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Aegri somnia.
Ho gli occhi bendati.
Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi.
Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v’è posata.
Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come d’una guida per conservare la dirittura.
I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l’articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.
Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte.
La stanza è muta d’ogni luce. Scrivo nell’oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l’una e l’altra coscia come un’asse inchiodata.
Imparo un’arte nuova.
Quando la dura sentenza del medico mi rovesciò nel buio, m’assegnò nel buio lo stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro, quando il vento dell’azione si freddò sul mio volto quasi cancellandolo e i fantasmi della battaglia furono d’un tratto esclusi dalla soglia nera, quando il silenzio fu fatto in me e intorno a me, quando ebbi abbandonata la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. E quasi sùbito mi misi a cercare un modo ingegnoso di eludere il rigore della cura e d’ingannare il medico severo senza trasgredire i suoi comandamenti.
M’era vietato il discorrere e in ispecie il discorrere scolpito; né m’era possibile vincere l’antica ripugnanza alla dettatura e il pudore segreto dell’arte che non vuole intermediarii o testimonii fra la materia e colui che la tratta. L’esperienza mi dissuadeva dal tentare a occhi chiusi la pagina. La difficoltà non è nella prima riga, ma nella seconda e nelle seguenti.
Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille che scrivevano la sentenza breve su le foglie disperse al vento del fato.
Sorrisi d’un sorriso che nessuno vide nell’ombra quando udii il suono della carta che la Sirenetta tagliava in liste per me, stesa sul tappeto della stanza attigua, al lume d’una lampada bassa.
Ella deve avere il mento rischiarato come dal riverbero della sabbia cocente quando eravamo distesi l’uno accanto all’altra su la spiaggia pisana, nel tempo lieto.
La carta fa un fruscìo regolare che nella mia imaginazione evoca quello della risacca a piè delle tamerici e dei ginepri riarsi dal libeccio.
Sotto la benda il fondo del mio occhio ferito fiammeggia come il meriggio estivo di Bocca d’Arno.
Vedo la sabbia corrugata dal vento, rigata dall’onda.
Posso noverare i granelli, affondarvi la mano, riempirmene la palma, lasciarli scorrere fra le dira.
La fiamma cresce, la canicola infuria. La sabbia brilla nella mia visione come mica e quarzo. Mi abbarbaglia, mi dà la vertigine e il terrore, come il deserto libico quando quella mattina cavalcavo solo verso le tombe di Sakkarah.
Non ho difesa di palpebre né altro schermo. Il tremendo ardore è sotto la mia fronte, inevitabile.
Il giallo s’arrossa, il piano si travaglia. Tutto diventa irto e tagliente. Poi, come una mano creatrice foggia le figure nella creta cedevole, un soffio misterioso alza dalla distesa abbagliante rilievi di forme umane e bestiali.
Ora il fuoco solido è trattato come la pietra a scarpello.
Ho davanti a me una parete rigida di roccia rovente scolpita d’uomini e di mostri. A quando a quando sbatte come una immensa vela, e le apparizioni si agitano. Poi tutto fugge, portato via dal turbine rosso, come un mucchio di tende nel deserto.
L’orlo della retina strappata brucia accartocciandosi come il papiro dantesco; e il bruno cancella via via le parole che vi sono scritte.
Leggo: «Perché due volte m’hai tu deluso?»
Il sudore salso mi cola fin nella bocca misto alle lacrime delle ciglia compresse.
Ho sete. Domando un sorso d’acqua.
L’infermiera me lo nega, perché m’è vietato di bevere.
«Tu ti disseterai nel tuo sudore e nel tuo pianto.»
Il lenzuolo aderisce al mio corpo come quello che involge l’annegato stillante di sale, tratto alla riva e deposto su la sabbia sinché non venga qualcuno a riconoscerlo, a chiudergli le palpebre schiumose e a ululare sul suo silenzio.
Quando la Sirenetta s’accosta al mio capezzale col suo passo cauto e mi porta il primo fascio di liste eguali, tolgo pianamente le mie mani che da tempo riposavano lungo le mie anche. Sento che sono divenute più sensibili, con nelle ultime falangi qualcosa d’insolito, che somiglia a un chiarore affluito.
Tutto è buio. Sono in fondo a un ipogeo.
Sono nella mia cassa di legno dipinto, stretta e adatta al mio corpo come una guaina.
Agli altri morti i familiari hanno portato frutti e focacce. A me scriba la pietosa reca gli strumenti dell’officio mio.
Se mi levassi, il mio capo non urterebbe il coperchio dov’è dipinta all’esterno la mia imagine di prima coi grandi e limpidi occhi aperti verso la bellezza e l’orrore della vita?
Il mio capo resta immobile, stretto nelle sue bende. Dalle anche alla nuca una volontà d’inerzia mi rende fisso come se veramente l’imbalsamatore avesse compiuta su me la sua opera.
Sùbito le mie mani trovano i gesti, con quell’istinto infallibile che è nelle membrane delle nottole quando sfiorano le asperità delle caverne tenebrose.
Prendo una lista, la palpo, la misuro. Riconosco la qualità della carta dal lieve suono.
Non è quella consueta che mi fabbricavano a mano pagina per pagina gli artieri di Fabriano ponendovi la filigrana della mia impresa che ora mi sembra tremenda come un supplizio perpetuo. È liscia, un poco dura, tagliente ai margini e agli spigoli. È simile a un cartiglio non arrotolato, simile a uno di quei cartigli sacri che i pittori mettevano nelle loro tavole.
V’è un che di religioso nelle mie mani che lo tengono. Un sentimento vergine rinnova in me il mistero della scrittura, del segno scritto.
Odo crepitare il cartiglio fra le mie dita che tremano.
Sembra che la mia ansia soffi sul tizzo ardente che ho in fondo all’occhio. Vampe e faville s’involano nel turbine dell’anima.
Sento su le mie ginocchia la mano della pietosa. Le sollevo leggermente per ricevere la tavoletta. È, per me oscurato, come una tavoletta votiva. La lista v'è distesa. Fra il pollice, l’indice e il medio prendo il cannello. Il medio ha tuttora il solco del lavoro ostinato. Nulla dies sine linea.
E tremo davanti a questa prima linea che sto per tracciare nelle tenebre.
O arte, arte inseguita con tanta passione e intraveduta con tanto desiderio!
Disperato amore della parola incisa per i secoli!
Mistica ebrietà che talvolta della mia stessa carne e del mio sangue stesso faceva il verbo!
Fuoco dell’ispirazione che improvviso fondeva l’antico e il nuovo in una lega incognita!
La mano soppesava la materia. La materia aveva colore, rilievo, timbro.
La penna era come il pennello, come lo scarpello, come l’arco del sonatore. Temperarla era un piacere glorioso.
Lo spirito umile e superbo tremava nel considerare la risma compatta e intatta da trasmutare in libro vivente.
La qualità dell’olio per la lampada era eletta come per un’offerta a un dio severo.
E nelle ore di creazione felice la sedia dura diveniva un inginocchiatoio scricchiolante sotto le ginocchia che sopportavano la violenza del corpo inarcato.
Ora il mio corpo è in una cassa, disteso e costretto.
Ieri il mio spirito si squassava come una grande aquila presa in una tagliuola. Oggi è raccolto, attento, sagace.
Ma il cuore batte senza misura.
Palpo la carta. La mano che tiene la matita è convulsa, quasi dolorosa.
A un tratto, nel campo ardente dell’occhio m’apparisce la figura di Vincenzo Gemito, quale la vidi nei primi tempi della sua follia, salendo alla sua prigione su per un’erta petrosa e abbagliante ove branchi demoniaci di capre mordicchiavano l’erbe arsicce.
Lo vedo, in una stanza angusta come una cella, agitarsi tra porta e finestra col movimento continuo della fiera in gabbia.
Una gran testa chiomata e barbata di profeta impazzito al vento del deserto, mal sostenuta da un corpo esile e curvo su due gambe rotte dalla fatica e tenute in piedi da una resistenza invitta, quali dovevano essere quelle di Michelangelo su le impalcature della Sistina.
Egli ha la mano destra in tasca, mentre gestisce con l’altra, e non distoglie mai quella, quasi fosse impedita.
Mi stringono ora la medesima pietà e la medesima angoscia che mi assalirono quando seppi come da anni, fin dal principio della sua demenza, egli avesse nella mano nascosta un pezzo di cera rossa da modellare e ripetesse di continuo col pollice e l’indice il movimento che fa il modellatore per ammollirla e assottigliarla.
Percosso nella fronte, destituito della potenza di creare, egli non aveva conservato se non quell’atto istintivo, quel movimento plastico, quella consuetudine tecnica d’artiere celliniano, di fonditore a cera persa.
Ora è là, nell’inferno del mio occhio bendato, vivente d’una vita terribile.
Mi guarda dal profondo della tristezza disperata.
È divenuto vecchio. La criniera e la barba sono bianche, incolte, sconvolte dalla tempesta e dal destino come quelle regali del padre di Cordelia.
La sua mano non è più nascosta: ha il frammento di cera rossa tra il pollice e l’indice. Scarnita, tutta nervi e ossa, simile a una radice malviva dell’anima, ripete il movimento senza fine.
Ora il suo capo scompare, il suo corpo scompare, divorati dal fuoco che arde sotto la mia palpebra come sotto il coperchio d’un forno fusorio.
Resta la mano, la mano sola, come d’un naufrago dell’incendio.
E la cera non si fonde: è là, color di grumo sanguigno, tra il pollice e l’indice che non s’arrestano mai.
La visione assume un’intensità così cruda che faccio uno sforzo per non gridare di spavento e di dolore. Folgori di follia mi traversano il cervello.
Ho l’impeto di strapparmi l’occhio dall’orbita per non più vedere.
Sono nella notte, ma la mia notte è di fiamme in travaglio.
La pietosa s’è allontanata. Odo venire dalla stanza attigua il lieve stridore della carta ch’ella taglia.
Dominando il tremito, pongo la punta della matita sul margine della lista.
Ho per un attimo la sensazione confusa di non stringere il cannello di legno ma il pezzo di cera rossa e tiepida. È un attimo d’indefinito orrore.
Finalmente scrivo sul cartiglio invisibile.
Scrivo queste parole:
«O sorella, perché due volte m’hai deluso?»
Ansioso chiamo la creatura vigilante, che accorre.
Le dico: «Prendi, guarda se puoi leggere quel che ho scritto».
Ella porta via la lista che suona come una foglia di palma.
Silenzio.
Gli istanti mi sembrano eterni, battuti dal cuore sbigottito.
Ascolto.
Dall’altra stanza, la voce melodiosa legge senza pause le parole che certo le sembrano sibilline; «O sorella, perché due volte m’hai deluso?»
La prima volta ella di poco sopravanzò la gloria nell’uccidere il mio compagno che s’era con me giurato pel viaggio senza ritorno.
