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ATTO QUINTO
SCENA I.
Una piazza pubblica vicino alla porta della città.
Marianna velata, Isabella e Pietro in distanza. Entrano da opposti lati il Duca, Varrio e Signori Angelo, Escalo, Lucio, Prevosto, Ufficiali e cittadini.
Duc. Mio degno cugino, siate il ben trovato. — Antico e fedele amico, vi riveggo con gran gioia.
Ang. e Esc. Buon ritorno a Vostra Altezza.
Duc. Grazie, grazie ad entrambi! Ci siamo informati sul vostro conto, e abbiamo udito fare tanti elogi della vostra giustizia, che non possiamo astenerci dal sapervene grado pubblicamente, in attenzione di una nostra più efficace riconoscenza.
Ang. Voi non fate che accrescere ognor più gli obblighi che ho con Vostra Altezza.
Duc. Il vostro merito è tanto, che sarebbe un oltraggiarlo il tenerlo segreto, mentre invece si dovrebbe inciderlo in caratteri durevoli sopra un eterno bronzo, che io salvasse dal dente del tempo e dalle stragi dell’obblio. Datemi la vostra mano, e i miei sudditi lo veggano, onde rimangan convinti del piacere ch’io provo nell’annunziarvi che molti favori vi serba il mio cuore. — Venite, Escalo; voi dovete accompagnarci alla nostra sinistra: entrambi siete degni che un principe si appoggi su di voi. (frate Pietro e Isabella si avanzano)
Piet. Quest’è il momento; alzate la voce e gettatevi a’ suoi piedi.
Is. Giustizia, real duca! Chinate i vostri sguardi sopra un’infelice; perchè non posso più dire sopra una vergine? Oh degno principe! non disonorate i vostri occhi rivolgendoli sopra qualch’altro oggetto se prima non avete intese le mie giuste lagnanze, e non mi avete fatto giustizia.
Duc. Che cosa chiedete? di chi vi querelate? Ecco il signor Angelo che vi darà quelle esplicazioni che dimandate: esponetegli il vostro lamento.
Is. Oh nobile duca! voi m’imponete d’interceder salvezza da un demonio. Degnatevi udirmi voi stesso, perocchè queOo che ho da rivelare, deve o farmi punire come colpevole d’impostora, farmi ottenere da voi soddisfazione. Degnatevi d’udirmi.
Ang. Signore, la di lei ragione non è molto ferma, io temo; ella m’ha chiesto grazia per suo fratello, ch’è stato condannato per giustizia.
Is. Per giustizia?
Ang. Ed ora sfogherà il suo dolore in declamazioni amare, e chi sa quanto strane.
Is. Sì, strane infatti, ma pur vere. Quest’Angelo è uno spergiuro; non è ciò strano? Quest’Angelo è un carnefice; non è ciò strano? Quest’Angelo è un’ipocrita, un corruttore di vergini, un libertino indurato: non è ciò strano, assai strano?
Duc. Stranissimo, se fosse.
Is. Vero è quanto io affermo, come è vero ch’egli è Angelo: la verità sola ho parlato.
Duc. Fatela ritirare. — Povera infelice! È la debolezza dei suoi sensi che la fa discorrere così.
Is. Oh mio principe! ve ne supplico per quanto avete di più sacro, di por mente a quello ch’io dico, e di non credere che io sia folle; non giudicate impossìbile quello ch’è inverosimile soltanto: no, impossibile non è che un uomo, ch’è il più vile scellerato della terra, rassembri così riservato, così grave, così esatto ne’ suoi doveri come sembra Angelo; sì, è possibile che Angelo, in onta di tutte le sue belle apparenze, del suo esteriore di virtù, de’ suoi titoli e delle sue parole, sia il primo dei malandrini. Credetelo, illustre principe, egli lo è anche di più di quello ch’io dico, e io non ho parole per farvi comprendere tutta la sua ignominia.
