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PARTE SESTA
I.
Torniamo un poco a Mensola, la quale
Sen gia pensosa e sola su pel monte;
E parendole aver fatto pur male,
Forte pentiesi, e con le man la fronte
Si percotea, dicendo: poi che tale
Fortuna m’ha percossa con tant’onte,
Deh morte vieni a me, ch’io te ne priego,
II.
Così passò del gran monte la cima,
E poi scendendo giù per quella costa,
Là dove il sol percuote quando prima
Si leva, e che ad oriente è contrapposta,
Secondo che il mio avviso estima,
Era la sua caverna in quella posta,
Forse un trar d’arco sopra il fiumicello
Ch’appiè vi corre con grosso ruscello
III.
E giunta alla caverna sua, in quella
Entrò occupata di molti pensieri;
E quivi ogni sua doglia rinnovella,
Dicendo: lassa a me! perchè l’altrieri,
Quando Affrico mi vide tanto bella
Con Dïana alla fonte da primieri,
Non fu’ io morta il giorno maladetto,
IV.
Non so giammai, tapina, con qual faccia
Vada innanzi a Dïana, nè che modo
Io mi debba tener, nè ch’io mi faccia,
Che di paura mi consumo e rodo;
E ogni senso dentro mi s’agghiaccia,
E nella gola mi s’è fatto un nodo
Per la malinconia e pel dolore
V.
Deh morte vieni a questa sventurata,
Vieni a questa mondana peccatrice;
Vieni a colei che ’n malora fu nata,
Non t’indugiar, che mi fie più felice
Morire aval, poic’ho contaminata
La mia verginità; che ’l cor mi dice,
Che se da te non vorrai molto tosto,
Di farmi incontro a te ho il cor disposto.
VI.
Oimè, compagne mie, voi non pensate
Ch’io sia uscita fuor di vostra schiera:
Oimè, compagne mie, che solevate,
Tenermi tanto cara, quand’io era
Senza peccato e con virginitate,
Ora mi caccerete come fiera,
E come quella ch’al tutto ha corrotta
VII.
Io posso annoverata essere omai,
O Calisto, con teco; che com’io
Già fosti ninfa, e poi con molti guai
Dïana ti cacciò per ogni rio,
Perchè t’ingannò Giove, come sai,
Ed in orsa crudel ti convertìo,
E givi errando e le cacce temevi,
VIII.
O Ciala ninfa a Dïana compagna,
La qual fosti sforzata da Mugnone,
Dïana, che di te ancor si lagna,
T’uccise nelle braccia del garzone:
Ora se’ fatta fonte, e Mugnon bagna
Appiè di te le ripe del vallone:
Io son di vostra schiera al mio dispetto,
Così sia questo giorno maladetto.
IX.
E’ mi par già che Dïana trasmuti
Le gambe mie in un corrente fiume,
Ovvero in fiera con dossi velluti;
E come uccel mi pare aver le piume,
O alber fatta con rami fronzuti,
E di persona perduto il costume;
Nè son più degna dell’arco portare,
X.
O padre, o madre, o fratelli, o sorelle,
Quando a Dïana prima mi sagraste,
E vestistimi le sacre gonnelle,
Ben mi ricorda che mi comandaste
Che a Dïana ubbidissi, e tutte quelle
Che seguon lei, e poi m’accompagnaste
In questi monti, non perch’io peccassi,
XI.
Voi non pensate ch’abbia rotta fede
Alla sacra Dïana, nè ch’io sia
In tanta angustia, nè niun di voi vede
In quanta pena sta la vita mia;
Che se ’l sapeste, nè pietà nè mercede
Non avreste di me, ma come ria
E peccatrice me uccidereste,
E certamente molto ben fareste.
XII.
Sì grande era la doglia e ’l gran lamento
Che Mensola menava, e l’angoscioso
E duro pianto con grieve tormento,
Ch’io nol potrei mai por sì doloroso
In scrittura, che per ognun cento
Maggior non fosse il suo parlar pietoso,
Ch’avrebbe fatto le pietre e gli albori
XIII.