La seconda volta, con un gioco fatale di ore, ella donò a un altro la bella sorte a cui quegli medesimo m’aveva designato riconoscendomene degno per diritto divino.
Un angelo o un demone della notte soffia su l’incendio chiuso del mio occhio perduto.
Le faville innumerevoli sprizzano nel vento.
Ho il capo arrovesciato indietro, ho il capo abbandonato, penzoloni nel vuoto.
Non sento più il guanciale, non sento più il letto.
Odo un rombo confuso, odo il fragore del volo, odo il crepitio del combattimento.
Una mano pietosa e rude m’ha discostato, m’ha sospinto. Il mio capo è forato: penzola nel vuoto, dal bordo della carlinga che vibra.
L’ombra dell’ala destra m’è sopra:
l’astro arioso dell’elica mi corona.
Non è più fuoco, ma sangue che sprizza. Non più faville ma stille. Il pilota eroico riconduce alla patria il poeta sacrificato.
O gloria immensa!
Qual pugno divino o umano gittò ai solchi della terra una semenza più augusta?
Nella rapidità guerriera il sangue inesausto si sparpaglia come il grano ventilato.
Ogni fiotto si divide in miriadi, come la polvere della cascata scrosciante ove si crea l’arcobaleno. Non cola ma vola, non cade ma s’alza.
Al paragone di questo aspersorio sublime, che è mai il teschio d’Orfeo fluttuante sopra la lira?
Il nuovo mito è il più bello.
Guardo il mio viso trasfigurato nei secoli prossimi della grandezza.
L’anima non fugge ma è tuttora appresa alla ferita come alla face lo splendore che nella raffica si spicca e si rappicca, cessa e si riattiva, si piega e si risolleva, non tenuto se non da un legame invisibile che la volontà di ardere rende più forte della tempesta.
Lungo dolore convertito in giubilo subitaneo, lunga miseria trasmutata in apice di purità, l’anima guarda il meraviglioso viso che ora è veramente il suo viso, quello che tanto desiderò ella avere e non potette.
Ella sapeva la morte essere una vittoria, ma non così grande.
Immortale, ella è tuttavia radiosa nella morte, e il vento del volo funebre non la svelle.
La carne era il suo peso, ed ora è il suo rapimento.
Il sangue era la sua turbolenza, ed ora è il suo miracolo.
La vita era il suo limite, ed ora è la sua libertà.
Ella è portata dal corpo come dall’impeto d’una bellezza creatrice.
Nessun capo di confessore e di martire sul ceppo fu mai bello come questo capo su quest’orlo fragile dell’abisso mattutino.
Nessun’aquila colpita fu così fiera nell’insanguinare la luce col battito delle sue penne.
Questo sangue sfavilla in eterno come il latte dell’iddia biancheggia in eterno per la notte.
Ecco la terra, ecco la meta.
L’ultima stilla s'è diffusa nel rombo del volo.
Su le ali incolumi il pilota eroico riconduce alla patria il corpo esangue del poeta sacrificato.
L’annunzio è presente come una folgore e remoto come la memoria d’una gesta.
Tutti i lidi d’Italia fremono come i lembi delle sue bandiere.
La gloria s’inginocchia e bacia la polvere.
Chi ha rappresentato i ciechi come veggenti rivolti verso il futuro? come rivelatori dell’avvenire?
Quale Tiresia metteva la sua bocca d’indovino nel sangue dell’ariete nero sgozzato sopra la fossa, tale da più notti io bevo il mio sacrificio; e non vedo il futuro, né vivo nel presente.
Ma solo il passato esiste, solo il passato è reale come la benda che mi fascia, è palpabile come il mio corpo in croce.
Sento il fiato e il calore delle mie visioni.
Nel mio occhio piagato si rifucina tutta la materia della mia vita, tutta la somma della mia conoscenza. Esso è abitato da un fuoco evocatore, continuamente in travaglio.
Chi s’accosta al mio letto è men vivo del trapassato che mi fissa col volto di bragia, come sorgendo da un avello rovente dell’Inferno.
Non scrivo su la sabbia, scrivo su l’acqua.
Ogni parola tracciata si dilegua, come nella rapina d’una corrente scura.
A traverso la punta dell’indice e del medio mi sembra di vedere la forma della sillaba che incido.
È un attimo, accompagnato da un luccicore come di fosforescenza.
La sillaba si spegne, si cancella, si perde nella fluida notte.
Il pensiero sembra correre sopra un ponte che dietro lui precipiti. L’arco poggiato alla riva è distrutto, sùbito crolla l’arco mediano. L’ansia raggiunge la riva opposta con uno sgomento di scampo, mentre il terzo arco cede e sparisce.
Scrivo come chi caluma l’àncora, e la gomena scorre sempre più rapida, e il mare sembra senza fondo, e la marra non giunge mai a mordere né la gomena a tesarsi.
Come il rapimento di una melodia che sorge improvvisa da un’orchestra profonda; come la rivelazione d’un verso che sveglia il suono segreto dell’anima; come il messaggio del vento che è la rapidità dell’infinito in cammino; con uno spirito senza riva, con un corpo senza forma, con un gaudio che sembra terrore, io sento l’idealità del mondo.
Il mio compagno è nell’isola dei trapassati, laggiù, dietro il muro salso di mattone, dietro la cortina lugubre dei cipressi. È nel quadrilatero di terra dove sono sepolti i marinai, esattamente collocato nella cassa di piombo che vidi suggellare con la fiamma sibilante.
Sta sotto il cippo di pietra istriana che fu confitto a capo del tumulo di zolla.
E il suo cippo è come un quadrante solare, dove il braccio teso d’Icaro è come lo stilo di bronzo che sopra il nome scolpito segna l’unica ora: l’ora dell’estremo coraggio.
Il mio compagno è morto, è sepolto, è disciolto.
Io sono vivo, ma esattamente collocato nel mio buio com’egli nel suo. Respiro ma sento che il mio respiro passa per labbra violacee com’erano le sue nelle prime ore, dischiude una bocca divenuta quasi insensibile, indurita dal sapore metallico dell’iodio che circola nel mio corpo.
Gli somiglio anche nella ferita: rivedo la falda di cotone che copriva la sua orbita destra spezzata dall’urto.
Così la sua morte e la mia vita sono una medesima cosa.
Dalla sua immobilità di laggiù viene a me quel che di lui seppi amare; da questa mia immobilità gli va incontro quanto in me fu degno ch’egli l’amasse.
Se bene io soffra, se bene egli non soffra più, per l’uno e per l’altro la carne è abolita mentre gli spiriti si ricongiungono.
L’ultima sua parola da me udita su la riva fuggente, la sua mano livida e gelida sfiorata da me con le labbra un attimo prima che il coperchio me la nascondesse: tra quella voce e quel gelo vissi con lui o morii con lui?
V’è un luogo dell’anima, là dove il nero fiume e il fiume chiaro confluiscono.
È il luogo della nostra amicizia superstite. Le nostre imagini vi si rispecchiano e vi si confondono.
Non è più un’apparizione; è una presenza continua che respinge chi si accosta.
Ma la prima apparizione mi ritorna con un’aura di terrore.
È la vigilia del seppellimento.
Il mio dolore è tuttavia impigliato nella sua carne disfatta.
È la sera di santo Stefano. Il suo fuoco è acceso. Sono seduto là dov’egli soleva sedere. Di tratto in tratto egli mi annienta. Mi perdo in lui.
Non odo più quel che presso di me dicono i vivi.
Cinerina è là, con quel suo strano viso geniale che mi fa pensare al giovinetto Beethoven, con quei suoi occhi più grandi del solito a cui arricchiscono lo sguardo la malinconia e l’ironia mescolate come un misterioso collirio. Anche Manfredi Gravina è là, per consolarmi, per farmi credere che vi sono ancora amici nel mondo, che vi sono ancora compagni giurati alla guerra.
26 decembre 1915. — Che tempo fa, fuori?
Cinerina dice che alle sette, quando è venuta, c’era un cielo limpido e stellato. Manfredi dice che ora c’è una nebbia fitta.
Sono le dieci. È tempo di andare. Renata ha sonno.
Metto il mio gran mantello grigio sopra la mia grossa maglia d’aviatore. Tutti gli atti, nell’anticamera, si ripetono come quando egli era là. Ma il suo piccolo mantello nero non è appiccato alla pátera dorata, né si ode la sua voce graziosa e ironica.
Usciamo. Mastichiamo la nebbia.
La città è piena di fantasmi.
Gli uomini camminano senza rumore, fasciati di caligine.
I canali fumigano.
Dei ponti non si vede se non l’orlo di pietra bianca per ciascun gradino.
Qualche canto d’ubriaco, qualche vocìo, qualche schiamazzo.
I fanali azzurri nella fumea.
Il grido delle vedette aeree arrochito dalla nebbia.
Una città di sogno, una città d’oltre mondo, una città bagnata dal Lete o dall’Averno.
I fantasmi passano, sfiorano, si dileguano.
Renata cammina davanti a me come allora, e Manfredi le va al fianco. Parlano come Renata e il mio compagno parlavano. Di quando in quando la nebbia si frappone fra me e loro.
Passiamo i ponti. Le lampadine lucono come i fuochi fatui in un camposanto.
La Piazza è piena di nebbia, come una vasca è piena d’acqua opalina.
Le Procuratie vecchie sono quasi invisibili. La cima del campanile si dilegua nel vapore.
La Basilica è come uno scoglio in un mare brumoso.
Le due colonne della Piazzetta sono simili a due colonne di fumo escite da due mucchi eguali di cenere.
Alla Riva degli Schiavoni i fanali dei battelli accostati.
La musica leggera nel Caffè Orientale, dietro le porte opache: un’aria di danza.
Il canto degli ubriachi.
I fantasmi errabondi.
I morti passeggiano stanotte, come nella notte tra Ognissanti e il Due novembre.
Ci accommiatiamo nel vestibolo dell’Albergo Danieli. Spero che Renata dorma stanotte.
Ritorno verso la Casa rossa, solo. Il mio amico è con me, in ispirito. Un rimpianto profondo mi stilla dal cuore.
Guardo la riva dove approdava il suo canotto, dove ogni sera ci stringevamo la mano e ci dicevamo: Arrivederci.
Nella Piazzetta un uomo si volta al rumore del mio passo.
Si volta ancóra, si allontana, diventa un’ombra fumida, si perde.
Entro sotto le Procuratie rischiarate dalle lampade azzurre. Mi stupisco udendo una famiglia numerosa parlare delle cose usuali, con la stupidità pesante di chi viene dalla gozzoviglia. Sono vivi? Sono morti? Li sorpasso. Diventano ombre.
Di là dal ponte di San Moisé, mentre penso, con un brivido, che dovrò passare davanti al vicolo della Corte Michiel, scorgo qualcuno che cammina al mio fianco senza rumore, come se avesse i piedi nudi.