Duc. Sull’onor mio, se questa fanciulla è insensata (come debbo crederla), la sua pazzia ha tutta l’apparenza del senno; le sue idee s’incatenano l’una coll’altra, come non sogliono fare nei dementi.
Is. Grazioso duca, deponete tal pensiero, e non vi lasciate acciecare dalla superiorità di condizione del mio avversario: adoprate la vostra ragione per far uscire la verità dalle tenebre in cui sembra nascosta, e non per tener adombrata l’impostura, che mostra le apparenze della verità.
Duc. Certo, molti che passano per savi, danno a divedere minor senno di lei. — Che volevate dire?
Is. Sono la sorella d’un infelice, chiamato Claudio, condannato da Angelo a perder la testa, per un atto di concupiscenza. Io che era novizia in un monastero, fui mandata a prendere da mio fratello; e un certo Lucio mi recò il suo messaggio.
Luc. Fui io, col buon piacere di Vostra Altezza: io andai a trovarla per commissione di Claudio, e la pregai di tentare tutto ciò ch’essa potrebbe col signor Angelo, per ottenere il perdono del suo infelice fratello.
Is. Sì, fu questi che venne da me.
Duc. (a Luc.) Niuno vi disse di parlare.
Luc. È vero, mio principe; ma non mi fu detto neppure di tacere.
Duc. Ora ve lo dico, e attendete a quello che soggiungo: quando avrete qualche affare personale, pregate il Cielo che siate senza rimproveri.
Luc. Intorno a me, son tranquillo.
Duc. Lo desidero. — (a Is.) Continuate.
Is. Andai a trovare quel pericoloso e scellerato ministro.
Duc. In questa frase v’è un po’ di demenza.
Is. Perdonatemi, essa si addice al soggetto.
Duc. Non vale per ora, continuate.
Is. In breve, e per passare sotto silenzio un inutile racconto, avendo io cercato di persuaderlo colle preghiere e col gettarmi a’ suoi ginocchi, e avendolo trovato duro sempre e inflessibile, dichiaro con vergogna e dolore la conclusione infame dei nostri abboccamenti. Egli non volle mettere in libertà mio fratello che a prezzo del sacrifizio della mia castità, immolata all’intemperanza de’ suoi impudichi desiderii. La mia pietà per mio fratèllo fece tacere il mìo onore e cedei; ma il dì dopo, allorchè ebbe sfogata la sua passione, mandò ordine che gli fosse recata la testa del povero fratello mio.
Duc. Ciò è assai verosimile! (con ironia)
Is. Piacesse al Cielo che fosse solo verosimile e non vero!
Duc. Pel Cielo, sciagurata demente, tu non sai quello che dici; sei stata subornata a dire contro il suo onore da qualche malandrino. La di lui integrità va esente da simili taccio; e ragione non vi sarebbe perchè egli avesse dovuto punire così severamente in altri quei falli di cui egli medesimo si fosse reso colpevole. Se avesse commesso il delitto di cui lo accusi, avrebbe posto tuo fratello nella sua stessa bilancia, e non l’avrebbe fatto morire. Qualcuno t’ha eccitata contro di lui. Confessa il vero, e dichiara per quali suggestioni sei venuta qui a fare questo ricorso.
Is. È così che mi rispondete? Oh, voi dunque, potenze del Cielo, fatemi conservare la pazienza! e quando il tempo avrà maturate le cose, svelate il delitto che rimane qui nascosto sotto un’ipocrita apparenza. — Il Cielo guardi Vostra Altezza da ogni sciagura, com’è vero ch’io, vittima oltraggiata, vi lascio senza essere creduta da voi.
Duc. Lo so, e niente di più vi piacerebbe, che di potervene trarre così. — Ma, ufficiali, conducetela prigione. — Permetteremo noi forse che accusa così obbrobriosa cada sopra un uomo che c’è tanto affezionato? V’è certo in ciò qualche frode. — Chi v’ha consigliato questo passo?
Is. Un uomo che desidererei fosse qui: frate Luigi.
Duc. Un venerabile padre, senza dubbio. Chi lo conosce?
