterato; che in seguito, avendo rilevato, come i suoi scritti letterari e drammatici fossero improntati a sentimenti liberali ed egli stesso non fosse affatto estraneo alla diffusione di componimenti sovversivi, gli era stata praticata in casa una infruttuosa perquisizione, e che infine essendo scomparso da Firenze, fu ordinato che non gli si permettesse più di rientrare nel Granducato.


  1. Dalla Storia dello Zobi (Lib. XI, Cap. VI) si sa che il Presidente Bartalini (a cui si riferiscono le iniziali del biglietto del Bologna) e il consultore Giannini furono contrarî alla consegna; fu favorevole il solo consultore Cosimo Buonarroti che macchiò così il nome grandissimo che portava.
  2. Il Baldasseroni, Ministro senza portafoglio.

Note

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