È qualcuno che ha la statura del mio compagno, la sua corporatura stessa, la sua andatura.
Ha un vestito neutro, indefinibile, di color grigiastro, con un berretto anche grigiastro.
È silenzioso, d’un silenzio singolare, come se non abitasse in lui alcuna voce né alcun soffio.
Cammina senza tacchi, senza scarpe, senza sandali.
Ho una sensazione istintiva di terrore. Rallento il passo. Lo vedo dinanzi a me.
L’andatura è quella del mio compagno. Dopo un poco egli si ritrova al mio fianco, là, dinanzi al passaggio che mette nella Corte Michiel. La via è deserta.
Accendo la lampadina alla voltata, e rallento il passo. Riesco a tenere due o tre metri di distanza. Egli non si volge mai.
Il suo passo è così tacito e così strano che i rari passanti lo guardano arrestandosi un poco.
Siamo a Santa Maria del Giglio. La nebbia entra in bocca, occupa i polmoni. Verso il Canalazzo fluttua e s’accumula.
Lo sconosciuto diventa più grigio, più lieve; si fa ombra.
Allora affretto il passo per non perderlo.
Sotto la casa dove a sera si ode sempre un pianoforte, sotto la casa dov’è l’antiquario, egli scompare all’improvviso.
Non è caduto nel canale, non ha passato il ponte, non è entrato in una porta. Porte e botteghe sono chiuse. Le esploro con la mia lampada. Ritorno indietro per accertarmene.
Poi corro su pel ponte e faccio di corsa la calle, per accertarmi che non mi sono ingannato e ch’egli non è tuttavia davanti a me.
La calle è deserta. Deserto è il campo di San Maurizio.
Lo ritroverò forse nella calle strettissima che conduce alla Casa rossa? Il cuore mi trema. Una falda di nebbia mi striscia su la gota. Una frotta di ubriachi urla laggiù, in fondo al traghetto.
Ho messo la bocca nella pienezza della morte. Il mio dolore s’è saziato nella bara come in una mangiatoia. Non ho poi potuto sopportare altro nutrimento.
Rivivo i giorni funebri, ora per ora, attimo per attimo. Con gli occhi bendati, cerco di vedere. Con la fronte che mi duole, cerco di comprendere.
Quel che è accaduto sembra iniquo.
La più dura necessità può apparir bella. Ma questo evento improvviso non ha altra bellezza se non questa che gli dà la mia passione.
Noi conoscevamo il pericolo a cui ci eravamo votati con una libertà che non si rivelava se non a noi stessi in qualche sorriso fugace. Sapevamo che la nostra impresa era disperata, e non desideravamo di sfuggire alla bella sorte.
Negli ultimi giorni le figure della nostra esistenza si disegnavano ingrandite sul cupo orizzonte marino. La malinconia energica del commiato inalzava il pregio d’ogni ora trascorsa.
Costanza nell’azione viva, nell’inerzia di Venezia, nella caligine della città sparente che la guerra sembrava aver vuotata perfino degli ultimi rimasugli vitali.
Doppio taglio dell’azione ogni giorno affilato, che pareva fendere la massa opaca e pigra della tristezza circostante.
La coppia virile, la coppia da battaglia, rinata nella creazione dell’ala umana, conduttore e feritore, arma d’altezza, arma celeste, maneggiata da una sola volontà, come la duplice lancia del giovine greco.
Il compagno è il compagno.
Non v’ha oggi al mondo legame più nobile di questo patto tacito che fa di due vite e di due ali una sola rapidità, una sola prodezza, una sola morte.
Il più segreto brivido dell’amore non espresso è nulla al paragone di certi sguardi che, nelle ore leggère, riconfermano tra i due la fedeltà all’idea, la gravità del proposito, il sacrificio taciturno di domani.
Ora la morte che doveva prendere i due, ne prese uno, un solo, contro il patto, contro l’offerta, contro la giustizia, contro la gloria.
Alla cima della gloria, per la coppia alata, è l’olocausto: il sacrificio in cui è arsa tutta la vittima.
La sorte del fuoco è la lor vera sorte.
La loro ala rombante diviene il lor rogo fiammeggiante.
Come nell’ottava bolgia, essi sono due «dentro ad un fuoco», ma il fuoco non è diviso. Non parlarono in alto; non ebbero bisogno dell’orazion piccola per essere acuti; né parleranno nei crolli della fiamma.
Come il volo era un silenzio ceruleo misurato dal canto ritmico della combustione, così l’olocausto si risolve in nero silenzio.
La necessità eroica della coppia alata, quando sia sopraffatta, è l’arsione totale.
Chi si rende prigione, e cede la sua ala, si può dire veramente che pecchi contro la patria, contro l’anima e contro il cielo. Sventurato o svergognato, perde ogni diritto alla gloria.
Portato dal fuoco, il combattente aereo è un incendiario in vita e in morte.
Beati i due compagni eroi le cui ossa irriconoscibili sono mescolate nella barella come tizzoni fumanti!
I giorni d’angoscia, le notti di veglia ritornano.
Il passato è presente, con tutti i suoi aspetti, con tutte le sue vicende.
Risoffro il mio dolore, ripiango il mio pianto.
L’amico mio è dissepolto e poi riseppellito.
Un gesto, una parola, un odore, una luce, il rombo di un’elica, il guizzo d’una baionetta, la piega d’una bandiera, il gocciolio d’un torchio, il lividore crescente d’una mano intorno alle unghie quasi bianche, la macchia indistinta sul pavimento, il rugghio della fiamma dardeggiata contro la commessura del piombo, il rimbombo della prima palata di terra sopra la cassa ripercosso dall’eternità: tutto l’orrore funebre con tutti i suoi aspetti si rispecchia nella mia lucidità implacabile.
E talvolta vedo me stesso com’egli avrebbe potuto vedermi dalla sua bara.
Sono talvolta il cadavere e colui che lo contempla.
I grandi sprazzi di luce si succedono con una rapidità spasimosa come in quella notte d’agosto quando andavamo insieme, simili a due ciechi, stretti l’uno contro l’altro, per la riva inondata dall’acquazzone, feriti dal taglio dei lampi incessanti ogni volta che aprivamo le palpebre.
Domando una tregua per fissare la sua faccia quale io la vidi l’ultima volta. Voglio ritrovare in me quella parte remota di me che forse sapeva quella essere l’ultima volta, mentre io non lo seppi.
In che modo mi svegliai quella mattina? Quale fu il sogno che accompagnò l’anima al limitare della luce?
Come gli alberi di fronte al sole obliquo, gli atti hanno dietro di loro un’ombra lunga che nessuno misura.
Ecco, sono alzato, sono vestito, ho il mio mantello, ho il mio coraggio d’ogni mattina. Nulla mi lega alla casa. Questa casa è meno che una tenda passeggera. Sono libero, col mio disegno; e il mio disegno m’è tutto.
La vita non ha se non il pregio dell’arme da lancio che il pugno brandisce aspettando di scagliarla. Così le ossa sembrano diminuite di peso. Di tutta la carne non vive se non il cuore.
Esco. Questa piccola casa ha una porta di ferro che si richiude di colpo.
Bora. Pioggia. Il canale ulula.
20 decembreIl motoscafo di Sant’Andrea romba alla riva. Porto con me le valige e il sacco dei messaggi.
La laguna agitata.
L’acqua che spruzza.
Il motorista siciliano con cui converso.
Egli mi racconta i suoi naufragi nell’Oceano Pacifico e su la costa di Trieste.
Arrivo a Sant’Andrea. Beppino mi attende. Ha il suo vestito nuovo con giacca blu e bottoni d’oro e pantaloni corti nei gambali. Strana sensazione. Il mio sguardo di miope non lo riconosce sùbito. Qualcosa d’indefinibile fluttua in quell’attimo fra me e lui.
Scendo a terra traversando i barconi. Egli mi accompagna, con quella gentilezza quasi deferente ch’egli ha sempre conservata anche nella nostra familiarità, lungo la riva fangosa dove la bora soffia più violenta.
Entriamo nella casa di legno.
Il corridoio caldissimo.
La stufa che arde, rossa.
Mi conduce nel suo studiolo, mi mostra il visco che ha ricevuto e che vuol portare nel velivolo per la buona fortuna. Fa mettere in serbo le valige e il sacco.
È l’ora della colazione.
I tre ufficiali francesi vengono alla nostra tavola.
Fiori, piatti speciali, ricercatezza, tutto in mio onore!
Seggo accanto al mio compagno.
Conversazione generale. Si parla del mistero, del mondo occulto, e poi della fortuna, dei talismani, dei feticci, dei malefizii. Beppino ascolta; dice di tratto in tratto qualche parola fresca, originale, profonda.
Ci alziamo per prendere il caffè.
Egli mi mostra alcune stampe allegre che devono decorare il corridoio. Si parla di libri da porre in uno scaffale, nel «quadrato»; si parla di Sant’Andrea, delle nuove costruzioni, della primavera prossima...
Sono con noi Manfredi Gravina, Gigi Bresciani, Alberto Blanc.
Si parla dell’apparecchio inventato da Gigi Bresciani.
L’avaria «utile».
Il tipo di questo giovine veronese: biondo, mingherlino, pallido, con le basette, con la bocca sottile, con gli occhi chiari, con un’aria di piccolo ufficiale inglese del tempo di Orazio Nelson.
Beppino si diverte ad aizzare Alberto Blanc costruttore di bombe incendiarie e di telemetri.
Qualcuno descrive il furore di Miraglia quando gli fu annunziata la commissione giapponese. Si parla della «psiche» giapponese, poi di quella cinese. Manfredi parla con acume del gran signore cinese, dell’impossibilità di entrare nella sua intimità, della sua cortesia impenetrabile.
Sono le due. Bisogna partire. Il motoscafo è pronto.
Il gatto nero si nasconde sotto il divano. Durante la colazione, mangiava in una scodella, con tal piacere che la coda si moveva come quando i gatti sono in amore.
La tavola vicino a una finestra e a una stufa.
La finestra è socchiusa perché il calore è troppo vivo. Si apre a ogni ventata.
La luce grigia e fredda su la mensa, su i fiori.
La bora era così forte che il marinaio del motoscafo pensava dovesse durare almeno una settimana!
Quel marinaio è di Siracusa. Parlavamo del sole, del caldo, degli aranci, dei mandorli in fiore, di Taormina. Rivedevo le Latomie, il Teatro, la Venere, l’Ariete...
Ci alziamo per andarcene. Beppino mi accompagna. La sera egli è di guardia. Parliamo della solitudine, del riposo che è nella solitudine.
Andrà a letto presto, dormirà molto.
Anche noi, io e Renata, saremo soli; perché non accettiamo l’invito di Alberto alla trattoria, non potendo l’amico nostro venire.
A traverso i barconi, accompagnato sempre da lui, scendo nel motoscafo con Manfredi, con Alberto, con Gigi Bresciani, che sembra pensieroso.