Luc. Io, signore, lo conosco; è un monaco raggiratore; una specie d’uomo che non mi piace: se fosse stato laico, l’avrei bastonato per alcuni discorsi sconvenevoli che fece contro Vostra Altezza mentre eravate lontano.
Duc. Parlò contro di me? È in verità un degno religioso! E poi incitò questa sciagurata a venire ad accusare il nostro virtuoso ministro! Si trovi quel monaco.
Luc. Non più tardi d’ieri, signore, quell’impudente se ne stava con lei nella prigione.
Piet. Il Cielo benedica la Vostra Augusta Altezza! Io era qui, signore, ed ho inteso le menzogne che vi venivan dette. É ingiustamente che questa giovane ha accusato il vostro ministro, che è tanto innocente da ogni impurità o commercio con lei, quanto ella stessa lo è da ogni commercio con qualunque uomo che ancora non sia nato.
Duc. Vogliamo ben crederlo. Però conoscete voi quel frate di cui ella parla?
Piet. Lo conosco per un sant’uomo, e non per un raggiratore come qui vien detto. Guarentisco poi ch’egli non ha mai sparlato di Vostra Altezza.
Duc. Nel modo più infame, vi dico; potete credermelo.
Piet. Giorno verrà in cui egli saprà giustificarsi; intanto è infermo, signore, d’una febbre violenta, ed è per sua preghiera, avendo egli saputo che si voleva qui accusare Angelo, che son venuto onde dichiarare, come di sua bocca, quel ch’egli sa esser vero e falso, e quel ch’egli stesso col suo giuramento, e con ogni altra prova dimostrerà, allorchè dovrà farne testimonianza. Intorno a questa giovane (per iscolpare quel valentuomo così pubblicamente accusato) ella sarà smentita in faccia, e dovrà confessare la sua disonestà.
Duc. Buon padre, fatemi provare questa soddisfazione. Voi ne sorrìderete, Angelo? Oh Cielo! quant’è la temerità degl’insensati! — Dateci da sedere. — Venite, Angelo, voglio essere parziale in questa bisogna; siate voi stesso giudice nella vostra causa. (Isabella è condotta via fra le guardie, e s’avanza Marianna velata) È questo il vostro testimonio, buon padre? Ci mostri prima il suo viso, e parli tosto.
Mar. Perdonatemi, signore, io non mostrerò il mio viso, finchè il mio sposo non me lo comandi.
Duc. Siete voi maritata?
Mar. No, signore.
Duc. Siete fanciulla?
Mar. No, signore.
Duc. Vedova, dunque?
Mar. No, mio signore.
Duc. Non siete nulla allora; nè fanciulla, nè vedova, nè sposa?
Luc. Potrebb’essere una meretrice, signore; perchè ve ne sono della sua specie, che non son nè fanciulle, nè vedove, nè mogli.
Duc. Fate tacere quel malnato; vorrei ch’egli avesse a parlar per se medesimo.
Luc. Sia, signore.
Mar. Signore, confesso che non fui mai maritata, e confesso inoltre che non sono fanciulla: ho conosciuto mio marito, e nondimeno mio marito non sa d’avermi mai conosciuta.
Luc. Sarà stato ubbriaco; non può essere altrimenti.
Duc. Per ottenere da te silenzio, vorrei che tu pure lo fossi.
Luc. A meraviglia, signore.
Duc. Qui non v’è nessuna testimonianza che riguardi Angelo.
Mar. Aspettate un istante. Quella giovine che l’ha accusato, ha accusato nello stesso modo mio marito, e ha detto ch’ei si rese colpevole in un momento in cui io appunto aveva il mio sposo fra le mie braccia in atto di provarmi tutto il suo affetto.
Ang. L’accusa essa di qualche cosa di più che non fa me?
Mar. No, ch’io sappia.
Duc. No? Ma chi è vostro marito?
Mar. È Angelo che crede d’esser sicuro di non aver mai goduto dell’amor mio, ma bensì di quello d’Isabella.