Con cotali lamenti e pianto amaro
Logorò quella notte; ma apparito
Che fu il giorno bellissimo e chiaro,
Perchè la notte non avea dormito,
Sì gli occhi lagrimosi l’aggravaro,
Ch’ogni spirito fu da lei partito;
Addormentossi mentre che piangea,
XIV.
Affrico, che nell’amoroso foco
Ardeva più che mai, si fu levato,
Come vide il mattin, cha molto poco
La notte avea dormito, e fu inviato
Sus’alto al monte, e giunto fu nel loco,
Dove con Mensola il giorno passato
Avea preso piacer, diletto e gioia,
Come che alfine gli tornasse in noia.
XV.
Quivi credette Mensola trovare,
Ma non trovando lei, in fra sè disse:
Egli è ancora assai tosto; e aspettare
La incominciò, perchè quando venisse
Quivi il trovasse; e perchè ’l soprastare
Non gli paresse lungo, sì si misse
Per far ghirlande ind’oltre a coglier fiori
XVI.
E fatta che n’ebbe una, in su’ capelli
Biondi di lui si mise, e la seconda
Cominciò a far d’alquanti fior più belli,
Mescolando con essi alcuna fronda
D’odoriferi e gentili arboscelli,
Dicendo: questa in su la treccia bionda
Con le mie man di Mensola porroe
XVII.
Così aspettando invano il giovinetto
Mensola sua, la quale ancor dormia,
Cogliendo fiori ind’oltre a suo diletto
Perchè aspettarla grave non gli sia,
E riguardando spesso nel boschetto,
Or qua or là, se Mensola venia,
Ed ogni busso che ode o che vede
Foglia menar, che Mensola sia crede,
XVIII.
Ma sendo l’ora già più che di terza,
E non vedendo Mensola venire,
Aspettò tanto che del sol la sferza
Era sì calda, che già sofferire
Non si potea, onde più non ischerza
Con fiori e con ghirlande, ma sentire
Cominciò pena, e farsi maraviglia,
XIX.
E cominciò, oimè, seco dicendo,
Che vorrà questo dir, ch’ella non viene?
E ’n fra sè pensier nuovi va volgendo,
Scuse trovando spesso alle sue pene,
E di lei mille casi al core avendo,
Siccome ad altri spesse volte avviene,
Che disiando che la cosa venga
XX.
Passò la nona, e ’l vespro, e già la sera
Era venuta, e ’l giorno era fuggito
Che Mensola venuta mai non era,
Ond’Affrico rimase sbigottito,
Forte doglioso, e con turbata cera
Di partirsi di lì prese partito,
Dicendo: forse ch’ella avrà trovato
Tra via le sue compagne in qualche lato;
XXI.
Le quali l’avran forse ritenuta,
Però l’aspettar mio sarebbe vano:
E veggo già la notte esser venuta,
E i’ ho a ir di qui molto lontano;
E bench’io abbia oggi la beffa avuta
Per aspettarla in questo loco strano,
Io ci ritornerò pur domattina;
XXII.
Mensola s’era in su la nona desta,
Tutta dogliosa e forte addolorata,
Sendole molte cose per la testa
Gite, ch’ella se n’era spaventata,
Ma non l’impedì tanto la tempesta,
Ch’ella avesse però dimenticata
Ciò che ’l giorno davanti avea promesso
XXIII.
Ma tanto s’era di quel ch’avea fatto
Pentuta, che disposta è non tornare
Dove avea fatto con Affrico patto
Di doversi quel dì con lui trovare:
Ma quanto ella potesse in ciascun atto,
Volere il fallo suo grande occultare,
Acciocchè quando Dïana venisse
Il fallo ch’avea fatto non sentisse.
XXIV.
Nè però le potè giammai del core
Affrico uscire, che continuamente
Non gli portasse grandissimo amore,
E che nol disiasse occultamente;
Ma tanto la stringea forte il timore
Che aveva di Dïana nella mente,
Ch’ella non andò mai dove credesse
XXV.