Beppino è contento di venire domani a pranzo con me, all’ultima cena, prima del volo senza ritorno...
«Or ceniamo e trinchiamo, compagno. Domani sarem pasto di pesci.» Gli occhi gli ridono d’un’allegrezza infantile.
Ci accommiatiamo. Egli è sul bordo del barcone e mi guarda.
Mi volto due o tre volte a salutarlo con la mano. Sparisce.
Fa freddo, pioviggina, tira vento. Sono inviluppato nel mio gran mantello grigio.
La laguna è giallastra, agitata. Passa un barcone nero con una vela rossiccia.
Resto in silenzio, mentre i miei amici parlano. Parlano di lui. Manfredi propone una beffa: propone, pel carnevale (ci sarà dunque un carnevale di carneficina? un giovedì grasso di sterminata grassezza?) propone di travestire alcuni marinai da ufficiali serbi laceri luridi ispidi e di mandarli sotto specie di «missione serba» a visitare Sant’Andrea, per godersi il furore del comandante...
Vampata di gaiezza quasi tenera, tanto lo amiamo, tanto gustiamo la sua grazia bizzarra. L’umidità cinericcia smorza il riso e il motto.
Grandi mura. Ordegni enormi.
Entriamo nell’Arsenale. Luigi Bresciani va a lavorare intorno al suo velivolo di combattimento. Manfredi Gravina torna all’Ammiragliato. La volontà brilla a traverso la malinconia dell’attimo che non è più.
Separandomi da Alberto, che insiste pel pranzo, gli dico che venga da me alle sette, e che a quell’ora, secondo l’umore, deciderò se mi sia meglio uscire oppure restare a casa.
Tristezza ottusa. La vita si rompe all’improvviso come una corda tesa.
Difficoltà di riannodarla.
Anche Renata è triste. Decido di andare a pranzo con Alberto per distrarla. Anch’ella si rammarica dell’assenza del nostro amico. Sembra che per noi non ci sia omai più piacere senza di lui.
Scrivo a Cinerina per dirle di venire.
Renata va a vestirsi.
Usciamo verso le otto, nel buio, tenendoci per mano.
Timidità e disgusto davanti alla porta vetrata della trattoria, di dove si vede la gente che mangia e fuma. Voglia di tornare indietro.
Qualcuno m’incoraggia, mi viene incontro, mi conduce nell’altra sala, più tranquilla, dove mi aspettano Alberto e Manfredi.
Pessimo pranzo, conversazione svogliata. Renata è triste. Alberto è di umor nero, parla poco. Fa uno sforzo: si sente scoraggiato, si sente vecchio! Deve partire in licenza domani mattina o domani sera.
Portano frutti insipidi. La vita a un tratto perde ogni sapore. Quella stanza è fredda e bianca come un ospedale. Un estraneo è seduto nella tavola accanto: guarda e ascolta, con un’espressione di stupidità curiosa.
Rinunziamo al caffè per andarlo a prendere nella bottega dei Baretteri. Ci avviamo nel buio, malinconicamente. Manfredi racconta come ogni volta che Miraglia esce dalla trattoria su la fondamenta, batta il naso nel muro.
Dopo qualche attimo, cominciamo a vedere il chiarore della luna. Dal sottoportico sbocchiamo in Piazza, entriamo nell’incantesimo.
La luna è quasi piena. L’aria è fredda.
La Merceria s’abbuia, stretta e ingombra. Prima di giungere al ponte dei Baretteri, sentiamo il profumo animoso del caffè, come si sente in vicinanza di certi piccoli caffè arabi.
Saliamo i gradini, entriamo. La ragazza rossa sembra cercare con gli occhi Beppino, il compagno abituale, che non c’è.
Prendiamo il caffè in piedi. Alberto prende l’acqua di doppio cedro, che sembra esilararlo.
Nell’uscire, Manfredi e Renata vanno innanzi. Da qualche parola che mi giunge, sento che egli le racconta gli anni d’Accademia passati con l’amico nostro a Livorno, Quando siamo sul ponte della Paglia, Renata dichiara di non voler andare a casa così presto.
La Riva degli Schiavoni è bianca di luna. Dal Caffè Orientale, a traverso le porte chiuse, viene un suono di strumenti a corda.
Accompagnamo Manfredi Gravina all’Arsenale. Andiamo a guardare i Leoni mandati in dono alla Patria da Francesco Morosini conquistatore della Morea. C’indugiamo a riconoscere quale sia il più bello.
Ci separiamo. Ripassiamo il ponte. Riaccompagno Renata all’albergo. Siamo tristi come d’una serata perduta. (La sera innanzi avevamo ricondotto Beppino alla riva, dove l’aspettava il canotto; ma egli aveva voluto tornare indietro per ricondurre Renata fino alla porta.)
Torno a casa solo.
Mi soffermo, come sempre, davanti a Santa Maria del Giglio e tocco il bassorilievo di Zara.
Penso allamico che è solo, laggiù, di guardia a Sant’Andrea.
21 decembreUna notte agitata. Sveglio alle tre, non ho potuto riprender sonno. Ho letto fino alle cinque. Poi mi sono riaddormentato senza profondità.
Aperte le finestre, vedo il sole che mi batte sul guanciale.
Una giornata chiara e senza vento: mirabile per intraprendere il gran volo.
Ho un’angoscia oscura nel cuore. Mi rodo di perdere questa giornata improvvisa. Il mio pensiero si volge di continuo a Sant’Andrea. Vorrei andare a far colazione là, per interrogare il mio compagno; ma Manfredi mi disse ieri ch’egli sarebbe rimasto in città.
Comincio a scrivergli una lettera per pregarlo di telefonare a Sant’Andrea. La interrompo. Viene Renata.
Sono così angosciato e taciturno ch’ella mi domanda: «Che hai?» Non so rispondere.
Mancano pochi minuti a mezzogiorno. Il cielo è azzurro. Guardo le piante del giardino: il vento è debolissimo. Odo il rombo d’un velivolo che passa sul Canalazzo.
Perché tanta ombra mi s’addensa nel cuore? Sono malato?
Scendiamo per far colazione. Non parlo. Ho un pensiero fisso. Mangio macchinalmente.
Renata ha disposto i fiori nei vasi: rose rosse, giunchiglie, violette, garofani. Stasera viene a pranzo Beppino, secondo la promessa. Ella sorride. Saremo noi tre, secondo la dolce consuetudine.
Non ho nessuna voglia di andare a posare pel mio ritratto nello studio delle Zattere; ma Cinerina m’attende. È forse l’ultima imagine. Renata vuole accompagnarmi. Usciamo.
Tepore primaverile su la riva chiara.
Le torpediniere grige ormeggiate.
1 tre numeri scritti col gesso su la porta rossa della casa dov’è lo studio: 41, 5, 9.
Renata mi lascia là e torna indietro. Salgo.
Non so dissimulare il mio umor nero. Cinerina è là, tutt’occhi, tutta mento, non più donna ma volontà d’arte, con la sua tunica di tela bianca, coi suoi sobrii pennelli in mano. Prendo l’attitudine, trasognato.
Non ascolto le cose ch’ella dice pel gusto della chiacchiera. Passa un tempo indefinito, certo breve.
Sentiamo qualcuno salire le scale di legno e picchiare alla porta chiamandomi.
È la voce di Renata. Apro.
Renata è pallida e sconvolta.
«Vieni, è successa una disgrazia.»
«Che disgrazia? Miraglia?»
Sùbito penso a lui.
«Scendi, Genua è giù. Ti dirà.»
Scendo, col cuore palpitante. Trovo Memmo Genua su la soglia, commosso. Mi racconta di aver saputo, dai telefoni delle altane di difesa, che il velivolo montato da Giuseppe Miraglia è precipitato in mare e che il pilota è in gravi condizioni. Il meccanico, Giorgio Fracassini, il nostro Fracassini, non si ritrova! Forse è andato a fondo.
Risalgo di corsa, mi accommiato da Cinerina che si agita. Ridiscendo.
Io, Genua e Renata ci mettiamo a correre per le Zattere in cerca di una gondola, di una qualunque barca.
Miraglia è stato portato all’ospedale della Marina. Interrogo di continuo Genua per sapere la verità vera.
Le ginocchia mi vacillano. La lingua mi s’impiglia. Lascio Renata nel campo di San Maurizio. Proseguo per Via XXII Marzo. Passo davanti alla casa di Beppino, all’ingresso della Corte Michiel. La gente mi guarda. Non so dominare la mia orribile ansia.
Incontriamo un marinaio che cammina in fretta. Genua lo ferma. Non odo quel che gli dice. Mi avvicino. Il marinaio era diretto alla mia casa. Comprendo che il corpo è stato trasportato all’ospedale di Sant’Anna.
Il corpo! È morto.
Genua mi sorregge.
Mi metto a correre in cerca d’un modo qualunque di arrivare alla meta e di sfuggire alla curiosità dei passanti. Il marinaio ci raggiunge e ci offre un motoscafo che attende a Santa Maria del Giglio. Si va.
Il bacino di San Marco, azzurro.
Il cielo da per tutto.
Stupore, disperazione.
Il velo immobile delle lacrime.
Silenzio.
Il battito del motore.
Ecco i Giardini.
Si volta nel canale.
A destra la ripa con gli alberi nudi, qualcosa di funebre e di remoto.
Davanti a noi, nel cielo basso, in prossimità del suo rifugio, la forma stupida e oscena di un pallone frenato, color d’argento.
Sono le tre del pomeriggio, circa.
Arriviamo. Salto su l’imbarcatoio. Entro.
Chiedo di Giuseppe Miraglia all’ufficiale di guardia. M’è indicata una porta. Entro.
Sopra un lettuccio a ruote è disteso il cadavere.
La testa fasciata.
La bocca serrata.
L’occhio destro offeso, livido.
La mascella destra spezzata: comincia il gonfiore.
Il viso olivastro: una serenità insolita nell’espressione.
Il labbro superiore un poco sporgente, un po’ gonfio.
Batuffoli di cotone nelle narici.
L’aspetto di un principe indiano col turbante bianco.
Le mani conserte sul petto, giallastre.
I due piedi fasciati di garza bianca.
Il piede destro è rotto. Il pollice di una mano è rotto. Una gamba è rotta. Alcune costole son rotte.
Ha la giacca azzurra coi bottoni d’oro, quella di ieri.
Vogliono trascinarmi via. Mi rifiuto.
Resto in ginocchio. Prego di lasciarmi solo.
Quando sono solo, mi chino sopra il morto, lo chiamo più volte. Le lacrime gli piovono sul viso. Non risponde, non si muove.
Ricado in ginocchio.
I romori del giorno.
Il pulsare dei motoscafi nel canale.
Il tonfo dei passi sul tavolato.
Un marinaio entra con un fascio di ceri: mette i quattro ceri agli angoli del lettuccio.