Ang. Questo enigma è strano: vediamo una volta il vostro volto.
Mar. Il mio sposo me lo comanda, e debbo ubbidirlo. (svelandosi) Eccolo, questo volto, crudel Angelo, che tu giurasti un tempo esser degno degli sguardi tuoi: ecco la mano che fa legata alla tua dai vincoli sacri, ecco la persona che si giacque con te, e soddisfece ai tuoi desiderii nella tenda del tuo giardino, sotto l’apparenza d’Isabella.
Duc. (a Ang.) Conoscete quella fanciulla?
Luc. Carnalmente, da quel ch’ella dice.
Duc. Tacete una volta.
Luc. Ho finito.
Ang. Signore, debbo convenire che conosco quella fanciulla; e son già cinque anni dacchè vi fu qualche proposta di matrimonio fra lei e me, proposta che non potè compiersi, perchè la dote promessa era al disotto di quanto erasi convenuto, ma più che ciò ancora perchè la sua riputazione venne offuscata, ed ella ebbe nota di leggerezza: dopo di allora non intesi più parlare di lei, non le parlai più, non più la vidi, lo giuro sull’onor mio.
Mar. Principe, quant’è vero che la luce vien dal cielo, e che le parole son formate dalla voce, che la ragione è nella verità, e la verità nella virtù, io son fidanzata a quest’uomo e sua sposa, sono unita a lui dai suoi più forti sacramenti. Nella notte del martedì scorso, nel suo giardino, io ebbi seco commercio di moglie. In nome della verità di quello ch’io vi dichiaro, soffrite che mi alzi con sicurezza dalle vostre ginocchia, o permettete altrimenti ch’io vi rimanga immobile, come il marmo di un sepolcro.
Ang. Fin qui non ho fatto che sorrìdere di queste stravaganze; ora, mio nobile signore, datemi facoltà di farmi giustizia: la mia pazienza non può conservar più modi; mi avveggo che queste sciagurate son gl’istrumenti di qualche potente nemico che le eccita contro di me; lasciatemi la libertà, signore, di porre in luce le fila di questa trama.
Duc. Con tutto il cuore, e vi esorto anche a punirle come meritano. — Tu, frate temerario, e tu, malvagia femmina, congiurata con quella che è stata condotta lungi, credi tu che i tuoi giuramenti, quand’anche invocassero tutti i santi del Cielo, potessero stare in bilancia col suo merito, la sua fede, la sua immacolata probità? Escalo, assidetevi al di lui fianco; prestategli i vostri soccorsi per iscoprire questo complotto, e la sorgente da cui deriva. — V’entra anche un altro monaco: mandatelo a cercare.
Piet. Piacesse a Dio ch’egli fosse qui, signore! perchè fu esso infatti, che spinse queste donne ad intentar l’accusa: il Prevosto sa dov’egli abita, ed egli potrà condurvelo.
Duc. Ite per ciò tosto. (al Prev. che esce) Voi, oltraggiato ministro, procedete in questo giudizio come meglio vi parrà, e infliggete quella pena che più vi piace. Vi lascio per alcuni istanti, non vi muovete di qui, se prima non abbiate sventate le frodi dei vostri calunniatori.
Esc. È quello che procureremo di fare. (il Duc. esce) Lucio, non avete detto che conoscete fra Luigi per uomo disonesto?
Luc. Cuculus non facit monachum. Egli non è onesto che nell’abito: è un uomo che ha tenuti i più infami propositi sul conto del duca.
Esc. Resterete qui finchè venga per provar quanto dite. Scopriremo in quel frate un gran malandrino.
Luc. Il maggiore che vi sia in Vienna, ve ne assicuro.
Esc. Ritorni Isabella; vorrei parlare con lei. — Vi prego (ad Ang.) di lasciare a me il carico d’interrogarla: vedrete come saprò metterla a nudo.
Luc. Non meglio di quello ch’egli abbia fatto, da ciò ch’essa dice.
