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ALESSANDRO VOLTA
Il conte Alessandro Volta nacque in Como a’ 19 febbraio 1745 da Filippo e Maddalena de’ conti Inzaghi. — Ancora fanciullo posto per la morte del padre in cura ad uno zio, fu educato fra le patrie mura e destinato a studiar legge. — Natura però traeva ad altro il valoroso giovinetto, che su quella età primaticcia era continuo dietro cose ingegnose d’arte e di mano, curiosissimo di naturali fenomeni.
Usò le scuole in patria, ed i maestri si lagnavano che divagasse troppo la mente dagli insegnamenti, colpa forse il pedantesco metodo onde glieli porgevano. Quando però l'istruzione elevossi alquanto nella retorica, volò il Volta come aquila sopra i compagni: poi entrato nella filosofia, divorava ogni libro che gli cadesse alla mano. Mandate a vuoto tutte le pratiche del padre Girolamo Bonesi, che voleva farlo Gesuita, il Volta seguitò nel Seminario gli studi con quella passione che sola può togliere gl’ingegni dalla schiera volgare. Quando poi gli capitarono all’occhio scrittori di fisica e d’elettricità sentì prepotente impulso a questi studi: onde, sprovvisto com'era di macchine, andava sperimentando sopra nastri di seta, tôcchi di zolfo e di resina, assicelli fritti nell’olio, su quello insomma che più aveva alla mano. E benchè la complessione sua si risentisse all’intensa applicazione, non però la rimetteva, e colla giovane mente trovava dubbi e li proponeva ai maestri di elettricità; poi cresciuti cogli anni i suei mezzi, s’andò più sempre addottrinando, appoggiandosi alla misura ed all’esperienza. Onde potea già ben prevederne chiunque sa quanto l’osservazione costante, e a dirla con Newton, il pensarvi sempre valga negli studi fisici, ove la natura, sollecitata e scossa dalle sperienze, apre meraviglie al di là di quanto poteva il nostro pensiero immaginare. A diciotto anni già carteggiava con Beccaria, Nollet, Franklin, Barletti, Priestley ed altri fisici d’alta rinomanza: a ventitrè senza indirizzo più che del proprio ingegno già era ben addentro nelle fisiche cose e nella chimica pneumatica.
Al pubblico si espose primamente con un libretto, ove spiegò i modi dell’attrazione e della repulsione elettrica, e come diversamente sia ricevuto, conservato e trasmesso il fluido elettrico dai diversi corpi secondo la natura e la superficie loro e dei confricatori; stabilì poi la teoria della capacità dei conduttori, deducendola dal ritenere i corpi idioelettrici il fluido una volta accumulatovi: come l’adesione di due corpi elettrici è segno di due elettricità contrarie: verità tutte sviluppate ampiamente ed esattamente dai fisici successivi. Nel 1773 inventò l’Elettroforo perpetuo, col quale, caricato una volta, si hanno per sempre senza ruota nè strofinamenti gli effetti dell’elettricità. Formò nel 1782 il Condensatore, col quale, ingrandendo estremamente i segni elettrici, rese cospicua quella virtù che altrimenti si sottrae ai sensi. Accoppiandovi il suo Condensatore, inventò un Elettrometro più sensitivo e squisito di quanti prima di lui si conoscessero, e levossi ad indagare l’elettricità atmosferica. Sulla cognizione dell’aria infiammabile nativa delle paludi, cominciò nuovi studi: rese ragione dei fuochi fatui, terrore del volgo, delle stelle cadenti, degli igniti vapori di Velleia e di Pietramala, che argomentò accesi dall’elettricità: in prova di che ci rivelò la pistola elettrica. Inventò l’Eudiometro, stromento con cui conoscere la bontà dell’aria, e facendo poi che quell’aria trapelasse poco a poco all’aperto, ebbe una lampada. Trovò la Pila o l’Elettromotore, e questa fu suprema sua gloria; quanto si giovassero gli stranieri delle invenzioni del sommo nostro Comasco, e di quanto si osasse contenderne perfino il merito di una scoperta, or qui non giova rammemorare. — Gran che se ancor resta all’Italia cosa che gli stranieri le possano rubare.
Ora, per dire i casi del Volta, fino dal 1774 Firmian lo pose reggente delle scuole, e l'anno dopo professore di fisica in patria d’onde il 1779 fu trasportato a Pavia, — nel 1777 viaggiò con G. B. Giovio: indi nel 1780 visitò la Toscana, ricevendo da per tutto grandi onori, e più quando nell’82 viaggiò col famoso Scarpa; festeggiato da ogni celebrità del tempo. — Nel 94 la società di Londra gli decretò la medaglia d’oro di Copley. In Francia innanzi all'Istituto, cui presiedeva Bonaparte, ripetè l’esperienza ed i raziocini su cui fondava la sua Pila: e tanto applauso n’ebbe, che il Primo Console gli donò seimila franchi: l’Istituto gli coniò medaglie, e lo mise fra’ suoi otto soci stranieri. — Rappresentò l'università di Pavia nei Comizi di Lione. Nel 1803 presiedette nel Consiglio del nostro dipartimento: fu dei primi ascritti all’Instituto italiano: a lui pensioni e titolo di conte e di senatore del Regno, e le accademie a gara onorarsi del suo nome. — Beauharnais di sua mano lo fregiò della corona di ferro e della legione d’onore. — Quando cadde il regno d’Italia fu posto direttore della facoltà filosofica in Pavia; ov'egli dimorò per educare Zannino, Flaminio e Luigi, figli suoi, avuti da Teresa Pellegrini, dama comasca, alla quale si era sposato nel 1794. — Morto il secondo figlio, e compiuti gli altri lo studio, ei si congedò dalla carica per vivere in patria, da dove a levarlo s’adoprò invano con larghe promesse Alessandro di Russia.
Modesto fra tanta gloria, di avvenenti maniere, udendolo discorrere alla domestica, appena sarebbesi creduto quel grande che egli era, sì gli soprabbondavano que’ motti spiritosi che dal suo labbro traboccavano senza offendere persona, e quasi ricreamento d’uno spirito negli studi affaticato. — Qualora s’avviasse a discorsi gravi, ei si faceva ammirare per le cognizioni sue, non di fisica soltanto, ma d’ogni cosa dello scibile umano, come quegli che aveva ricca la memoria delle più classiche cose italiane, francesi e latine.
Affezionatissimo sempre alla sua religione, non poteva che tranquillo e fermo vedere spegnersi poco a poco la vitale favilla; e come chi si addormenta senza timore e senza desideri, chiuse quietamente i lumi tre ore dopo la mezzanotte precedente il 5 marzo 1827, di anni ottantadue. — Presso la sua villa di Campora, la vedova ed i figliuoli alzarongli un sepolcro: il mondo tutto fece eco al pianto della patria, la quale nel 1838 faceva erigere al sommo fisico in una piazza della città, che ora ne porta il nome Volta, un monumento in marmo di Carrara, lavoro di Pompeo Marchesi da Saltrio.