Entra Luigi Bologna; entra Carlo della Rocca. Non posso muovermi, non posso alzarmi.
Qualcuno mette ai piedi del cadavere un mazzo di fiori. Credo di riconoscere Silvio Montanarella, il più giovine aviatore.
Entrano due marinai, con le baionette in canna, e si mettono a capo del lettuccio, restano immobili.
Un altro marinaio attacca alla parete del fondo, contro la finestra, una grande bandiera di nave da guerra.
Una bandiera è stesa al capezzale.
Dopo un tempo che non so, un marinaio viene con un altro fascio di ceri e apre la porta nella parete di contro a me.
La porta era chiusa.
Odo uno scalpiccìo. Due marinai portano su una barella il corpo di Giorgio Fracassini, ritrovato dopo due ore, tra le tele lacere e i fili attorti, nel trasportare a Sant’Andrea i rottami dell’apparecchio.
Passano la soglia, lo depongono nell’altra cameretta.
Mi alzo per andarlo a vedere. Mi chino su lui.
I ricordi della giornata di Trieste, le sue raccomandazioni per la pompa della benzina, la sua astuzia nei nascondere il ventunesimo sacchetto tricolore...
Sembra che dorma. Ha il viso composto, severo. Ha il suo vestito di pelle fosca.
Sembra un monaco che s’è beato nel transito. Quel suo viso maschio, quasi sempre lucido e grondante di sudore, con gli occhi chiari e arditi, con la fronte rada, col naso adunco, s’è pacificato e annobilito. Veramente riposa.
Rientro nella stanza attigua, e trovo il corpo del mio compagno ricoperto con la coltre nera dalla croce d’oro.
Il suo viso anche è coperto di garza.
Un marinaio è in punto di togliere la bandiera dal capezzale per sostituirvi una bandierina della Croce rossa. Glie lo impedisco. Egli la prendeva per tenderla nella parete dell’altra stanza.
Dispongo a destra e a sinistra, su la coltre nera, il rosso e il verde.
La vita magnetica del tricolore navale da battaglia.
La ralinga bianca, il cappio...
Per Giorgio vanno a cercare un’altra bandiera.
Entra Umberto Cagni, accompagnato da altri ufficiali. Lo intravedo, a traverso gli occhi bruciati. Si accosta, scopre il volto del morto, mormora non so che parola. Va a guardare anche il meccanico. Poi si avvicina a me che sono addossato al muro e mi sforzo di dominare l’orrore. Mi prende la mano, me la stringe, dicendo con una voce rude, soldatesca, quasi violenta: «Buongiorno!» Se ne va.
Gli scoppii del motoscafo. La lancia che s’allontana.
Ecco Manfredi Gravina, ecco Alberto Blanc. Non mi muovo. Un marinaio mette sotto le mie ginocchia un cuscino nero, il cuscino dell’inginocchiatoio.
È venuta la notte. Sento il primo grido delle altane: «Per l’aria buona guardia!» Penso a Renata, penso ai fiori ch’ella ha messo nei nostri vasi per lui.
Mi levo. Esco sul pontile.
La luna d’oro splende nel cielo, bassa, di contro a me.
Scendo nel canotto, ripasso pel canale.
Il muro dei Giardini, la ripa con gli alberi brulli, la nera navata del pallone.
Genua mi accompagna, per prendere i pacchi che avevo preparati e per consegnarli ad Alberto Blanc che doveva portarli a Roma.
Ho con me la morte, l’odore della morte. Renata mi aspetta: sa tutto.
Ci abbracciamo piangendo. Vuol venire a vederlo.
Entro nella sala da pranzo per prendere i fiori. Ci sono tre posti! Raccolgo tutti i fiori da tutti i vasi. Li porto con me in un fascio.
Rientro nella camera mortuaria.
I ceri ardono. Le fiammelle vacillano specchiate dalle lame delle baionette. I due marinai sono di guardia, immobili.
Dispongo i fiori ai lati del cadavere: sento la forma dei suoi fianchi, delle sue gambe.
Pongo le giunchiglie bianche sul rosso e sul verde della bandiera.
Scopro la povera faccia. La gota destra si gonfia e si annerisce. La bocca sembra chiusa.
La realità di tratto in tratto mi sfugge. Rifletto. Chiudo gli occhi. Me lo imagino vivo come ieri; poi lo guardo e lo vedo inerte, esangue. È vero?
La veglia comincia.
Di contro a me è la porta dell’altra camera mortuaria dove giace Giorgio Fracassini, illuminata, con un tremolìo d’ombre.
I due marinai immobili; il luccichìo rigido delle baionette nude.
Lo sciacquìo del canale, sotto la finestra.
Il grido delle altane.
Un’aria singolare, come un masso di cristallo impenetrabile, intorno al cadavere.
Verso le dieci arriva il Comandante in capo. Entra con passo energico. Domina la commozione. S’inginocchia, prega. Si rialza. Entra nella camera dove giace Giorgio Fracassini. Mi stringe la mano in silenzio, parte.
S’ode pulsare il motore del canotto. Poi tutto ritorna in silenzio.
Verso mezzanotte arriva il comandante Giulio Valli. Si siede accanto a me. Mi parla del morto.
Rammarichi, rimorsi affettuosi.
Confessa che fu domandato alle forze di Giuseppe Miraglia tutto quel che potevano dare, e oltre.
Nei primi giorni della guerra, solo, con un apparecchiuccio miserabile, con una vecchia pistola Mauser, volava contro il nemico, difendeva Venezia, esplorava Pola!
Mi parla della fiducia che l’aviatore aveva in me e di quella ch’egli stesso m’inspirava. Giuseppe Miraglia, due giorni prima, gli aveva detto: «Se proponessi a Gabriele d’Annunzio di volare su Vienna, risponderebbe semplicemente: — Andiamo—, si sederebbe sul seggiolino e non si volterebbe più indietro».
Il comandante esprime il suo rammarico per questa coppia distrutta, che aveva così grandi disegni ed era capace di attuarli. Poi parla della bontà dell’uomo.
Il mio dolore riceve, aggira e rapisce come un vortice le sue parole misurate.
Giulio Valli è un uomo fine, filosofico, temprato d’ironia, indulgente, forte e flessibile, fatto per comprendere e per pregiare una natura come quella di Giuseppe Miraglia.
Verso le due del mattino se ne va. Mando Luigi Bologna e Carlo della Rocca a riposarsi. Silvio Montanarella deve venire alle quattro.
Nuova nozione del tempo. Lotta fra l’imagine viva, continuamente creata dal ricordo, e il corpo immobile.
Quando l’angoscia si fa insostenibile e la coltre nera mi sembra vuota e il mio amore crede che il mio compagno sia laggiù addormentato placidamente nel suo letto a Sant’Andrea, mi alzo e sollevo la garza bianca. Il viso tumefatto mi appare. La bocca si chiude sempre più; si suggella sempre più fortemente. Il colore bronzino s’infosca.
Sono sfinito. Carlo discende, nel suo gabbano nero, e mi prega di andare a prendere un po’ di riposo. Resisto.
La guardia dei marinai si cambia, ogni due ore. Essi sono quasi tutti belli, grandi, severi, con un’espressione nobilissima di dolore. Hanno la cintura di cuoio, la cartucciera. Sono vestiti di blu scuro, col collare azzurro chiaro, col berretto di panno.
Scoccano le cinque. L’altana prossima grida, le altane lontane rispondono.
Lo sciacquìo continua.
Ho i piedi gelati sul pavimento nudo. Ho il gelo in tutte le ossa.
Mi alzo; vado a gettarmi sopra un letto in una camera del primo piano.
Un marinaio mi accompagna per i corridoi pieni d’ombra. Davanti alla porta della stanza un timoniere dorme, seduto, col braccio sul dossale della sedia e la faccia nella piegatura del gomito.
Entro. La stanza è bianca. Il letto è bianco.
Una lampada elettrica è accesa sopra il letto. Non oso spegnerla, se bene sia accecante.
Mi servo del gran mantello grigio come d’una coltre. Mi copro il capo, per non vedere la luce. Sono morto di stanchezza, ma non posso dormire.
Quando chiudo gli occhi e il sopore m’invade, vedo il mio amico vivo, che mi viene incontro. Sobbalzo.
Sogno ch’egli entra nella Casa rossa e che io gli dico: «Sei tu? Sei tornato?»
Si scopre, si disviluppa dal mantello nero. Non è lui: è una maschera, una di quelle maschere bianche ingessate che i Veneziani portavano con la bauta.
Passa un tempo che non so.
Odo passi nel corridoio. Odo il suono delle trombe mattutine nelle caserme prossime.
Il capo mi duole. Ho nella nuca e nell’occipite una pulsazione dolorosissima.
Odo lo scalpiccìo dei marinai che fanno la pulizia nei corridoi dell’Ospedale.
È il giorno? Di nuovo la realità mi sfugge.
È vero? Balzo dal letto, mi bagno gli occhi con un fazzoletto inzuppato nell’acqua della brocca. Discendo.
Mi perdo nei corridoi e nelle scale. Ritrovo la stanza mortuaria. Entro.
L’afa dei fiori e della cera.
La coltre nera, immutata. La forma del cadavere, immutata.
I due marinai di guardia.
Il romore del giorno, di fuori. Le trombe, le campane, il risveglio della città, il ricominciamento inevitabile.
È là il buon Silvio, con gli occhi rossi.
Il mio dolore al capo diventa così crudele che non resisto più. Ordino il canotto. Esco su l’imbarcatoio. Guardo il mattino freddo e cinereo.
Torno a casa, sfinito. Mi spoglio. L’uniforme ha un odore di morte, mi sembra. Lo stesso odore è nella mia biancheria. Mi spoglio di tutto. Entro nel bagno caldo. Qualcosa del cadavere è in me? Penso sùbito se abbiano lavato il corpo ferito, prima di rivestirlo.
Sentimento di deserto, di desolazione, nella casa.
Ricordi della vita lieve.
Il suo piacere delicato davanti al mio piccolo Watteau, il suo sorriso di Mandarino quando gli dicevo un’imagine concisa d’un poeta dell’Estremo Oriente.
Renata viene. È pallida. Non ha dormito. M’interroga. Le racconto.
Bisogna che io torni a Sant’Anna per mezzogiorno. Ordino una corona, alcuni mazzi di rose.
Renata vuol venire con me.
Non mangiamo quasi nulla. Il canotto è alla riva. Partiamo.
Venezia in cenere. La morte per tutto.
I gabbiani a stormi nel bacino. Il lor ridere basso, a fior dell’acqua tetra.
Renata porta un mazzo di rose rosse legato con un nastro cilestro.
Silenzio.
Le raccomando di contenersi. Mi guarda con due occhi coraggiosi.
Siamo all’imbarcatoio. Scendiamo. Non c’è nessun ufficiale di guardia.