Esc. Che cosa intendete?
Luc. Intendo che si lascierebbe mettere a nudo piuttosto in privato che in pubblico: la vergogna in pubblico forse gliene impedirebbe.
Esc. La guiderò meco in disparte, e l’adagierò come merita.
Luc. Quest’è il vero mezzo: perchè dinanzi agli altri le donne son sempre ritrose. (rientrano Uffiziali con Isabella, il Duca vestito da frate e il Prevosto)
Esc. (a Is.) Venite, donzella: ecco una giovane che nega tutto quello che avete detto.
Luc. Signore, questo è il miserabile di cui vi ho parlato; egli viene col prevosto.
Esc. Molto opportunamente. — Non gli parlate senza che ve l’ordiniamo.
Luc. Sarà fatto.
Esc. Avanzatevi, messere. Foste voi che eccitaste queste giovani a calunniare il signor Angelo? Esse han confessato che foste il loro istigatore.
Duc. Ciò è falso.
Esc. Sapete a chi parlate?
Duc. Omaggio e rispetto alla vostra dignità, ma il demonio stesso qualche volta è onorato a cagione del suo splendido trono. — Dov’è il duca? È egli che deve intendermi.
Esc. Il duca risiede in noi e noi vi udiremo: pensate a dire da verità.
Duc. Parlerò almeno liberamente. — Ma oimè! Povere sfortunate, veniste voi qui a cercar l’agnello negli antri della volpe? Qui non v’è giustizia. Il duca è partito, e la vostra causa è perduta. Fu un’ingiustizia del duca il non udire il vostro reclamo, e il rimetterne l’esame allo scellerato che veniste ad accusare.
Luc. Ecco il furfante; è quegli di cui vi ho parlato.
Esc. Frate irriverente e profano, non ti basta d’aver subornate queste giovani, onde accusino un uomo virtuoso, senza che l’infame tua bocca venga ancora a dirgli che è uno scellerato? E il duca ancora osi chiamare ingiusto? Guidatelo lungi di qui; infliggetegli una crudele tortura. Gli premeremo le membra fra piastre di ferro, fino che abbia svelate tutte le sue colpe. Il duca è ingiusto?
Duc. Non vi accendete tanto. Il duca non oserebbe neppur pungermi un dito con un ago: non sono suo suddito, nè debbo rendergli conto della mia condotta. I doveri del mio stato mi han messo a tale di osservare i costumi di Vienna, ed ho veduto ribollirvi tutti i vizii: vi ho vedute leggi per ogni delitto, ma così poco osservate, che servono a far ridere, piuttostochè a far tremare.
Esc. Calunniar lo Stato! Sia guidato prigione.
Ang. Messer Lucio, che cosa potete dir contro quest’uomo? È quello di cui ci avete parlato?
Luc. Quello, signore. — Venite qua, mio buon vecchio dalla testa calva. Mi conoscete?
Duc. Vi conosco al suono della voce: vi ho veduto nelle prigioni nell’assenza del duca.
Luc. E rammentate quello che mi avete detto del duca?
Duc. Assai chiaramente.
Luc. Affè? E il duca era dunque un mercante di carne umana, un pazzo, un vile, come l’assicuraste?
Duc. Bisogna, signore, che mutiate di persona con me, prima di metter tali propositi sul mio conto: foste voi che parlaste in tal guisa di lui, e che ne diceste anche peggio.
Luc. Oh scellerato! Non t’avventai io una gotata per le tue scortesi parole?
Duc. Protesto che amo il duca quanto me stesso.
Ang. Udite come il marrano vorrebbe trarsi d’impaccio dopo i suoi tradimenti e i suoi oltraggi?
Esc. Non attendiamo più oltre a colui: guidatelo in prigione. Dov’è il prevosto? Guidatelo in prigione: chiudete a doppie sbarre le sue porte: ch’ei non apra più bocca. — Quelle sciagurate sian del pari condotte via. (il Prev. afferra il Duca)
Duc. Indugiate, signore; indugiate, anche un istante.
