< Notturno (D'Annunzio)
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Stanotte il letto oscilla e vibra come l’ala doppia tesa tra mare e cielo. Per bere il vigore dell’Adriatico apro la bocca, ma nessun sorso fresco m’entra nella gola.

L’iodio mi fa una bocca di metallo, una gola d’acciaio. L’acciaio è arroventato nella fucina del mio occhio ardente e temperato nella pozza del mio sangue spesso.

Grido e non odo il mio grido.

La faccia smorta di Alfredo Barbieri è su la proda del letto, come sul bordo della carlinga, ma senza la maschera e senza la celata di cuoio. Il gesto del pilota mi passa nel braccio intorpidito, ma non me lo muove.

Vedo il guanto nerastro di Oreste Salomone nell’atto di scansare il corpo greve caduto contro il volante che Luigi Bàilo ha abbandonato per rizzarsi in piedi a far fuoco da poppa contro l’avversario mentre roteando gli passa nella mira.

Il corpo ripiomba a destra. La testa penzola. La celata si riempie come una tazza rotonda. La spruzzaglia incomincia, simile allo sfavillìo del tizzo che si consuma nella rapina del vento.

Luigi Bàilo ritorna a proravia per la passerella tra i due serbatoi. Non ha più l’arma in mano. Con la mano si regge il braccio stroncato.

Resta un solo pilota valido al governo. È necessario ch’egli sia protetto, perché riconduca alla Patria l’ala e la soma.

Il ferito si china sul compagno, per fargli scudo, egli invalido e disarmato.

Vedo, a traverso la maschera, a traverso le lane e le pelli, la trasfigurazione sovrana d’uno stretto viso d’uomo: il dio nel ciborio.

Ecco che più a dentro è ferito il ferito, dalla terza raffica. Trapassato è lo scudo magnanimo. La volontà risfavilla nello sfavillìo della porpora.

Barcolla, si piega indietro, si appoggia al serbatoio, cerca di riannodare le ginocchia che gli si slegano. Non vuol cedere. Può servire tuttavia da scudo. È necessario.

Oreste si volta di tratto in tratto a guardarlo. Distoglie una mano dal volante per toccare il fratello con un gesto di conforto.

Si volta ancóra; e lo vede disteso nella passerella, tra rame e rame, supino: un sacco di sangue.

Era il superstite una vita; ora è tre vite, e tutto l’amore indomabile.

Ho il petto pieno di grido, e non odo la mia voce.

Il letto oscilla, sbanda, e poi precipita. Un deserto di sasso, sgretolato e forato, viene precipitosamente incontro al mio occhio che non si chiude. Gli attimi sono eterni. La caduta non ha fine.

Ecco il Carso, pallido. Ecco la selva di Tarnova, nera. Ecco l’Isonzo, ceruleo.

Ora mi sembra di percepire nella caduta lo splendore bianco delle mie ossa. La mia bocca è aperta e arida come una di quelle fenditure nel calcare scarnito.

Brucio. Il sudore stilla come un pianto che non trovi più la via del ciglio.


È mezzogiorno. Le vie di Pordenone sono deserte e tristi. Intravedo, in una fuga d’alberi spogli, laggiù, i monti di sublime zaffiro. Un cane randagio si getta contro la macchina e fa sguizzare le ruote. Arrivo alla porta del Comando. È socchiusa. La spingo; salgo. Non so perché, pavento nell’ombra il tonfo del mio passo sul legno. La casa è deserta. Nessuno apparisce. Chiamo.

Un fantaccino biondiccio si mostra dietro un banco da negozio, balbettando, con un boccone di pane che non gli passa ancóra pel gozzo.

Inconsapevole, gli chiedo: «Il colonnello Barbieri è al campo?»

Sembra ch’egli non comprenda. Si sforza d’ingoiare il suo boccone faticoso.

«Mi aspettava» soggiungo. «Dov’è?»

Egli non risponde. Si volta e va nella stanza contigua.

Il silenzio è così perfetto che dal mio luogo odo il suo biasciare. Un colpo di vento fa tintinnire i vetri ove distinguo le allumacature della pioggia. Noto le linee verticali nella carta della parete, i nodi nella tavola del banco. V’è nell’aria qualcosa che inclina il mio spirito a interpretare i minimi segni.

Il fante ritorna a me con un fascio di pellicce macchiate di bruno, chiazzate di sangue risecco. Depone sul banco il fardello truce come il mercante scarica la balla di panno da misurare a braccia.

Sono le spoglie di Alfredo Barbieri reduce dall’impresa di Lubiana.


L’aria s’è fatta di cristallo gelidissimo. Ha la medesima qualità di quello spirituale masso di ghiaccio che serra la testa del cadavere nella prima ora. La mia corsa diritta la fende come il diamante riga il vetro. E lo stridore mi divide il cervello.

Giungo alla Comina. La strage non turba i cuori agguerriti. L’accoglienza dei miei compagni non è senza sorriso. Sento che la fame di mezzodì travaglia la giovinezza, più d’ogni altra cura.

Salgo ancóra una scala di croce. Entro nella piccola stanza dove Oreste Salomone è coricato in un lettuccio da campo. Da prima non vedo se non la benda che gli fascia il capo; sùbito dopo, non vedo se non gli occhi della sua magnanimità fissi nei due solchi del suo pallore.

Sembra che anch’egli abbia perduto tutto il suo sangue nel vento e nel rombo, come gli altri due, se bene la mitraglia non gli abbia portato via dal capo se non una lista di cuoio e una ciocca di capelli attraverso la cuffia dura.

È d’avorio senza vene, santamente scolpito. La forza l’ha abbandonato. La sovrumana forza del suo esempio s’è sparsa nell’universo, e non è più in lui. Il suo fatto è alzato come una colonna perenne sopra lui giacente e paziente.

Tutto è compiuto. Tutto è consumato. La stanza è fra quattro pareti come la cassa è fra quattro tavole.

La magnanimità ha un premio non più largo d’una moneta. Presso il capezzale, fra le ampolle dei farmachi, riluce la medaglia nuova battuta in un conio senza bellezza.