Così passò ’l secondo e ’l terzo giorno,
E ’l quarto e ’l quinto e ’l sesto, e anco il mese,
Ch’Affrico mai non vide il viso adorno
Della sua amante: ma con molte offese
Vivea, facendo sovente ritorno
Nel luogo dove Mensola sua prese,
In qua e in là per lo monte cercando,
XXVI.
Ma nulla venia a dir la sua fatica,
Che la fortuna già fatta invidiosa
Di lui, e d’ogni suo piacer nimica,
Volle por fine misera e dogliosa
Alla sua vita dolente e mendica,
Come quella che mai non trova posa,
Ma sempre va le cose rivolgendo
Del mondo, nulla mai fermo tenendo.
XXVII.
Perchè già sendo un mese e più passato,
Che non potea mai Mensola vedere,
Essendogli pel gran dolor mancato
Sì la natura, e la forza e il potere,
Che un animal parea già diventato
Nel viso e nel parlare e nel tacere:
E il capo biondo, smorto era venuto,
XXVIII.
Essendo un giorno a guardia del suo armento
Ind’oltre appiè del monte, come spesso
Egli era usato, gli venne talento
Di gire al loco là dove promesso
Da Mensola gli fu con saramento
Di ritornare a lui, e fussi messo,
Lasciando del bestiame il grande stuolo,
XXIX.
E pervenuto all’acqua del vallone
Ove Mensola sua sforzata avea,
Quivi mirandosi intorno il garzone,
O Mensola, in fra sè stesso dicea,
I’ non credetti mai tal tradigione
Della tua fè, che promesso m’avea
Di ritornar con saramenti e giuri;
Or par che poco di me o d’Iddio curi.
XXX.
Non ti ricorda quando colle mani
Insieme in questo loco ci pigliammo,
E con tuoi saramenti falsi e vani
Dicesti di tornar; poi ci baciammo
Insieme gli occhi, che stanno or lontani,
Ed in quel luogo poi ci partivammo?
Non ti ricorda quanti testimoni
XXXI.
Io non potrei mai dir quanti lamenti
Affrico fece il dì quivi piangendo:
E per crescer maggiori i suoi tormenti,
Giva ogni cosa quivi rivolgendo,
Del suo amore tutti gli accidenti
Buoni e cattivi; e per questo crescendo
La doglia sua ognor molto maggiore,
XXXII.
E sopra l’acqua del fossato gito,
L’aguto dardo si recava in mano,
E al petto si ponea ’l ferro pulito,
E in terra l’asta, dicendo: o villano
Amor, che m’ha’ condotto a tal partito,
Ch’io mora in questo modo tanto strano;
E pure innanzi ch’io voglia più stare
In cotal vita, mi vo’ disperare.
XXXIII.
O padre, o madre, fatevi con Dio,
Io me ne vo nell’inferno angoscioso,
E tu fiume ritieni il nome mio,
E manifesterai il doloroso
Caso ch’è occorso, sì crudele e rio:
Ed a chi ti vedrà sì sanguinoso
Correre, o lasso, del mio sangue tinto,
XXXIV.
E detto questo, Mensola chiamando,
Il ferro tutto nel petto si mise,
Il quale al cor tostamente passando
Del giovanetto, con doglia l’uccise:
Perchè morto nell’acqua allor cascando,
L’anima da quel corpo si divise;
E l’acqua che correa per la gran fossa
XXXV.
Facea quel fiume, siccome fa ancora,
Di sè due parti, alquanto giù più basso,
E quella parte che fa minor gora,
Presso alla casa del giovane lasso,
Correva sanguinosa, essendo allora
Giraffon fuori, e vide il fiume grasso
Di sangue, perchè subito nel core
Gli venne annunzio di futur dolore.
XXXVI.
Perchè senza dir nulla, di presente
N’andò dove e’ sentì ch’era il suo armento:
E non trovando Affrico, immantinente
Su per lo fiume non con passo lento
Tenne per trovar dove primamente
Di quel sangue venia ’l cominciamento,
E di chi fosse, e chi n’era cagione,
XXXVII.