Ang. Che! Resiste egli? Aiutatelo, Lucio.
Luc. Venite, messere, venite, messere, venite, messere; vergogna, messere. Testa calva, vile impostore! Bisogna scappucciarti perchè mostri come è fatto il viso d’un mariuolo! Fammi vedere questo tuo volto da ribaldo, e vanne poscia al patibolo! Tu nol vuoi? (strappa il cappuccio al frate, e si scopre il duca)
Duc. Tu sei il primo furfante che mai facesse un duca. — Prima di tutto. Prevosto, pensa ch’io son garante per queste tre oneste persone. Non cercar di fuggire, (a Luc.) fra il frate e te deve prima aver luogo una spiegazione. — Impadronitevi di lui.
Luc. La cosa potrebbe finir anche peggio che in un’appiccatura.
Duc. (a Esc.) Quello che voi avete potuto dire ve lo perdono; assidetevi, egli nè presterà il suo posto, (additando Angelo) Sgombrate di qui (a Ang.) Vi restano ancora parole, o impudenza che possa giovarvi? Se ne hai ancora, fidati in essa fino a che si sia udito il mio racconto, e non indugiare di più a metterla in opera.
Ang. Mio tremendo sovrano, mi renderei più colpevole che non mi ha fatto il mio delitto, se imaginassi di meritar grazia, allorchè veggo che voi come un’intelligenza divina avete veduta tutta la mia condotta passata. Non indugiate dunque di più, buon principe, a scagliar la folgore, e pronunziate sull’istante la mìa sentenza di morte: è la grazia che vi chieggo.
Duc. Avvicinati, Marianna. — Rispondi, (a Ang.) Hai tu impegnata la tua fede con questa fanciulla?
Ant. Sì, mio signore.
Duc. Conducila dunque lungi di qui, e sposala tosto. — Frate, compite la cerimonia, e poscia ritornate qui tutti. — Accompagnali, Prevosto. (escono Ang., Marianna, Pietro e il Prevosto)
Esc. Signore, son più confuso del suo disonore, ch’io non potrei esprimerlo.
Duc. Avvicinatevi, Isabella, il vostro frate è divenuto il vostro principe, e come io era allora zelante nel porgervi salutari consigli, e attento ai vostri interessi, cangiando abiti, senza cangiar sentimenti, rimango sempre propenso a giovarvi.
Is. Ah! vogliate perdonarmi tutti i fastidi che vi ho dati.
Duc. Ve li perdono, Isabella, e voi, cara fanciulla, siate del pari generosa per noi. L’imagine della morte di vostro fratello, lo so, non esce dal vostro cuore, e voi potreste stupire perch’io mi sia travestito, per adoperarmi a salvare la sua vita, e perchè dato non mi sìa a conoscere piuttosto che lasciarlo perire. Tenera sorella, fu la fretta con cui gli venne inflitta la morte, che io mai non avrei potuto imaginare, che mandò a vuoto i miei divisamenti. Ma la pace sia con lui! La vita di cui egli gode non ha più tema di morte, ed è vita appo cui la nostra non appare che un sogno. Consolatevi coll’idea che vostro fratello è felice.
Is. È quello che fo, signore. (rientrano Angelo, Marianna, frate Pietro e il Prevosto)
Duc. Quanto a quel nuovo sposo che si avanza verso di noi, la di cui lasciva imaginazione ha oltraggiato il vostro onore quantunque sì ben difeso, voi dovete perdonargli in contemplazione di Marianna. Ma rispetto alla condanna che egli ha pronunziato contro vostro fratello, doppiamente reo in ciò per la doppia violazione, e della sacra castità, e della promessa fattavi di salvar Claudio, la clemenza stessa della legge chiede per tal opera ad alta voce, e per bocca dello stesso suo ministro: Angelo per Claudio, morte per morte; celerità per celerità, durezza per durezza, rappresaglia per rappresaglia e misura per misura. Ecco dunque. Angelo, il tuo delitto manifesto; e se anche tu volessi negarlo non potresti farlo con espediente alcuno. Noi ti condanniamo per questo a morire su quel medesimo patibolo in cui morì Claudio e colla stessa celerità. — Conducetelo al suo destino.