La mano dell’eroe è debole come quella d’un fanciullo. La tengo stretta nella mia, come per partecipare della sua gloria, con quella divina angoscia che è l’aspirazione al sacrificio eroico: in me ammenda d’ogni miseria e d’ogni fallo.

Prima ch’egli parli, dentro mi rode l’ingiuria della sorte. Il posto a prua m’era destinato, nella rappresaglia di Lubiana: il posto di combattimento e di condotta, presso l’arma nerazzurra.

«Ti abbiamo atteso fino a mezzanotte» dice l’asceta d’avorio.

Imagino l’aspettazione vana in quella bottega da caffè mal rischiarata, su la piazza deserta. Un così gran dado doveva esser tratto dal destino sopra una tavola di pietra ignobile, tra il fondiglio dei liquori e la cenere dei sigari!

«Non viene» aveva detto Alfredo Barbieri a mezzanotte. «Mi rincresce. Era il Segnale per le squadriglie,»

E aveva ripetuto un mio verso del libro d’Elettra.

Dopo un breve silenzio, quasi in ascolto della notte lontana, aveva soggiunto: «Ebbene, prenderò io il suo posto.»

Luigi Bàilo aveva tentato di dissuaderlo. «S’egli non arriva a tempo, aumenteremo del suo peso il carico delle bombe.»

«Ci vuole un Segnale» aveva risposto il generoso. «Verrà con voi il vostro Comandante.»

La triste bottega s’era spenta. Il destino aveva scambiato i dadi nel buio. La morte aveva cancellato dalla tessera il mio nome e prestamente scritto quell’altro.

Non è vero che la morte sia per tutti eguale.


Il superstite parla basso, non dal fondo del letto ma dalla profondità del sacrificio, dall’intimo di non so qual cripta piena di quella presenza potente che sorge dalle reliquie venerate. Ho tuttora la sua mano nella mia, e mi curvo verso il suo alito penoso.

Il petto mi si scava, per ogni parola che rappresenta a me vivo la mia morte, a me deluso la mia gloria. Sembra che il petto mi si vuoti delle cose carnali che respirano e palpitano, per riempirsi soltanto di quel sentimento inesprimibile che non è rammarico e non rimorso né rancore né dolore né furore, e non maraviglia né estasi né ricordanza, ma tutte insieme queste passioni senza scampo.

«Dimmi, dimmi.» L’eroe trascolorato s’affievolisce sempre più. Le sue pause sono sempre più lunghe. Non ho pietà. Incito la sua stanchezza. «Dimmi!»

Non mi parla dell’altro, mi parla di me: di me poeta alla mia poesia, di me combattente alla mia prodezza. Sono un’ombra che torna dalla via sanguigna del cielo. Sono un’ombra alata che ascolta il suo mito.

La testa gloriosa aveva due fóri. Dall’uno il sangue aspergeva i compagni, dall’altro sfavillava nel vento mattutino...

Ma vedo a un tratto su i larghi occhi bruni abbassarsi le palpebre, e le lacrime riempiere le occhiaie cave.

Silenzio. Pongo la mia gota sul lembo del guanciale; e rimango immobile, estatico, di là dalla mia coscienza, col mio dolore che è più forte di noi due, col mio dolore che ha la struttura e l’aspetto di un essere vittorioso.

Ecco che novamente siamo tre, come su la prora aerea di battaglia.

Per un’altra dipartita? verso quale altro cielo?


L’aria ridiventa di cristallo gelido sotto l’acuto diamante della rapidità. Riprendo la mia corsa. Mi sembra di essere semivivo. La metà dell’anima è transita; l’altra metà è in via, è curiosa della materia di quaggiù, osserva la macchina della sua tragedia.

Penso gli strumenti della Passione appesi al legno che non porta più la soma del corpo suppliziato. Penso le grandi croci erette su l’esitazione dei crocicchi, le croci senza crocifisso, alla cui cima è il gallo vigile che non ha cantato la terza volta.

Quattro essenze di legni componevano la croce del sacrificio: il cedro, il cipresso, il palmizio, l’ulivo. Nel nostro Occidente, al palmizio e al cedro non vogliamo noi sostituire il frassino e il pioppo dell’ala eroica?

Il campo di Gonàrs è squallido come un calvario spianato. «L’Aquila romana» è sola, in disparte, lontana dalla riga dei velivoli leggeri, a due braccia dal canaletto evitato per miracolo nella discesa funerea. Le sue doppie ali traverse, fra la prua e i timoni, formano la croce cruenta.

È nel piano ed è sopra un culmine. Appare come una struttura solida di legni di tele di metalli, ed è una sostanza spirituale. Sembra esanime, ed è tutta tesa dall’anima come il veliero è gonfio di fortuna. Sembra muta; e nell’una e nell’altra cellula, tra cèntina e cèntina, tra motore e motore, tra fusoliera e fusoliera, per mezzo ai fili d’acciaio, nella carlinga piena di congegni, lungo il bordo levigato, il silenzio è un silenzio che a chi l’ascolta parla una parola indimenticabile. È il testamento del sangue.

Non v’è parte che non sia aspersa.

Il sangue è omai fisso; e pure gronda sul mio capo quando mi curvo tra le ruote del carrello, non osando inginocchiarmi davanti ai testimoni estranei. Le stille a miriadi si riscaldano si ravvivano e si rinvermigliano, come la reliquia bruna che di sùbito rifiammeggia liquefatta nell’ampolla.

Salgo su per la costola di prua, salgo su pel mio stesso brivido, con le mani nudate; e le stille si stampano nelle mie palme.

Rivivo la mia morte; ripatisco la prova della mia morte. Ecco che sono al mio posto, di contro alla mitragliatrice nerazzurra, dando la schiena ai due volanti. Il cuore mi batte nella gola, mi pulsa nel palato, mi urta nei denti. La realtà squarcia il mio sogno; il mio sogno taglia la realtà.

Odo il rombo dei velivoli leggeri che s’alzano dal campo a regolare il tiro delle artiglierie passando sopra la stazione dei messaggi aerei.

Dietro la canna dell’arme avversaria, che mi manda la prima raffica, distinguo il bianco atroce dell’occhio.

Scorgo sul campo giallastro una riga di bombe grige allineate, coi governali che luccicano.