Renata posa ai piedi del cadavere le rose, s’inginocchia, prega, col viso tra le mani chiuse. Non piange.
Dopo alcuni minuti angosciosi, la scuoto, la riconduco. Riparte sola. Io rimango.
Ventiquattr’ore sono trascorse dall’ora della morte.
Guardo il viso: è più gonfio, più scuro, con un po’ di sangue alle narici, agli angoli della bocca.
Il tempo passa. La guardia si muta. È sempre in me la stessa interrogazione: Perché?
Entra Luigi Bresciani, uno degli amici più devoti di Giuseppe Miraglia, il suo maestro d’aviazione, se bene più giovine di lui. Ci guardiamo, e non sappiamo frenare il pianto. Piangiamo, stringendoci.
Poi le parole rotte, la spiegazione della catastrofe, la discussione tecnica, i particolari nuovi, le scoperte; e gli sguardi muti che toccano il fondo dell’anima.
Due marinai portano la mia corona di rose bianche e rosse. La pongo presso il suo capo. Pongo anche presso la sua guancia destra (quella che è pesta) il mazzo di Renata.
Il tempo passa, nel medesimo orrore. Vado a guardare il viso di Giorgio. È cereo ma tranquillo. Una profonda pace lo beatifica.
È notte. Esco. Torno a casa per la fondamenta di Sant’Anna, a piedi.
La luna è già alta, dietro il tetto dei dieci camini. Fa freddo, un freddo secco. La via Garibaldi è piena di popolo. A ogni momento ho un’allucinazione: vedo Beppino che mi cammina davanti, col suo mantelletto nero, col suo andare spedito.
Passo per la Riva degli Schiavoni, per la Piazzetta, per la Piazza.
Passo davanti alla sua casa. Entro nel budello che va alla Corte Michiel. Le mura dei palazzi mi serrano come in pareti di ghiaccio.
Scarso lume nel vestibolo. Salgo nella scala cupa, tremando. Una voce di donna chiede: «Chi è?»
«Amici!»
In capo della scala è la padrona. Mi dice che la stanza è chiusa a chiave, chiusa da Gigi Bologna che è venuto a prendere la spada, la feluca, le medaglie. Ridiscendo, con una tristezza così pesante che vorrei non arrivare in fondo alla scala.
Fuggo. Ho la schiena ghiacciata dai brividi.
Santa Maria del Giglio: il bassorilievo di Zara.
I ponti.
La calle stretta.
La Casa rossa. Renata ansiosa e bianca.
Ci sediamo a tavola. Non si mangia quasi niente. L’amico è là. I dolci ch’egli amava, come un bambino goloso, sono là. Ma non ci sono fiori. Rimangono sul vassoio d’argento le due maschere di vetro: Arlecchino e Pantalon. Le tolgo, le metto sul caminetto. Si parla, si parla di lui: ci si sazia di disperazione.
Dormo qualche ora con incubi. Mi levo alle tre di notte. Porto con me il tubo, pieno di caffè caldo, che usavo portare nei voli.
Esco.
Notte di luna, adamantina.
Venezia defunta e chiusa nel diamante perenne.
Le calli e i campielli deserti. Il suono del mio passo quasi spaventoso.
Mi scocca l’ora sul Ponte della Paglia; e il grido delle altane si propaga nella chiarità sonora.
Lungo la fondamenta di Sant’Anna, vedo sul muro di una casa illuminata dalla luna l’ombra del soldato che veglia sopra un’altana in arme.
23 decembreÈ il mattino stabilito pel gran volo: un mattino glorioso. Non una bava di vento. La laguna è senza una ruga. Il cielo è immacolato.
S’egli fosse vivo! A quest’ora ci prepareremmo, ci vestiremmo delle nostre pellicce, proveremmo le nostre armi, metteremmo i nostri camauri lanuti, i nostri calzari di pelle. Saremmo allegri, agili, fidenti. Giorgio sarebbe là a preparar tutto nei nostri sedili. Il sacco dei messaggi sarebbe già riposto sotto il cofano del motore, come quello di Trieste...
Entro nella camera mortuaria.
Angelo Belloni è là. Testa triangolare, fronte ampia, occhi grandi, intensi come quelli dei falchi, senza battito.
Ci stringiamo le mani.
Vedo sùbito che la coltre è stata smossa, perché i fiori, già da me composti intorno al corpo, sono scomposti. Il medico ha fatto le iniezioni per conservare il corpo più a lungo.
Non si hanno notizie dei parenti. Non si sa se il fratello venga da Valona dove la notizia fulminea lo ha raggiunto.
I due marinai non sono più dalla parte della testa ma dei piedi. La stanza è già riempita di corone posate su cavalletti.
Forme senza bellezza.
La forma pura della corona è pervertita.
Stupidità delle corone funebri composte dai fiorai vanitosi. Ce n’è una finta, di porcellana e di zinco.
Le ombre delle corone tremano su la parete. Le fiammelle dei ceri vacillano specchiandosi nelle baionette.
Vedo gli altri due marinai di guardia, pel vano della porta che va nella stanza del meccanico.
Angelo Belloni si siede accanto a me. È un poco sordo. Parla, parla.
Per rispondergli devo mettere la mia bocca accanto al suo orecchio destro.
È un grande e sincero amico del morto. Parla di lui. Come lo conosce!
Tenerezza delle amicizie giovenili.
Rifà qualcuno dei suoi modi, racconta qualcuna delle sue piccole manìe.
Loda specialmente la sua bontà profonda, nascosta, pudica. Adduce esempi su esempi.
Mi dice, anch’egli, quanto mi amasse, qual beneficio egli avesse tratto dall’avermi incontrato.
Si parla, si parla. L’anima dell’amico è viva, presente, operante. Ci leviamo quasi insieme, di sùbito, con uno stesso pensiero.
Scopro il viso del morto. Ahimè!
Il naso è gonfio, sanguinolento, con le narici piene di cotone. Un orribile bavaglio di cotone gli nasconde la bocca. La tinta bronzina è ancor più cupa, senz’oro.
Ci sentiamo soffocare dall’afa dei fiori, dei ceri, della morte. Il sapore atroce è nella lingua. Usciamo, vediamo per la porta vetrata che è giorno chiarissimo! Quante ore sono passate?
È il giorno, il giorno del gran volo. Sono quasi le otto. A quest’ora saremmo già in volo verso Ancona. Saremmo già di là dalla Punta Maestra, di là da ogni miseria, di là dalla vita, di là da noi stessi.
Esco su l’imbarcatoio.
Il sole vermiglio a fior d’acqua. Il cielo puro. Il sole giovine e forte, il sole che balza, che aspira al meriggio.
La laguna è di seta cangiante come l’opale. Il campanile inclinato di San Pietro sembra di madreperla.
Un motore di canotto ha un palpito energico. Giorgio non l’ode più come il battito del suo cuore d’acciaio.
Ansia, rimpianto, fine di tutto.
Rientro nella stanza.
Mi offendono le forme stupide delle corone su i trabiccoli di canna, i larghi nastri inerti, penzoloni, con le lettere dorate. Soltanto le rose bianche di Renata sembrano vive e sensibili. Soltanto i grandi mazzi di violette scure sembrano degne della morte.
Non resisto più oltre. Me ne vado, a piedi, per la fondamenta. Nel rio si specchia la casa rossa dei dieci camini. La vita già si spande, misera e ciarliera. La gente guarda il mio viso pallido di superstite.
Vado all’Arsenale. L’Ammiraglio mi riceve subito. Ho una fitta nel cuore. Lo stile di guerra comandava di sostituire il caduto e di tentare l’impresa, stamani, nel giorno stabilito. Era la miglior maniera di onorare l’eroe morto.
Dinanzi a quell’alta e severa coscienza espongo in breve la necessità di non rinunziare al gran volo. Egli comprende, consente. Mi dichiara che appoggerà la spedizione, come ha promesso. Mi consiglia d’intendermi con quel pilota che mi sembri degno di subentrare nel posto del caduto. È semplice, rude, schietto. Già lo ammiravo. Da quest’ora lo amo.
Si parla della chiusura del corpo nella cassa, dei funerali. Mi dice che il padre, vecchio e malato, non verrà. Fra poco quarantotto ore saranno trascorse. Si stabilisce che il cadavere sia suggellato oggi alle quattro del pomeriggio.
Mi accommiato. Torno a casa.
Il giorno è così bello che mi sembra di non averne mai veduto uno più bello. Il 23 di decembre, il nostro giorno!
II destino non soltanto ha ucciso d'un colpo il mio compagno, ma, per ischerno, ha levato dal fondo del mare un mattino di gloria. Il sole monta, con non so che insolito vigore, il quale forse sembra straordinario alla mia estrema stanchezza.
Rientro nella casa, rotto in mezzo alla schiena, curvo. Faccio chiudere le imposte.
Mi tolgo gli abiti che sono impregnati di morte. Il fazzoletto, che levo dalla tasca, ha l’odore dei fiori appassiti e della cera strutta.
Renata prepara un altro mazzo di rose. Vuol tornare con me laggiù a Sant’Anna.
Prendiamo una gondola.
Acqua azzurra, felicità dell’aria dorata, stormi di gabbiani che ridono del loro riso chioccio.
Approdiamo ai Giardini per camminare un poco.
Suolo duro e sonante. Alberi spogli e disperati. Se guardo i rami, mi sembra che sieno essi per spezzarsi di dolore, del mio medesimo dolore.
Ridiscendiamo nella gondola, voltiamo pel canale, lungo la ripa degli alberi secchi. Il pallone frenato si dondola stupidamente nell’aria, sopra la sua gabbia nerastra.
La stanza è ingombra di nuove corone. L’afa è più spessa.
Renata s’inginocchia, depone le rose, prega. Esce, parte. Se ne torna in gondola, sola, col suo segreto.
E comincia la peggiore delle torture.
Sono le quattro, ma le casse non sono ancora pronte e il saldatore non è ancora venuto.
Tra le cinque e le sei, l’odore della morte nella stanza comincia a farsi intollerabile. Esco, rientro, esco di nuovo.
M’incontro con un nostro buon compagno, con un giovine pilota che ha già dato belle prove di prodezza. Lo prendo in disparte, lo conduco sul tavolato dell’imbarcatoio e gli parlo. Gli domando se vuole sostituirsi al caduto, nell’impresa dalmatica.
Esita. Finisce col dire ch’egli crede fermamente non esservi alcuna speranza di buon successo, ma che, da buon soldato, obbedirà se riceverà un comando netto.
Soggiunge: «Un solo motore. Un apparecchio infido. Circa nove ore di volo. Certo cadremo e rimarremo in mare. Non c’è da far conto sul soccorso delle torpediniere. Ma io, del resto, sono abituato a passare ore e ore in acqua».
«E io mi abituo a tutto rapidamente» gli rispondo, ritrovando per un attimo il mio sorriso.