Quando vide il figliuol morto giacere,
Col dardo fitto nel giovinil petto,
Appena in piè si potè sostenere,
Sì fu da dolor subito costretto;
E per l’un braccio con gran dispiacere
Il prese, e disse: oimè, qual maladetto
Braccio fu quel che ti Fonte/commento: ed. 1477diè tal fedita,
XXXVIII.
Egli il trasse dell’acqua, e in sulla riva
Il pose lagrimando il padre vecchio,
E con dolor quel giorno maladiva,
Dicendo: o figlio del tuo padre specchio,
Or che farà la tua madre cattiva,
Che non avrà giammai un tuo parecchio?
Che farem noi tapini e pien di duoli,
Poichè rimasi siamo di te soli?
XXXIX.
E ’l fitto dardo gli cavò del core,
E il ferro rimirava con tristizia,
Poi diceva con pianto e con dolore:
Chi tel lanciò con sì crudel nequizia
Nel petto, figliuol mio, con tal furore?
Ch’io n’ho perduto ogni bene e letizia:
Credo che fu Dïana dispietata,
XL.
Ma poi ch’egli ha quel dardo rimirato
Più e più volte, conobbe ch’egli era
Quel che ’l suo figlio sempre avea portato,
Perchè con trista e lagrimosa cera
Disse: o tapin figliuolo sventurato,
Qual fu quella cagion cotanto fiera
Che ti condusse qui a sì ria sorte,
XLI.
Poi dopo molto ed infinito pianto
Giraffone il figliuol si gittò in collo,
E con quel dardo doloroso tanto
Alla casetta sua così portollo:
E alla madre il fatto tutto quanto,
Piangendo tuttavia, raccontollo,
E ’l dardo le mostrava, e sì diceva
Come del petto tratto gliel’aveva.
XLII.
Se la madre fe’ quivi gran lamento
Non ne domandi persona nessuna,
Che dir non si potrebbe a compimento
Le grida e il pianto per cosa veruna:
E quanta doglia sentì con tormento,
Bestemmiando gl’Iddei e la fortuna,
E il viso stretto con quel del figliuolo
XLIII.
Pure alla fine, siccom’era usanza
A quel tempo di far de’ corpi morti,
Così allor, dopo gran lamentanza,
E urli e pianti durissimi e forti,
Arson quel corpo, con grande abbondanza
Di lagrime e dolor senza conforti,
Come color ch’altro ben non aveno,
XLIV.
E poi ricolson la polver dell’ossa
Del lor figliuolo, e al fiume se n’andaro,
Là dove l’acqua ancor correva rossa
Del proprio sangue del lor figliuol caro,
E in su la riva feciono una fossa,
E dentro in quella poi vel sotterraro,
Acciocchè ’l nome suo non si spegnesse,
Ma sempre mai il fiume il ritenesse.
XLV.
Da poi in qua quel fiume dalla gente
Affrico fu chiamato, e ancor si chiama:
Quivi rimase sol tristo e dolente
Il padre, e la sua madre molto grama:
Tal fu la fine d’Affrico piacente,
E così al fiume rimase la fama.
Or lasciam qui, e ritorniamo omai
XLVI.
Mensola in questo mezzo assai dolente
Era vivuta e con malinconia,
Ma pur veggendo che levar niente
Di ciò che fatto avea non si potia,
De’ casi avversi venne pazïente,
E cominciò alla sua compagnia
Alcuna volta pure a ritrovarsi,
XLVII.
E più fïate si trovò con quelle
Ninfe che ’l giorno con lei eran sute
Che Affrico la prese, e le novelle
Per tutte l’altre già eran sapute,
Non dico del peccato, ma com’elle
Dal giovane pigliar furon volute,
E Mensola con sue scuse e bugie
Fe’ credere che ella si fuggie.
XLVIII.
Così più ogni giorno assicurata
Mensola s’era, da poi ch’ella vede
Che dalle sue compagne era onorata
Siccome mai, e ciascuna si crede
Che com’elle non sia contaminata,
Ed alle sue bugie si dava fede,
E perchè ancora a Dïana credea
XLIX.
Non però amor l’avea tratto del petto
Affrico, e ch’ella non si ricordasse
Del nome suo, e del preso diletto,
E che tacitamente nol chiamasse,
Quando avea tempo, e ch’alcun sospiretto
Assai sovente per lui non gittasse,
Siccome innamorata, e paurosa
L.