Mi penetra la sensibilità del cielo commosso dalle onde che recano i messaggi della battaglia carsica lontana.

Vedo il gesto accorto del nemico roteante, che invita alla discesa e alla resa.

Mi volto, con un gran sussulto, come se qualcuno mi tocchi. A destra del volante abbandonato da Luigi Bailo, lungo il bordo della carlinga, su la linea dell’apparecchio di mira, vedo il luogo preciso dove s’appoggia il mio collo: preciso come il luogo acconcio che indicava alla vittima inginocchiata dinanzi al ceppo l’uomo della mannaia.

Quale mano imperiosa mi spinge e mi piega?

La mia testa s’abbatte, si sporge, penzola. Le mie ossa si ghiacciano.

La cupa striscia perpendicolare di sangue sembra che si parta dal mio occhio affascinato.



Vólti vólti vólti, tutte le passioni di tutti i vólti, scorrono attraverso il mio occhio piagato, innumerabilmente, come la sabbia calda attraverso il pugno. Nessuno s’arresta. Ma li riconosco.

Non è la folla romana di maggio, nella sera del Campidoglio? Enorme, fluttuante, urlante.

Sento il mio pallore ardere come una fiamma bianca. Non v’è più nulla di me in me. Sono come il demone del tumulto, sono come il genio del popolo libero.

La mia costanza di trent'anni, il mio amore e la mia carità dell’Italia bella, il coraggio della mia solitudine, il mio canto nel deserto, il mio dispregio del disconoscimento e del vituperio, la pazienza della mia aspettazione, l’inquietudine del mio esilio mi si trasformano in una sola massa di forza rovente. Tutto il passato confluisce verso tutto l’avvenire. Vivo alfine il mio Credo, in ispirito e in sangue. Non sono più ebro di me ma di tutta la mia stirpe.

Vólti vólti vólti, formati nella bragia carnale, stampati nel fuoco sanguigno.

Il tumulto ha il fiato di una fornace, l’ànsito di un cratere vorace, il croscio di un incendio selvaggio.

Trascino e sono trascinato. Salgo per incoronare e salgo per incoronarmi.

Una primavera epica mi solleva e mi rapisce, come se tutta quest’antica pietra trionfale fosse dispietrata da un succo purpureo.

Le risse delle rondini rasentano il cavallo verde di Marco Aurelio, che a ogni strido sembra sia per scavalcare l’Imperatore e per impennarsi verso il fato novissimo.

Il delirio confuso della moltitudine si fa voce chiara in me.

Parlo. Ogni mia parola rintrona sotto il mio cranio come ripercossa dal metallo concavo. Ogni soffio mi sforza il cerchio del petto. Ne soffro e sono altero che la mia gioia sia mista di patimento.

È come il dolore di una creazione, è come l’angoscia di una nascita. La folla urla in travaglio. La folla urla e si torce per generare il suo destino.

Di là dal davanzale coperto di piombo, vedo mille e mille e mille vólti, e un vólto solo: un vólto di passione e di aspettazione, di volontà e di riscossa, che mi brucia nel mezzo del petto come una piaga generosa.

Simile a una improvvisa canzone di gesta, il mio dire si divide in larghe lasse che il clamore compie e trasporta.

Sopraffatto da un grido più alto d’ogni altro, smarrisco nella pausa la mia voce. Sembra che l’imperioso grido domandi più che la parola.

Una mano sconosciuta mi pone innanzi, sul davanzale di piombo, una grande spada ricurva come una scimitarra.

La prendo e la sguaino. Quel grido domandava quel gesto. Sembra che il guizzo d’una folgore passi su tutto il tumulto.

È la spada di Nino Bixio, l'arme dell’eroe tagliente, con i nomi delle vittorie inscritti nella lama forbita.

Premo le labbra contro la spada sguainata. Non sento che è fredda, perché le labbra non hanno più sangue.

Tutto il sangue brucia nel cuore.

Il nuovo silenzio della folla è come un vortice che m’attira e m’aggira, è come un gorgo che sugge e distrugge la mia vita.

Getto la mia vita, abbandono la mia anima al delirio. Le ultime parole sono come quei colpi che il fonditore dà col mandriano nella spina arditamente perché coli nella forma il metallo liquefatto.

La folla è come una colata incandescente. Tutte le bocche della forma sono aperte. Una statua gigantesca si fonde.

Mi volto. Discendo. Vacillo in una leggera vertigine. La sete mi divora. Chiedo in grazia un sorso d’acqua. Le donne del popolo accalcate mi circondano di pietà, mentre attendo. Una mano rude mi porge il bicchiere dell’acqua lustrale. Mi disseto e mi purifico. Bevo, e faccio la libazione che precede il sacrifizio.

Discendo. Non so chi mi porti. Tutto è ardore e clamore, creazione ed ebrezza, minaccia e vittoria, sotto un cielo afoso di battaglia ove stride il saettìo delle rondini.

Soffriamo d’essere inermi. Soffriamo di non combattere, di non essere trasmutati in un impeto di legioni veloci che trapassino il confine ingiusto.

Giovinetti scarmigliati, dal viso folle, grondanti di sudore come dopo la lotta, si gettano contro le ruote come per infrangersi.

Operai infoscati dalle scorie della fatica, curvati dall’attenzione, contorti dallo sforzo, operai d’ogni opera, che a me sembrano aver tutti maneggiato il martello, battuto su l’incudine il ferro bollente, mi tendono le mani forti come per afferrarmi e per stritolarmi nel loro amore subitaneo.

Popolane, potentemente scolpite come la madre dei due Tribuni, col medesimo gesto mi gettano un fiore e danno un figlio alla guerra.

Il lembo d’una bandiera mi benda. È la bandiera rossa di Trieste. L’ho di continuo sul capo. A tratti ondeggia, s’abbassa e mi copre. Riempio le sue pieghe col mio affanno.

Odo nell’ombra rossa delle sue pieghe il primo rintocco della campana capitolina. Il cuore si fende. Mi alzo. Le ruote si arrestano. La folla ammutolisce. Non è se non una catena di vertebre attraversata dal medesimo brivido.