L’ardore dissimulato del mio compagno perduto mi avviluppa. Rivedo le sue mani al volante, gli occhi verdastri dietro i vetri della maschera. E sento che forse mai più ritroverò il mio pari nell’amore del fato.
Stabiliamo di parlarne al comandante Valli. Davanti al mio viso fisso, il giovine si riprende e mi assicura che sarà felice di tentare con me il volo se si riconosca la necessità di tentarlo. Ma un suo compagno sopraggiunto riaccende il dibattito opinando che compiere il volo è offendere la memoria dell’estinto...
La sera è di opale, d’oro, d’ambra. L’orizzonte è gemmato come un lungo ordine di troni.
Poi la dovizia si vela e si fredda. Il cielo e la laguna sono due soavità gelide.
V’è una dolcezza che taglia? È questa.
L’uomo nella bara è adeguato all’orizzonte, anello dell’Universo.
Rientro. Vedo portar via le corone.
I marinai vuotano la stanza funebre. A fianco del lettuccio vedo la cassa scoperchiata in terra. Il coperchio è poggiato al muro verticalmente.
Il cuore mi trema così forte che mi appoggio alla spalla di Luigi Bresciani; ma mi pare che anch’egli abbia bisogno di essere sorretto.
Riafferro il mio coraggio, discosto da me chi fa l’atto di trascinarmi fuori. Sono risoluto a non abbandonare il mio amico, fino all’ultimo. Rimango in piedi, silenzioso.
La camera è ormai vuota. I marinai l’hanno sgombrata di tutte le corone. I ceri sono spostati. Dei miei fiori, ch’erano sopra la coltre, lascio portar via i primi e i recenti, fuorché il mazzo di rose bianche col nastro bianco.
La coltre è tolta. Appare l’armatura del lettuccio, appaiono le ruote. E intravedo, a un guizzo di fiammella, una macchia scura sotto il lettuccio, rabbrividendo.
La bandiera è tolta dal capezzale; la garza è tolta dal viso irriconoscibile. Quattro marinai prendono il lenzuolo per i quattro lembi.
La cassa aperta sta sul pavimento, parallela al lettuccio. È foderata di piombo; riposa su piedi dorati.
Mi tengo il mento per impedire che i miei denti battano.
I quattro marinai sollevano il lenzuolo.
La spoglia si scompone. Vedo le mani congiunte disgiungersi, i piedi fasciati vacillare, la testa tendersi al peso inerte, le braccia dei marinai contrarsi, i due uomini della cassa, i due operai mortuarii, da capo e da piede, regolare la deposizione, indifferenti, come si trattasse di una derrata.
Per qualche attimo i corpi curvi dei marinai mi impediscono la vista del cadavere.
I due uomini guidano il gruppo con parole sommesse. «Più qua, più là. Così. Ora giù. Così. La misura è giusta, per l’appunto!»
La misura è giusta: il corpo entra nella cassa esattamente. I piedi fasciati stanno contro l’asse del fondo, il capo tocca l’altra asse.
C’è una specie di orrore impietrato, intorno a me.
Sento contro la mia l’anima di Luigi Bresciani, la più tenera, la più devota, la più pura.
Io solo mi avanzo, m’inginocchio, guardo il cadavere, depongo il mazzo di rose su i suoi poveri piedi rotti e fasciati.
Le mani sono gialle, il viso è quasi nero, come quello d’un mulatto. La bocca è coperta dal bavaglio di cotone.
Ho il coraggio di sfiorare le mani con le mie labbra.
Mi rialzo, soffocato; mi volto, vado verso Luigi che non ha più colore, che ha una bocca convulsa di bambino. Piego la faccia su la sua spalla, singhiozzando.
Odo il lettuccio passare accanto a me, su le sue ruote, spinto verso la porta del fondo aperta sul chiostro. L’aria di fuori entra e rinfresca l’afa irrespirabile ove rimaneva l’odore dei fiori, della cera, del dissolvimento.
Riapro gli occhi.
La cassa è coperta dal coperchio di piombo. Il saldatore tiene in pugno la lampada ove la lingua di fiamma, azzurra con la punta gialla, rugge e riempie del suo rugghio il silenzio.
Dei due uomini uno tiene la lampada attiva, l’altro tiene un moccolo e rischiara l’opera.
La porta è lasciata aperta sul portico. Entra l’aria fredda e fa struggere i ceri che lacrimano. Il nerofumo entra nelle narici.
L’uomo della fiamma è un giovine bruno, dal viso impassibile, grande, membruto. L’altro è un uomo su la cinquantina, con un viso travagliato, penoso, con baffi e capelli brizzolati. Stanno curvi, l’uno accanto all’altro, col cannello, col saldatoio, con la verga di stagno fusibile; e lavorano intorno alla commettitura del piombo.
S’ode il rugghio della fiamma che il saldatore dirige.
Ogni altro rumore è abolito.
Non v’è che il silenzio e quella voce.
Diventa ritmica, talvolta: rammenta il battito di un motore.
Il fuoco dardeggiato suggella l’eternità. Il tempo è infinito.
A ogni breve sosta del saldatore, si pensa: «Ecco, è fatto». Ma il rugghio non s’arresta.
L’uomo si asciuga il sudore col dorso della mano, e prosegue. L’altro esamina il lato già saldato, chinando la guancia su la commettitura, guardando di sghembo. Trova il fallo: avverte il compagno, che si riavvicina e sfrega.
È il secondo stadio dell’allontanamento.
Il cadavere è omai separato da me, è chiuso, è solo, è già della tomba. Fra poco sarà della chiesa. Domani sarà portato al cimitero, deposto nel deposito, in una stanza estranea, incognita. Tre volte lontano.
Un prossimo giorno sarà sprofondato nella terra, calato nella fossa, sepolto. Quattro volte remoto.
Mi pareva ancor mio, dianzi, se bene disfatto, se bene difformato. Ora è prigione.
Ha con sé le rose su i suoi piedi rotti.
Non si potrebbe levare, neppure se il Cristo lo chiamasse.
La piastra di piombo lo grava. La saldatura è compiuta, il suggello è perfetto.
Ora è là, non più con la nostra aria, con l’aria che io respiro, ma con la sua aria, con l’aria della tomba, con l’aria dell’eternità, che non consumano i suoi polmoni entro le sue costole infrante.
L’uomo grigio fa l’esame della saldatura, rischiarandosi col moccolo che quasi gli brucia le unghie. Trova ancora qualche fallo. E la lampada ruggente, ch’era posata in un angolo, è ripresa. La fiamma è dardeggiata di nuovo; tutta la commettitura è sfregata, lisciata.
Una voce dice, squallida, senza umanità: «La segatura».
Mi volto. È un medico dell’Ospedale, un medico della Marina, piccolo, canuto, diligente, preciso. Ripete: «Ora la segatura».
Non comprendo, e il mio sguardo osserva tutto il pavimento.
Vedo, poco lontano dai miei piedi, qualcosa di bianco che sembra ai miei occhi stanchi foglie di rose, delle rose di Renata.
Mi chino un poco. Sono falde di cotone.
Più in là, nel mezzo della stanza, rivedo quella macchia oscura che avevo scoperta sotto il lettuccio.
È sangue, è sangue e siero colati a traverso il materasso.... Mi pare che il cuore mi cada giù, sotto il calcagno.
Un marinaio porta la segatura, e vedo che i due saldatori la spargono sul coperchio di piombo. Perché?
Per l’umidità, per proteggere il metallo dall’umidità.
Affinché la segatura entri bene nell’interstizio fra la cassa di legno e quella di piombo, i due uomini cominciano a sbattere le palme delle mani aperte contro il fianco del legno rapidamente, come fanno certi manipolatori di muscoli. So che questo modo, in quell’arte, ha un nome speciale. Il legno rimbomba. Chiudo gli occhi.
Imagino che il mio amico supino si svegli e dia di dentro quei colpi. Sento come il mio spirito stremato sia prossimo al delirio e all’allucinazione.
«Basta! Basta!» grido dentro di me, ma il grido non esce.
Quegli uomini seguitano meticolosamente, sinché l’interstizio non è pieno.
Poi spargono sul coperchio la restante segatura.
Poi prendono il coperchio di legno che è poggiato alla parete.
La fiamma rugge tuttavia, posata a terra, presso la finestra nascosta dalla bandiera tesa.
Il coperchio di legno è collocato nel suo luogo, premuto, calettato. Uno degli uomini conficca e gira le viti.
Sul coperchio è una croce dorata e una targhetta d’ottone incisa.
Un marinaio, intanto, con una strofinaccio legato a un’asta, pulisce sul pavimento la macchia di sangue. Quando ha finito, passa accanto a me, quasi mi tocca, con l’asta in alto e lo strofinaccio penzoloni.
La cassa finalmente è pronta. Sono circa le sette di sera. S’ode il grido dell’altana.
Quattro marinai sollevano la cassa con due fasce di canape. Io m’avvicino, metto le mie mani sotto il fondo e sostengo il peso.
Sono sbattuto contro lo stipite della porta, al passaggio.
Usciamo nel chiostro. Mettiamo la cassa sul lettuccio a ruote. Operazione lunga, perché la cassa traballa, non trovando il suo assetto.
Mi chino a leggere la targhetta incisa: il nome e due date. Egli nacque nel solstizio d’estate: 21 giugno 1883; morì nel solstizio d’inverno: 21 decembre 1915: a trentadue anni e sei mesi.
Il lettuccio cammina su le ruote verso la Cappella.
La Cappella è senza bellezza. L’altare è spento.
Non so più vedere, non so più sentire.
Un’ottusità orribile mi fascia.
La coltre nera e oro è posta a coprire la cassa. Un marinaio è accanto a me coi miei fiori e aspetta che io li prenda e li disponga di nuovo su la coltre.
I due saldatori lavorano alla cassa di Giorgio il meccanico.
Il rugghio della fiamma giunge alle mie orecchie mentre rasento la porta della prima stanza vuota. Affretto il passo.
La nausea dei fiori e della cera mi travaglia. Esco.
Oscurità. Ombre erranti. Chiacchiericcio. Odore di cucina, odore di miseria.
Di tratto in tratto, ho un sussulto. Vedo ondeggiare dinanzi a me il piccolo mantello nero. Le ginocchia mi si piegano, rotte. Mi sembra che non arriverò mai nel mio rifugio.
24 decembreSu la fondamenta di Sant’Anna una folla di donne del popolo che s’accalca ai cancelli dell’ospedale.
Visi dolorosi di Marie, visi travagliati dalla fatica e dalla sventura, visi di pietà.
Bambini macilenti, tutt’occhi, sucidi, tristi.
L’acqua del rio malata.
La casa rossastra coi dieci camini a imbuto.
Un cielo grigio, umido, freddo.
Quando passo la soglia della Cappella, non vedo più nulla, se non i due feretri in mezzo a muraglie di corone.