Mar. Oh! mio buono e pietoso sovrano, spero che non avrete voluto farvi giuoco di me, dandomi uno sposo per poi togliermelo tosto.
Duc. È il vostro sposo che si è fatto scherno di voi. Volendo redimere il vostro onore ho creduto il vostro matrimonio necessario, e perciò l’ho effettuato. Sebbene le sue ricchezze ricadano in noi per confisca, noi ve ne facciamo dono, ed esse diverranno la vostra dote di vedova, e vi faran trovare un più degno consorte.
Mar. Oh caro principe! non ne desidero nessun altro.
Duc. Non insistete; la mia determinazione è presa.
Mar. Mio buon signore..... (inginocchiandosi)
Duc. Sperdete invano le parole: ch’ei sia condotto a morte. — Ora, veniamone a voi, messere. (a Luc.)
Mar. Mio principe! Cara Isabella, seconda le mie preghiere, gettati con me alle sue ginocchia, e ti consacrerò tutta la mia vita avvenire.
Duc. Voi siete irragionevole infestandomi; se ella mi chiedesse grazia per questo delitto, l’ombra di suo fratello aprirebbe un abisso al disotto di lei, e la farebbe precipitare.
Mar. Isabella, cara Isabella, accordami quel ch’io ti chieggo, inginocchiati insieme con me: alza le tue mani verso il duca soltanto; non dir nulla, io parlerò. Si narra che gli uomini i più perfetti non vadano scevri da qualche menda, e che quelli che hanno avuto qualche debolezza possano divenir anche i più virtuosi; mio marito è forse di tal numero. Oh Isabella! non vorrai tu fare quel ch’io ti domando?
Duc. Egli muore per la morte di Claudio.
Is. (inginocchiandosi) Principe, pieno di bontà, degnatevi vedere quel condannato coll'occhio medesimo con cui lo vedreste se mio fratello vivesse ancora. Son inchinata a credere che un’illibata onestà ha dirette tutte le sue opere fino a che ei m’ha veduta; e ciò essendo fate ch’ei non muoia! Mio fratello ha subita la giustizia della legge, avendo commessa l’azione che ella condannava. Rispetto ad Angelo, la sua cattiva intenzione è stata senza effetto, e bisogna dimenticarla come un disegno svanito. I pensieri non son soggetti alla legge, e i disegni non son che pensieri.
Mar. Ella parla il vero, signore.
Duc. Le vostre preghiere sono inutili; alzatevi, vi dico. Mi rammento ancora di un altro delitto. — Prevosto, come fu che Claudio venne decapitato a un’ora così insolita?
Prev. Ciò mi fu comandato.
Duc. Aveste un ordine scritto ed apposito?
Prev. No, ricevei un messaggio segreto.
Duc. E perciò vi spoglio del vostro uffizio: cedete ad altri quelle chiavi.
Prev. Vogliate perdonarmi, signore; se commisi un fallo, me ne pentii assai dopo, e per darvene prova, vi è un uomo in prigione che per un egual ordine segreto ricevuto doveva di già essere giustiziato, e che vive ancora.
Duc. Chi è egli?
Prev. Il suo nome è Bernardino.
Duc. Vorrei vi foste comportato del pari con Claudio. — Ite fate venir qui quel prigioniero, ch’io lo vegga. (il Prev. esce)
Esc. Ben mi duole che un uomo, che è sembrato sempre tanto probo e illuminato quanto voi, signor Angelo, sia caduto in un fallo così turpe, trascinatovi dall’ardore dei sensi.
Ang. Ed io son dolente di esser cagione di tanti mali, e mi strazia il cuore un rimorso così aspro, che desidero più assai la morte che il perdono: l’ho meritata e l’imploro. (rientra il Prevosto con Bernardino, Claudio e Giulietta)
Duc. Qual è Bernardino?