La campana suona a stormo. Il rombo del bronzo penetra in tutte le midolle. Un urlo immenso lo supera. La guerra! La guerra!

Suona dal fondo dei secoli morti? suona dal fondo dei secoli avvenire?

Siamo portati dalla ventesima onda dei secoli — dieci e dieci — , dal secondo flutto decumano.

Bandisce la guerra la campana del popolo. Non è più una squilla di bronzo. È una squilla di fuoco rosso alla sommità del cielo latino. L’ode tutta la Patria, e balza.

La guerra! La guerra! Lo splendore del vespro è vinto da queste miriadi d’occhi fiammeggianti, da quest’agitazione di bandiere e di minacce, da questa sublimazione del popolo libero riposseduto dal suo dio vero.

Vólti vólti vólti, tutte le passioni di tutti i vólti, scorrono attraverso il mio occhio piagato, innumerabilmente, come la sabbia calda attraverso il pugno chiuso.



Avessi una tregua, come in quella notte dopo lo stormo!

Ero quasi arso come ora. Ero come uno di quei fabbri che tutto il giorno travagliano alla fucina, in colloquio col fuoco trattabile; e n’escono avvampati e abbronzati per la taverna.

Ricercando me stesso, non ritrovavo se non la mia malinconia. Ricercando il mio silenzio, non ritrovavo se non la mia musica.

In quella notte di vittoria m’incamminai solo verso l’Aventino, verso il colle della Libertà, solo come un solitario amante. Mi teneva un amore sensuale di Roma, un amore voluttuoso della mia Roma, simile a quello che consumò le forze della mia giovinezza. Avevo respirato l’odore della moltitudine, ed ero avido di respirare il respiro della mia Roma segreto, dopo tanti anni di lontananza, dopo tante stagioni di desiderio e di rimpianto.

Su per la via di Santa Sabina, sostavo a tratti, sotto il carico della mia vita cresciuto di là dalle mie forze. L’ombra era come il velo che ricopre la polpa vietata della bellezza. Si sollevava per me temente di toccarla. Ogni passo m’accostava alla mia felicità straziante. I cinque anni perduti in terra lontana mi pesavano su l’anima, mi dolevano nel cuore; ma il mio rammarico pareva aumentare senza limite la mia potenza di possesso.

La via deserta m’apparteneva. Ero signore del colle. Non alzavo gli occhi al cielo per non disperdere il mio amore di quaggiù. Non volevo conoscere della notte se non quel lembo che era la veste cupa di Roma, la veste senza stelle.

Ma, come entrai nel breve spiazzo che è davanti al Priorato di Malta, d’improvviso una stella silenziosa vacillò davanti a me, guizzò all’altezza delle mie palpebre.

Il cuore mi balzava di meraviglia. V’era lungo le mura un tepore sensibile, che il guizzo di luce misteriosamente commoveva ogni volta, tra pausa e pausa.

Il cuore mi batteva come nella puerizia, quando la vergine vista scopre per la prima volta una grazia misteriosa della terra. V’era nella porta che chiude il giardino dei Cavalieri, nella porta forata dove tante pupille si fissano a mirare la Cupola aerea tra le palme, v’era non so che veggenza, forse per non so quali ciglia amate che dolci nella memoria vi ripalpitarono. E il bagliore della stella terrestre lungo la porta rianimava per un attimo lo sguardo che un tempo aveva volto verso me l’imagine del casto giardino specchiata nell’amore nascente.

Il cuore mi batteva di disperata gioventù. Ero solo nel silenzio e nell’ombra, tra mura che vivevano della loro pallidezza come d’un ricordo lunare, solo con quel bagliore vagante che traeva seco il filo della mia intima vita. Mi pareva di non sapere che fosse, di non rammentarmene, dopo le cinque estati ambigue dell’estremo Occidente (Italia! Italia!). Lo seguivo come un segnale della mia nuova stagione, immemore attonito e rapito.

Era la prima lucciola.



Tocco un altro silenzio.

La sera dell’accusa aperta, contro il tradimento che tentava di ripetere il colpo oscuro, è dominata da un silenzio che non somiglia ad alcun altro.

Ritrovo l’accento delle mie prime parole. «Udite. Udite. Gravissime cose io vi dirò, da voi non conosciute. State in silenzio. Ascoltatemi. Poi balzerete in piedi, tutti.»

Il teatro è come una profonda fossa fusoria.

Vedo il metallo freddarsi. La statua bollente della folla si fa solida, si stabilisce in un rilievo minaccioso, sta come una massa che schiaccia.

Non grida più. Ascolta. Non respira più. Ascolta. Ogni sillaba penetra nell’osso forato del cranio e ci resta infissa.

E un lavoro atroce di martello sopra un silenzio che resiste.

Un colpo, un altro colpo, un altro colpo ancóra.

La massa formidabile è in piedi. Il colosso fuso è di nuovo umanato dal suo urlo.

Mi pare d’aver patito anche allora quest’arsione volontaria. Ero come voltato e rivoltato nel fuoco acceso da me stesso. Ero come il tizzo dei mito d’Etolia. E quando la mia madre mi riporrà nel suo focolare per consumarmi?

Anche allora soffrivo la sete. Avevo voglia d’inginocchiarmi contro le tazze delle fontane di Roma per dissetarmi con tutta la faccia.

Ora perché non mi lasciate bere un sorso freddo?

Allora il caso mi dava talvolta il modo inaspettato di placare la mia febbre.

Quella sera, nell’uscire dal teatro rovente, vidi nel cielo nuvole rossastre come se la passione degli uomini le percotesse del suo riverbero sanguigno. La prima barricata era già fatta.

I cavalleggeri guardavano i bivii e i crocicchi. Mi salutavano al passaggio. Scorgevo il bianco degli occhi sotto il ciuffo selvaggio dei cavalli maremmani, con non so che memore tenerezza. Toccavo una groppa, toccavo una criniera, al passaggio, con un piacere subitamente giovenile. I soldati sorridevano.

Sorrisi in volti stanchi di vent'anni, vaghi come quelli che preludono al riposo.