L’altare ha i ceri accesi.
Uno mi dice: «Ecco il fratello». Vedo il fratello, piccolo come lui, con un viso ossuto ed energico, con una corta barba nera. Ha un continuo moto convulso nella mascella, come se masticasse qualcosa d’atrocemente amaro.
Viene da Valona, dal comando d’una squadriglia di torpediniere. Ha lasciato la crociera notturna e diurna, per accorrere. Trova la cassa chiusa, il feretro ammantato. Porta seco il soffio della guerra, l’odore verde del basso Adriatico, qualcosa del ponte d’una torpediniera in caccia, qualcosa della scia d’un silurò ben diretto. È un uomo.
Non ho voglia di dire una parola. Ho i denti serrati. Passo davanti a uno stuolo di ufficiali. Vado a inginocchiarmi solo, a fianco della cassa, presso il luogo dove il suo capo riposa.
Il suo capo, invisibile, è discosto da me due palmi. È là. Lo vedo a traverso la coltre e il legno. Iersera era infoscato, fumoso, gonfio. Un’altra notte è passata. È il terzo giorno. Lo sfacelo continua.
Ho nelle ossa un freddo orribile. Toccare la morte, imprimersi nella morte, avendo un cuore vivo!
Eppure siamo anche una volta soli, noi due, soli come nella carlinga in volo. Tutti gli altri mi sembrano estranei, anche il fratello. Siamo soli.
Il prete dice la messa funebre. Dal fondo della Cappella sale una preghiera mormorata dai marinai, un coro sommesso e roco.
Sento l’immobilità del mio corpo. Le ginocchia mi dolgono, e non posso muovermi.
Il prete ora s’accosta alla cassa, con un libro, tra due ceri; e legge le preghiere dei morti.
Tuttavia il mio amico è là. Quando la cerimonia finisce, sento che v’è ancóra più gradi da superare nella separazione.
Ora è là, ancóra mio. Sento la sua carne disfatta. Vedo le rose bianche su i suoi piedi fasciati.
Ma quattro marinai s’avanzano per sollevare la cassa, con larghe cinghie. Essi lo portano via.
Il cuore si serra e spasima. Il morto s’allontana un poco di più.
Con un movimento istintivo, mi accosto e metto le mie mani sotto la cassa: ne sento il peso. La coltre mi copre le braccia fino al gomito.
Cammino, senza vedere niente altro che il nero e l’oro e i fiori. I fiori di Renata son là, col nastro cilestrino, insieme ai miei.
Si va, si va. Sento la presenza dell’acqua. Camminiamo sopra un tavolato. Dietro di me è l’altra cassa, che incalza.
La lancia parata di nero e argento, col timone coperto di drappo, è contro l’imbarcatoio. Sono su l’orlo. La cassa vacilla, mi sfugge. Non la tocco più. Chiudo gli occhi.
I marinai la calano nella lancia, la pongono là, coi piedi volti a prua. L’altra cassa è collocata accanto.
Poi corone corone corone, una sopra l’altra. È come un sogno, è come uno spettacolo, è come una figura di danza.
Sotto il cielo bigio, il giallo grida, il rosso squilla. Passano, passano di continuo, portate dai marinai, corone senza numero.
Passano, s’imbarcano, riempiono la lancia funeraria, riempiono due altre barche.
Sembra la festa di giugno, quando le peate vengono dalle isole col carico dei fiori e dei frutti.
Ancóra, ancóra ghirlande!
È come un movimento circolare, quasi una figura di danza, quasi una teoria sacra: qualcosa di antico e di pagano. La meraviglia arresta il dolore.
Le barche sono colme. I motori scoppiettano. Il corteo marino si muove, passa sotto il ponte di legno folto di gente che guarda e compiange.
Il popolo fa la sua ghirlanda pietosa sul ponte curvo, in silenzio.
La lancia con le due casse è presa a rimorchio.
Una barca carica di fiori è a sinistra, contro il bordo.
Una gondola nera, col felze dove s’intravede il prete e l’accolito, sta a destra, contro il bordo.
Si naviga lentamente, per le lagune scolorate che fende la scia pallida, la scia della morte, lungo il canale segnato dai pali.
Le acque son basse, le barene appariscono.
Ecco le mura rossastre che cingono l’isola dei morti.
Mi volto a guardare laggiù il Casino degli Spiriti, gli orti di Tomaso Contarini, i luoghi delle nostre delizie. (Sere d’estate, sere di luna; gondole piene di donne che non eran nostre; malinconia e disdegno.)
Siamo alla riva, siamo sotto un muro di mattoni corrosi, sovrastato dai cipressi.
Si approda.
È come un sogno d’oltremare, d’oltremondo.
Mi ritrovo su lastre di pietra.
Cammino di nuovo dietro la cassa, di nuovo la tocco, la riprendo.
Entriamo nel chiostro, sotto il portico. Andiamo verso una porta, verso il deposito mortuario, dove le due salme attenderanno fino a lunedì per essere seppellite.
Non mi distacco dal mio feretro. Entro nella stanza fredda, imbiancata.
La cassa è posta su due cavalletti. È ancora coperta dalla coltre e dai miei fiori.
Mentre mi raccolgo e dico anche una volta addio al compagno (il suo corpo è scosso da questo continuo moto, dalle prove e riprove per la collocazione stabile), ecco che cominciano a entrare le corone.
Sono enormi, talune. I portatori le dispongono contro le pareti, l’una su l’altra. Sono cento, sono più di cento.
Un’afa irrespirabile. Fiori ancor vivi, fiori morti. Tutta la stanza è ingombra. Per far posto, bisogna premere le ghirlande, calcarle, pestarle.... Mi sento venir meno. Mi portano fuori all’aria.
Credo che non potrò più amare i fiori. Sono avvelenato da questo lezzo di sepolcro.
Ho la testa vanita. Trasogno. Dimentico la sosta nel cortile dell’Ospedale.
All’uscire dalla Cappella, il regolatore della cerimonia, il comandante Valli, arresta i due feretri in mezzo alla corte.
Vedo un quadrato d’uomini. Gli accompagnatori si dispongono a torno. Vedo gli Ammiragli, i Generali, gli ufficiali, a capo scoperto. Il fratello è accanto a me. C’è un gran silenzio. Che si aspetta?
Mi guardo intorno, e vedo occhi che mi guardano. Che si deve fare?
Il comandante Valli mi s’avvicina e mi domanda se io voglia parlare.
Credo che sono divenuto ancóra più pallido, perché premurosamente mi dice: «No, no, se non può, se non si sente di parlare...»
E c’è intorno un silenzio spaventevole.
Il cielo grigio si abbassa sul mio capo, come una cappa di ferro.
E il silenzio sembra eterno.
Devo strappare le parole dal mio cuore stretto. Il fratello mi guarda. Tutti sono intenti a me. V’è un’attesa angosciosa, che cresce d’attimo in attimo.
Faccio un passo innanzi; poi mi volgo al feretro.
Non vedo l’altro feretro, dimentico l’altro morto.
Parlo con una voce che mi fa tremare in tutte le fibre e che quasi non riconosco.
Vedo sopra un viso colare le lacrime.
E la parola mi si rompe.
Quando la camera di deposito è piena e pigiata di fiori, i custodi la chiudono. La sento chiudere dietro di me.
Andiamo verso la riva, dove sono le barche.
Qualcuno mi s’accosta e mi mostra un biglietto che un rematore in sandalo gli ha recato dal Casino degli Spiriti.
Rosalinda è là, è arrivata stamani, all’improvviso. È andata al Casino per assistere al passaggio della barca mortuaria, all’approdo. Desidera vedermi, parlarmi. Mi prega di raggiungerla.
Non posso. Non ho più forze. L’aspetterò alla Casa rossa, s’ella potrà venire prima della partenza. Deve ripartire alle due. È già mezzogiorno.
La mia barca, al ritorno, costeggia i muri di San Michele, rossi di mattone con la base di pietra chiara.
Ricordo una notte d’estate, una notte d’agosto. Eravamo andati a Murano in gondola. Rosalinda era con noi. La laguna era così fosforescente che ogni colpo di remo levava lunghe fiamme bianche. E ci chinavamo a guardare. Il mento delle donne ne appariva rischiarato.
Lungo i muri del cimitero cessammo di ridere e di motteggiare.
S’udiva il tonfo misurato dei remi.
E sotto i muri funebri la fosforescenza creava anella e ghirlande di luce.
Una melodia luminosa cingeva l’isola dei morti.
Egli la udiva, la vedeva. Egli aveva là il suo luogo profondo.
Una tregua. Egli è del camposanto ma non è ancóra della terra. La sua fossa è scavata ma non sarà riempita se non dopo il giorno santo.
La pena s’è ottusa. Ora sono in una specie di torpore cupo, stanchissimo.
Renata è in silenzio, chiusa nel suo segreto, con sotto le ciglia folte quei suoi occhi fissi intagliati come gli occhi invitti delle Aquile romane.
La casa è in una quiete sepolcrale, è cinta d’acque morte come l’isola dove ho lasciato il mio compagno. Il palazzo dei Leoni è là, sul Canale, con le sue erbe disseccate, col suo aspetto di abbandono selvaggio, come una dimora leggendaria. I pavoni bianchi non gridano su la scalinata di marmo inverdito; ma i gabbiani tessono e ritessono voli su l’acqua livida, galleggiano, poi si levano, più silenziosi delle falde di neve senza vento.
Qualcuno suona alla porta.
Non posso più udire il campanello senza sussultare.
È Rosalinda, ansante, velata, con le mani tese. Non l’aspettavo più.
La sera cade rapidamente.
Debbo ricondurla alla stazione.
Chiedo la gondola.
Entriamo nella bara oscura. Tutto il canale è buio. Nel felze non la vedo. C’è l’oscurità stessa che dev’essere entro la cassa, laggiù, tra tutte quelle corone che si sfanno.
La sera che cala su l’isola dei morti, il chiostro deserto, le lastre sconnesse, il pozzo tristo come sepolcro fra sepolcri, la porta chiusa della camera di deposito, la fossa scavata nell’erba fangosa, le croci fitte e irte come stecchi nello sterpeto, le campane di sott’acqua, le sirene dei vaporetti che passano...
La lascio bruscamente su la riva abbuiata, dove vagolano fantasmi. Rientro nel felze.
Il mio amico è laggiù nel suo piombo, così com’io sono in questa prigione vacillante che puzza di muffa e di cose putrefatte, sopra la marea bassa.
D’improvviso, ho paura. Qualcuno è con me. Rimango immobile, con gli occhi fissi allo sportello.
Mentre scrivo nel buio, il pensiero mi si rompe e la mano si arresta.
Allora la lista che ho voltata si rialza e ricade sopra le mie dita, senza rumore.
Ho un brivido di spavento. E rimango immobile, con tutto il corpo rigido, non osando più tracciare un solo segno nelle tenebre.