E come far solea, già cominciava
Colle compagne sue, col dardo in mano,
A gir cacciando; e quand’ella arrivava
Dove Affrico la prese, di lontano
Quel luogo rimirando sospirava,
Dicendo in fra sè stessa molto piano:
Affrico mio, quanto di gioia avesti
Già in quel loco quando mi prendesti!
LI.
Or non so io che di te più si sia,
Ma credo ben che stai in gran tormento
Per me: ma non è già la colpa mia,
Paura è che mi toglie ogni ardimento:
Così dicendo volentier vorria
Affrico suo aver fatto contento,
Ove credesse che giammai saputo
LII.
Vivendo adunque Mensola in tal vita,
Innamorata e suggella a temenza,
Alquanto nel bel viso impalidita
Era venuta per quella semenza
Che nel suo ventre già era fiorita;
Passò tre mesi senza aver credenza
Di partorir giammai, o far figliuolo,
LIII.
Ma facendo suo corso la natura,
In capo di tre mesi incomincioe
A manifesta far la creatura
Che dentro al venire suo s’ingeneroe,
Per la qual cosa a sè ponendo cura,
Mensola forte si maraviglioe,
Vedendosi ingrossare il corpo e’ fianchi,
E di gravezza pieni e fatti stanchi.
LIV.
Di questo si facea gran maraviglia
Mensola la cagion non conoscendo,
Come colei che mai figlio nè figlia
Non avea avuto; ma fra sè dicendo:
Saria questo difetto, che mi piglia
Sì la persona, e ch’ognor va crescendo:
E ogni giorno vengo più pesante,
LV.
Una ninfa abitava in quella piaggia;
Un mezzo miglio a Mensola vicina,
A una spelonca profonda e selvaggia,
Ch’era maestra d’ogni medicina;
Sopra dell’altre ell’era la più saggia,
E ben sapea di ciascuna dottrina,
E di cento anni o più ell’era vecchia,
LVI.
Mensola puramente n’andò a questa,
E disse: o madre nostra, il tuo consiglio
M’è di bisogno; e poi le manifesta
Il caso suo e ciascun suo periglio:
Sinedecchia con la crollante testa
Rispose tosto con turbato ciglio:
Figliuola mia, tu hai con uom peccato,
E non puoi tener più questo celato.
LVII.
Mensola nel bel viso venne rossa,
Udendo ta’ parole, per vergogna,
E non veggendo che negar lo possa,
Con gli occhi bassi timida trasogna,
Volendosi mostrar di questo grossa;
Ma poi veggendo che non le bisogna
Celarlo a lei, che tutto il conoscea,
LVIII.
Sinedecchia veggendo il suo lamento,
E la vergogna e la sua puritade,
Avvisò che di suo consentimento
Non fosse questo, nè sua volontade,
Ma fosse stato con isforzamento,
Perchè alquanto ne le venne pietade,
E per volerla un poco confortare,
LIX.
Figliuola mia, questo peccato è tale,
Che nol potrai celarlo lungamente;
E come ch’abbi fatto pur gran male,
Non vo’ però che tanto fieramente
Tu ti sconforti, ch’omai poco vale
Se tu te n’uccidessi veramente;
Ma vegnamo a’ rimedi, e dimmi come
E chi ti tolse di castità il pome.
LX.
Niente a questo Mensola risponde,
Ma per vergogna il capo in grembo pose
A Sinedecchia, e ’l bel viso nasconde
Udendo rammentarsi cota’ cose,
E gli occhi suoi parean fatte due gronde
Che fosson d’acqua molto doviziose,
Tanto forte plangea dirottamente,
LXI.
Ma Sinedecchia pur le disse tanto
Con sue parole, ch’ella confessoe
Con voce rotta e con singhiozzo e pianto,
Sì come un giovanetto l’ingannoe,
E in che modo il fatto tutto quanto,
E come ultimamente la sforzoe,
E poi a pianger cominciò più forte
LXII.