Ricordavo l’odore della scuderia di Faenza, la posta del mio maremmano morello che cercava di mordermi quando gli passavo la brusca sotto la pancia, la biada che rubavo accortamente alle altre mangiatoie per riempirgli la sua, l’abbeverata all’alba quando nel barlume i cavalli bianchi dei trombettieri mi parevano discesi da una luna di leggenda.

Così la mia febbre scemava, cadeva.


Oh, portatemi uno dei miei cani, posatemelo sul letto contro i miei piedi congiunti, lasciate che stanotte resti con me!



Stanotte il demone prende il mio occhio acceso nella palma della mano e ci soffia sopra con tutta la forza delle gote gonfie.

Tutte le imagini si affocano.

Ecco che la battaglia lontana della Mosa entra nel mio incendio. I battaglioni ubriachi di etere vengono innanzi come quelle zone di pineta ardenti, chiamate «controfuoco» nella mia Landa d’esilio, quasi mandre di fiamme animali, che vidi spingere innanzi dai resinieri con le battiture delle grandi frasche verdi.

Si avvicinano di corsa. S’ingrandiscono. Li vedo attraverso i pali e gli spini dei reticolati. Distinguo a una a una le facce dei Bavari convulse dal furore e dal terrore. S’avvampano come fasci di stipa.

I carnai diventano roghi. Non si consumano, non s’inceneriscono. Bruciano a lungo senza fiammeggiare, come la torba.

Rimango tutta la notte disteso contro un reticolato che sbarra la collina. Conto i cadaveri.

S’impigliano nei roveti di ferro, si serrano negli attorcigliamenti dei fili rotti, penzolano tra palo e palo come i ladroni male inchiodati alle croci, si torcono come le bestie incappate nei lacci.

Non hanno palpebre, non hanno labbra. Vedo gli occhi fissi e nudi; vedo i denti fissi e nudi.

Vedo il sangue colare giù pel legno e pel ferro, aggrumarsi, annerarsi, viscoso come la pania che impiastra le verghe.


Non c’è più rugiada, non c’è più alba sul mondo.



Piove a dirotto, nella sera delle Ceneri. È un acquazzone di marzo.

Origlio lo scroscio.

Ora io ho — mi sembra — un orecchio più sensibile di quello che musicò «la pioggia nel pineto».

Nella grande arpa della meteora distinguo tutte le corde, e quasi le tento.

Potessi fare due buchi nella parete, verso il giardino, e metter fuori le mani disseccate!

Il rovescio non è troppo violento per la lanugine delle fogliette nuove?

Nerissa mi manda la sua fanticella a portarmi sotto la pioggia un fascio di fiori ch’ella ha trovati a Padova in questo pomeriggio.

L’umidità entra nella mia stanza, la freschezza si sparge nelle mie lenzuola.

Parlando della fante, l’infermiera mi dice vividamente: «È venuta senza ombrello! Gocciola come una grondaia. I fiori sono tutti fradici. Bisogna aspettare che s’asciughino.»

La mia continua sete fiuta l’odore umido che sùbito impregna il mio buio. Il cuore mi batte. Prego la pietosa che si avvicini, che mi lasci toccare il fastello. Supplico. Minaccio di strapparmi la benda, di gettarmi giù dal letto. Ottengo.

I fiori sono posati su la rimboccatura. Li ho sotto le mie dita veggenti. Li palpo, li separo, li riconosco.

C’è il giacinto. È legato col filo in fascetti. Gli steli sono ineguali. Insieme formano un grappolo folto. Il profumo al fiuto aumenta come il dolore in una scalfittura.

C’è la zàgara. È il nome arabico che dà al fiore d’arancio la Sicilia saracena. L’appresi, adolescente, su la mia riva, dal mozzo d’una goletta. Tanto mi piace che, se nomino il nome, sento il profumo.

C’è la zàgara di serra: un gruppo di foglie che al tocco risuonano, e nel mezzo i bocciuoli duri. A uno a uno li sento. Qualcuno è chiuso, qualcuno è fenduto, qualcuno è mezzo aperto. Qualcuno è delicato e sensitivo come un capezzolo che teme la carezza. L’odore è candido, acerbo, infantile. Ma bisogna cercarlo con le narici in mezzo alle foglie diacce e stillanti che m’inumidiscono il mento e mi entrano in bocca.

C’è l’amorino. È il più fradicio di pioggia, è tutto pregno d’acqua di nubi. Più odora all’apice, come l’ultima falange delle dita che lavorano i belletti. C’è in fondo al suo odore un che del fico latteggiante, del piccolo fico verdino. C’è pure, se insisto, un che della susina claudia matura. Odore di erba più che di fiore, di frutto più che di fiore.

Meglio mi piace la zàgara, nome e cosa. È più tenue, più rara: non nuziale ma virginea. La cerco ancóra dentro la fronda. Mi sbianca il fuoco dell’occhio. È dura e bianca come la sclera.

Mi ricordo dei grandi boschi d’aranci a Villacidro, nell’isola dei Sardi. Ero una bestia pieghevole. Avevo due caviglie sottili. Mi scalzavo per camminare coi miei piedi giovani sul fiore nevoso che giuncava il terreno.

Mi ricordo di un aranceto murato, a Massa, verso la riviera d’Amalfi, se non m’inganna la memoria. Ero mal guarito d’un filtro malvagio. Ero sbigottito come se fossi penetrato in un labirinto inimaginabile. I tronchi parevano scolpiti nella pietra delle grotte segrete. Il fiore era come la spuma da cui nasce la carne immortale. L’ombra era quasi acquatile, modulata dal canto morente di non so qual sirena bandita dal mare.



La pioggia non cessa. La odo scrosciare sul giardino, su la riva, nel campiello, nella calle. La donatrice non avrà l’ardire di traversare, come la sua fante, il diluvio che sommerge Venezia tenebrosa. Ma pareva che i fiori l’annunziassero.

Il tedio dell’immobilità mi opprime. La collera sorda mi tende dalla nuca al tallone. Ora mi alzo, getto via le bende, e cammino lungo le gronde.

Il mio piacere malinconico è già esausto. La nuca mi batte. Dagli steli del giacinto cola un umore fastidioso che m’invesca le dita.