Prev. Questi, signore.
Duc. V’è un frate che mi parlò di lui. — Prigioniero, si dice che tu hai un’anima stupida, che non vedi nulla al di là di questo mondo, e che su tal tua opinione regoli la tua condotta; tu sei condannato, ma quanto ai tuoi falli e alla loro punizione in questa terra, io te li rimetto. Usa di questo perdono per apparecchiarti ad una miglior vita. — Frate, illuminatelo coi vostri consigli, a voi lo affido. — Or chi è quell’altro che si tien così nascosto il volto col mantello?
Prev. È un prigioniero che ho pure salvato, e che doveva perir in pari tempo con Claudio: egli somiglia tanto a Claudio che si cambierebbe con esso. (toglie il mantello a Claudio)
Duc. (a Is.) Se somiglia a vostro fratello, ha già ottenuto il suo perdono in contemplazione di lui; e voi, Isabella, per amore del vostro cuor dolce, datemi la vostra mano, e dite che accettate la mia; egli è del pari mio fratello; ma rimettiamo ad altro momento questa bisogna. Ora il signor Angelo comincia a credere che i suoi giorni sian salvi; parmi di vedere un raggio di speranza ne’ suoi occhi. Su via, Angelo, il vostro delitto vi riesce ben vantaggioso. Pensate ad amare la vostra sposa, ella ne è degna. Sebbene senta nel mio cuore un’inclinazione alla clemenza, vi è pure fra di noi un uomo a cui non posso perdonare. Voi, amico, (a Luc.) che mi avete conosciuto per un insensato, un vile, un libertino, un tristo, ditemi in qual guisa ho meritato che faceste di me tal panegirico?
Luc. In verità, signore, non parlai così, se non perchè la moda lo esigeva. Se volete mandarmi alla forca per quei discorsi, lo potrete fare, ma più mi piacerebbe che mi faceste soltanto battere.
Duc. Battuto prima, e poscia appiccato, messere. — Prevosto, fate bandire per tutta la città che se v’è qualche donna oltraggiata da costui, come gl’intesi io stesso giurare che ve n’è una di lui incinta, si presenti a me, ed ei dovrà sposarla: compite le nozze sarà appiccato.
Luc. Scongiuro Vostra Altezza di non volermi accoppiare ad una prostituta. Vostra Altezza ha detto or ora che ho fatto di voi un duca, non vogliate ricompensarmene, mio sovrano, facendo di me un capro.
Duc. Sull’onor mio, la sposerai. Ti perdono le tue calunnie e tutte le altre tue offese, a patto che tu ti rassegni a questo matrimonio. — Guidatelo in carcere, e abbiate cura che i miei ordini siano eseguiti.
Luc. Ammogliarmi ad una donna pubblica, signore, è peggio che condannarmi alla forca.
Duc. Calunniare un principe è delitto che merita tal castigo. — Voi, Claudio, pensate a riparare l’onore di quella che avete offesa: a voi, Marianna, auguro ogni felicità; amatela, Angelo, io l’ho confessata, e so quanto sia virtuosa. — Vi ringrazio, Escalo, mio degno amico, della vostra grande bontà; nell’avvenire vi darò altre prove della mia riconoscenza. Te ringrazio pure, Prevosto, delle tue cure e della tua discrezione: t’impiegherò in ufficii meglio adatti al tuo cuore. Perdonategli, Angelo, per aver egli portata la testa di un malandrino invece di quella di Claudio. È fallo che ha in sè il suo perdono. — Cara Isabella, debbo farvi una dimanda che riguarda la vostra felicità, e se volete prestarmi orecchio docile, quello che è mio sarà vostro, e quello che è vostro sarà mio. — Su, andiamo; entriamo nel nostro palagio: là vi riveleremo quello che è ancora nascosto, e di cui giova che siate istrutti. (escono)
FINE DEL DRAMMA.