La vecchia ninfa, quando questo intese,
Come per sottil modo fu ingannata,
E quanti lacci quel giovane tese,
Pietà le venne della sventurata:
Poi con parole alquanto la riprese
Del fallo suo, perchè un’altra fïata
Sotto cotal fidanza non peccasse,
E perchè più ingannar non si lasciasse.
LXIII.
Poi tanto seppe dirle e confortarla
Ch’ella la fe’ di piangere restare,
Promettendole sempre d’aiutarla,
Come figliuola, in ciò che potrà fare.
Poi d’ogni cosa volendo avvisarla,
In questo modo cominciò a parlare:
Figliuola mia, quel ch’io ti dico intendi,
LXIV.
Quando compiuti i nove mesi avrai,
Dal giorno che peccasti incominciando,
Una creatura tu partorirai;
Allor la Dea Lucina tu chiamando,
Il suo aiuto le dimanderai,
Ella pietosa tel darà; e po’ quando
Nata sarà, quel che fia vederemo,
LXV.
E tu di questo non ti dar pensiero,
Lascialo a me, ch’i’ ho ben già pensato
Dentro dal cor ciò che farà mestiero,
E ciò che far dovrò quando fia nato.
Ma fa’ che fuori di questo sentiero
Non vadi in questo mezzo, che ’l peccato
Non sia palese a quelle che nol sanno,
Che tornar ti potrebbe in troppo danno.
LXVI.
Ma sola ti starai nella caverna,
E’ panni porta larghi quanto puoi,
Senza cintura, che non si discerna
Il corpo grande pe’ peccati tuoi:
E quivi pianamente ti governa,
Dandoti pace, siccome far suoi;
E spesso vieni a me, ch’io ti diroe
LXVII.
Queste parole dieron gran conforto
Alla fanciulla, e disse: madre mia,
Poi che condotta sono a questo porto,
Pel mio peccato e per la mia follia,
E ben conosco molto chiaro e scorto
Che ’l vostro aiuto molto buon mi fia,
A voi mi raccomando e al vostro aiuto,
LXVIII.
Or te ne va’, Sinedecchia rispose,
Ch’i’ t’atterrò ben ciò ch’i’ t’ho promesso,
E non ti dar pensier di queste cose;
Tien pur celato il peccato commesso.
Mensola con le guance lagrimose
Disse: io ’l farò, e pel cammin più presso
Si mise, e ritornò alla sua stanza,
Alquanto confortata di speranza.
LXIX.
Quivi si stava pensosa e dolente
Senza gir mai come soleva attorno,
E per compagno tenea nella mente
Affrico sempre col suo viso adorno;
E perchè sempre continuamente
Il corpo le crescea di giorno in giorno,
Senza cintura i suoi panni portava,
LXX.
E cominciolle a crescer più nel core,
Per la creatura ancor non partorita,
Contro ad Affrico un sì fervente amore,
Che volentier ne vorrebbe esser gita
Con esso lui a starsi a tutte l’ore
Il giorno ch’ella si tenne tradita;
E ’l dì se ne pentiva mille fiate,
LXXI.
Questo pensier la fe’ più volte andare
Al luogo ov’ella fu contaminata,
Sol per saper se Affrico può trovare,
Per esserne con lui a casa andata;
Ma non si seppe mai tanto arrischiare
Per la vergogna d’andar sola nata
A casa sua; e pur presso v’andoe
Alcuna volta, e poi indietro tornoe.
LXXII.
Ma invan cercava, perchè non sapea
Ched e’ si fosse per lei disperato.
E già il suo corpo sì cresciuto avea,
E ’l peso del fantin tanto aggravato,
Ch’andare attorno omai più non potea;
Perchè senza cercar più nessun lato
Si stava alla caverna, ed aspettava
LXXIII.
E tanta grazia le fe’ la fortuna,
Che ’n questo mezzo non si accorse mai
Ch’ell’avesse peccato ninfa alcuna,
E già trovate pur n’aveva assai,
Come che maraviglia ciascheduna
Di lei si desse ne’ tempi sezzai,
Veggendola sì magra nella faccia,
E non andar come solea alla caccia.