Ma di dove viene quest’odore di mammole? Ci sono violette nella stanza? Chi me le ha nascoste?

Allungo le mani caute per cercare intorno a me. Trovo un mazzo ch’era scivolato dalla rimboccatura verso la proda. Il cuore mi batte. Per un nulla il cuore mi balza!

È un mazzo di mammole. Bagnato, non aveva profumo. Il calore del letto lo rianima. È una sorpresa squisita. Ne gioisco come se le avessi colte io medesimo sul margine di un prato strano.

Non sono le violette di Padova; sono per me le violette scempie di Pisa la dorata.


Mi ricordo d’un acquazzone di marzo a Pisa. Eravamo su la piazza del Duomo. Ci rifugiammo sotto l’architrave della porta maggiore, scrollando le gocciole. Là c’indugiammo ad aspettare che spiovesse. «Imbres effugio» diceva nella porta l’emblema parlante.

La pioggia annaffiava l’erba corta, con un crepitìo eguale che ci pareva intimo come il romore della conchiglia accostata all’orecchio. Premuti contro il bronzo dei battenti, incominciammo a possederlo, a mescolarci con esso.

L’umidità pareva accrescere il pregio della materia. Come fanciulli curiosi, mettevamo le dita nel fogliame di metallo, palpavamo le piccole teste inghirlandate che s’affacciavano di tra le olive e la fronda. Sopra di noi parlavano i simboli: «Fons signatus, Hortus conclusus».

Attoniti, tra il fogliame andavamo scoprendo le lucertole le lumache le rane gli uccelli i frutti, senza numero. Avevamo nelle dita il piacere dell’artista che aveva modellate le forme, la sua sapienza e il suo capriccio. Quanto più miravamo il bronzo, tanto più la sua pàtina diveniva ricca, possente, profonda. S’arricchiva dei nostri occhi affettuosi, e ci rendeva amore per amore. Sopra di noi parlavano i simboli: « honustior humilior, Tantummodo fulcimentum» .

Il croscio andava sminuendo. Ci pareva giungesse fino a noi e in noi si spegnesse come l’armonia che fa l’eco interna del Battistero. Il prato deserto aveva non so che derelitta dolcezza, lungh’esse le mura della vecchia città di parte. Il Camposanto dell’arcivescovo Ubaldo era chiuso e raccolto intorno alle sue cinquantatre stive di terra del Calvario.

Allora scendemmo dalla soglia liscia. Abbandonammo il bronzo e il marmo per l’erba. Imbruniva. Eravamo soli. E la vita ci conduceva per la mano indulgentemente.

Si diceva che dalle gore e dai canali, di là dal Camposanto, si levasse verso sera una febbre tacita e venisse a vagare pel prato pio. Ma non sentimmo se non il brivido della primavera molliccia.

Camminavamo tra il muro del Camposanto e il fianco del Duomo, dov’era uno spazio mistico per la nostra musica. Alla nostra fantasia gli affreschi interni trasparivano di fuori.

E la nostra musica aveva la faccia di quella donna vestita che si china con la gota sopra il suo salterio.

Ero vigile, e attento alla mia voglia.

Ero quel che sono quando la mia natura e la mia cultura, la mia sensualità e la mia intelligenza cessano di lottare e si conciliano compiutamente.

Ero un mistero musicale, con in bocca il sapore del mondo.

Quando mi soffermavo, la mia compagna, che per me aveva nome Ghisola, mi chiedeva: «Che cerchi?»

Imbruniva. L’ombra del marmo era cerulea. E quello un marmo che a vespro fa il turchino come il lapislazzuli. Inazzurrava l’erba, quasi con una pennellata d’oltremare.

Il silenzio si apriva dinanzi a noi, si partiva a destra e a sinistra fluendo lungo i nostri fianchi come il fiume leviga il nuotatore. Il nostro sentimento era semplice e ineffabile. Eravamo poveri e leggeri, eravamo ricchi e leggeri. Eravamo come due mendicanti senza bisaccia e come due regnanti senza diadema.

«Che cerchi?» mi domandava la Ghisolabella, a intervalli, come in una cadenza.

Ero un cercatore magico di tesori o di sorgenti? Avevo in me tutte le mie sorgenti e tutti i miei tesori.

Cercavo la mia voglia. Ed ecco che avevo trovato!

Mi soffermai socchiudendo gli occhi per contenere sotto le palpebre la mia felicità. Più non ero se non un solo senso. Tutto il mio cervello palpitava con le mie nari sagaci.

Mi curvai nell’ombra umida, frugai destramente con le dita l’erba umida. Anche la mia faccia china si sentiva tinta d’oltremare; anche le mie mani si facevano azzurricce.

«Ma che cerchi? che cerchi?»


Avevo scoperto un ciuffo di violette.



All’improvviso il volto dell’amore si offusca, si smarrisce. Un cerchio di solitudine separa il mio letto di miseria dal resto del mondo.

Le voci familiari sembrano divenute aride e estranee.

Di tutta la mia anima non rimane se non un sordo rancore contro me medesimo, nascosto nel mio corpo disseccato.

L’ombra ha lo squallore dell’abbandono.

Ripenso a quel ferito che ritrovammo in una stalla deserta abbandonato là da sei giorni, nell’orribile fetore delle sue gambe invase dalla cancrena gazosa, con in bocca qualche filo di paglia masticata.

Non lo assisteva se non una capezza logora penzolante da una campanella della mangiatoia vuota.



Gli orizzonti si sono avanzati come quattro barre, si sono chiusi come uno steccato. La città v’è rimasta dentro senza vita, senza respiro, esanime.

La casa, piena di sollecitudini, di voci sommesse, di cure, di rumori segreti, di piccoli iddii nascosti, s’è acquetata, s’è come dileguata, è diventata inesistente. Sole le quattro pareti della mia stanza esìstono, e intorno è il vuoto senza fine.

Poi sole esistono le quattro colonne del mio letto che credo di sentire nel buio come quattro aste d’una tenda quadrata nel deserto.

Poi sole esistono le mie ossa, solo esiste il mio scheletro fasciato di carne. E nello scheletro è come una coagulazione improvvisa della vita.

La vita s’aggruma, s’accaglia come il sangue che non scorre più. È un orribile peso.

Nel primo sgomento ho la tentazione di scuotermi, di sobbalzare, di agitarmi per impedire che il peso precipiti tutto in un punto, che prema tutto sul lato sinistro del petto.

È come se, dalla parte del cuore, contro il costato, si formasse e si maturasse in pochi attimi uno di quei tumori mostruosi che si nutrono e crescono in anni di tormento.

Resto immobile. Odo il ticchettio dell’orologio, che ora sembra un tarlo nel mio orecchio, ora lontano come il tremito d’una stella.

L’occhio è senza fuochi. Solo, di tratto in tratto, si forma l’anello fluttuante che galleggia e dilegua a occidente.

Lo spirito è colpito dalla stessa immobilità che tiene le ossa. Ogni moto della vita interna è abolito. Ho interamente perduta la forza di muovere e di rimuovere le grandi masse incoerenti di sostanza lirica ond’è formata la mia malinconia.

Ho un solo male radicato in un sol punto dell’essere: una specie di ascesso venuto a maturità, che non scoppia e non può essere da me tagliato né da altri, né estirpato, né alleviato. Vide cor meum.

Il male che ha devastato tanta parte della mia esistenza, che ha guastato tanta mia ricchezza, che ha avvilito tanta mia passione, che ha affievolito tanto mio impeto, difformato tanta mia opera, distrutto tanti germi, contaminato tanto desiderio, umiliato tanto dolore, il mio male originario, il mio male ereditario, ecco, forse per la prima volta, accumulato, isolato, concentrato in me; e mi duole come dolgono le infezioni mortali.

Non ho se non questo, non sento se non questo, non soffro se non di questo.

Se le mie mani non fossero inerti, potrei palparlo, misurarlo, riconoscerne la forma, la durezza, il calore.

Il mio patimento è vile e senza potere.

A un tratto un sentimento d’attesa sembra sciogliere il torpore dell’anima e quasi risollevare il tono vitale. Qualcuno è per venire nel buio, senza parola.

Ora s’accosta, si china, mi tocca, mi toglie dal fianco la pena, la prende con sé come un fardello, la porta via, s’allontana.

Non viene se non una stanchezza desolata.

E, nel primo principio del sopore, di sùbito si riaccende nell’occhio ferito una vita terribile. Non posso aprire le palpebre per sfuggire all’apparizione spaventosa.

La fasciatura mi preme. La compressa umida s’è disseccata e mi brucia. Il peso dal costato si spande per tutto il corpo irrigidito.

Prima di sprofondarmi nell’orrore delle trasformazioni, sento la mia bocca divenire di metallo nel respiro rallentato del sonno.

E la madre del re Lemuel dice: «Che, figliuol mio? che, figliuolo del ventre mio? e che, figliuolo dei miei voti?»

E la madre del re Lemuel dice: «Non dar la tua forza a ciò che è per distruggere i re.»



Perché voglio guarire?

Non è ingiusta questa volontà di guarire? Davanti a chi mi può valere questo lungo tormento? davanti a chi mi può essere meritoria questa dura pazienza, per riacquistare quel che ho donato?

Se la mia carne consente, il mio spirito repugna. Il corpo è impigliato nell’inganno, l’anima è fortificata nella verità.

Non era se non un avvertimento e un risentimento dell’anima quella esitazione ch’io ebbi, la sera del ritorno, prima di obbedire alla sentenza del medico, prima di coricarmi e di lasciarmi inchiodare in questo buio travagliato dalla fiamma inferma.

Ero rimasto in piedi e avevo limpidamente sorriso. L’occhio è perduto? «Io ho quel che ho donato.»

Tale era l’attitudine, tale era la parola che conveniva alla natura dell’offerta e dell’offeritore.


Qualcuno nella stanza attigua legge non so che, ad alta voce. Ho inteso frusciare il foglio, ma non seguo le parole se non a tratti.

Ho il capo più basso dei piedi, i piedi congiunti, i gomiti contro i fianchi, la bocca aperta e arida, il cuore ambasciato. Comincio a intorpidirmi nel mio sudore penoso.

Odo il nome di Patria; e un gran brivido mi attraversa.

Odo di nuovo il nome di Patria; e il medesimo brivido mi passa per tutte le midolle.

Dal mio torpore, dal mio sudore, dal mio patimento, dal mio tedio, dalla mia disperazione nasce un bene che non si può significare.

«La pupilla dell’occhio destro non si dice della cosa più cara che alcuno abbia? Tu hai dato la pupilla dell’occhio destro a colei che ami: la tua pupilla di veggente, il tuo lume di poeta.»

L’alterezza è sempre pronta a insorgere, ahimé. Una mano dolce e severa la raumilia.

Vengono intorno al mio Ietto quei soldati ciechi che si accalcarono intorno alla mia branda in quell’ospedaletto da campo dove feci la prima sosta. C’è chi ha un solo occhio bendato; c’è chi ha una larga benda intorno al capo chiazzata di sangue. C’è chi mi guarda con l’occhio scoperto, e lacrima. C’è chi, non potendomi vedere, timidamente mi tocca, e trema. Mi sono fratelli. Nessuno mai mi fu tanto vicino come questi mi sono.

Era un mattino grigio e crudo. Il tuono dei mortai scoteva il giorno intorno al sole come il vento sfalda la cenere d’un ceppo che si consuma. Cumuli lustri di carbone sotto alberi spogli, su la riva dell’Ausa nericcia come una gora di gualchiere. Nulla più.

Alla soglia dell’ospedaletto il bianco delle fasce trapassate dal sangue, la povera carne messa fuori di combattimento, la bocca inquieta di chi non vede, l’odore tenace della trincea e della caverna, lo stupore della battaglia abbuiata. Nulla più.

I feriti mormorarono il mio nome e s’accalcarono nell’andito, commossi. Invece dell’elmetto di ferro portavano il turbante di cotone e di garza. Qualcuno si chinava in su, per cercare di scorgermi di sotto alla benda. Sorridevo, a testa alta, come nel camminamento battuto, dicendo: «Coraggio, figliuoli!»

Uno, che aveva tutt’e due gli occhi fasciati, mi chiamò col mio nome di battesimo. Era un soldato della mia terra d’Abruzzi. Balbettava, voleva sapere che avessi.

Ero stanco e digiuno, allo stremo della mia forza. Prima di ammettermi nella camera oscura per esaminarmi, il medico mi fece distendere sopra una branda coperta d’un lenzuolo di bucato. Mi coricai supino. L’onda violacea palpitava nell’occhio perduto, e l’altro s’abbagliava nella vertigine. Socchiusi le palpebre. Con un tonfo di disperazione nel petto, udii passare su l’asilo il rombo d’un’ala da battaglia. Il rombo portò via il rimanente della mia forza. Mi diceva: «Non più! Non più! Non più!».

Allora lo scalpiccìo e il mormorìo mi avvertirono che i feriti forzavano la soglia. Allora i feriti a un occhio si appressarono, e stettero accanto alla branda. I feriti a tutt’e due gli occhi vennero anch’essi, e rimasero intorno alla branda. Tacevano. Li udivo respirare, sospirare. Travedevo quelli del lato sinistro, l’inchinarsi pietoso dei loro turbanti di lino, le loro bocche meste, le loro mani rassegnate.

Avevo compassione di loro com’essi avevano compassione di me. Ero il loro compagno; erano la mia gente. Ero nudo di ogni privilegio, senza singolarità, senza rilievo, senz’altra gloria che il mio umile sacrifizio. Non soffrivo di me ma di non poter più combattere, ma di non aver più le mie ali, le mie armi, il mio cómpito. Ero messo fuori della guerra, allontanato dal fuoco, escluso dalla fucina dove si fondeva la sostanza nuova.

Com’era il mio viso? Toccavo in quel punto il fondo della tristezza e della dolcezza. Nulla mai nella vita m’aveva fatto tanto male e tanto bene. Qual era il mio aspetto paziente, su quel lenzuolo, su quella branda dove tanti altri semplici soldati avevano giaciuto? Mi sentivo mancare.

Allora un d’essi fece, piano, scotendo il capo bendato, con l’accento schietto del suo paese, con una pietà attonita, uno fece: «Questo è quell’uomo!».

E non dimenticherò mai la sua voce. E, se sapessi dove ritrovarla, dovunque la cercherei.

Un sussulto più profondo che l’abisso dei miei stessi mali, più cupo di tutta la mia sostanza e di tutta la mia doglia.

Uno squasso atroce che sradica me da me, e mi scaglia in un orrore incognito di sangue e di spirito, dove non so se io rinasca o rimuoia.

Uno schianto senza urlo, che è come uno sforzo sanguinoso di generare, che è come il talione della madre sopra il figlio del suo strazio.

È mia madre! È mia madre! È mia madre, che s’appiglia alle mie ossa, si rivoltola nel mio buio, si rifà carne della mia carne, peso del mio calvario.

Era in me, dentro me, nel tempo della lotta e della furia. La portavo dentro me, com’ella mi portò, vivente in polso e in respiro.

Balzava col mio coraggio, regnava con me tutta l’altezza, si chinava con me su la rovina e l’incendio, si gonfiava con le vene del mio collo nel mio grido.

Gridava: «Me! Me! Eccomi!» Era la voce della mia stessa offerta. Si offriva alle ferite, si tendeva alla mutilazione e alla morte.

S’oscurava nel mio sonno stracco, s’appesantiva su la terra dura, s’intormentiva nel mio braccio piegato sotto il mio capo, pazientava la mia notte.

Non la guardavo, non la chiamavo. Il suo sguardo era il mio sguardo, il suo nome era il mio nome. Arma non v’era in tutta la violenza del mondo, che potesse recidere il nodo materno.

Conobbe con me la trincea, conobbe con me la tana e la fossa, conobbe la servitù del fango e l’ebrezza del cielo, l’aroma del rogo votivo e l’ora ineffabile quando l’anima e l’ala sono un chèrubo assunto da! soffio dell’Eterno.

Diceva: «Me! Me! Eccomi!» Aveva la sete dell’immortalità per il suo figlio che proteso era a compire i suoi fati.

«Eccomi!» E alla sorgente di sangue, che le scrosciava dal mezzo del petto, si dissetavano tutti i soldati.

Era un amore così folto che non mi lasciava scorgere s’io fossi la sua creatura o s’ella fosse la mia creatura.

Era un fuoco tanto splendente che non mi lasciava distinguere se imperfetto io ardessi di lei o se di me ella ardesse compiuta.

Era un sacrifizio tanto veemente che non sapevo s’ella fosse la mia madre o la mia patria, sospeso fra la culla e la tomba.

Né sapevo s’io le dessi la mia giovinezza rinata o s’ella riaprisse nelle mie ciglia rovesce i freschi occhi suoi di colomba.

Ah perché d’improvviso tu vuoi ch’io ti guardi? perché vuoi che di là dalle mie bende io fissi la tua pupilla che tanto mi duole?

Perché ti separi da me com’io mi sradicai da te cruentato, nella notte di marzo avversa, per piangere il pianto dell’uomo?



Toglietemi da questa ambascia. Non resisto più. Scioglietemi da questo terrore. Non posso più respirare.

Datemi un poco di luce. Aprite le finestre. Levatemi da questo buio spaventoso, dove non ho mai pace.

Interrompete almeno per un’ora questo supplizio delle visioni, questo martirio delle apparizioni orrende.

Non so più resistere.

Ho voglia di strapparmi le bende e di strapparmi gli occhi.

Voi mi bendate la fronte, mi fasciate le palpebre, mi lasciate nell’oscurità.

E io vedo, vedo, sempre vedo. E di giorno e di notte, sempre vedo.

Ecco quel che accade.

Il dottore m’inietta con un ago il cloruro di sodio nella sclera, m’intromette l’acqua salsa nell’occhio leso dove s’incupisce l’onda marina crestata di gialliccio.

Prima di rifasciarmi, con una crudeltà inconsapevole mi presenta il suo piccolo specchio rotondo, alla luce della lampada azzurra.

Guardo la borsa dell’acqua nell’occhio gonfio, il mio viso consunto e smorto, la mia bocca livida e piegata dalla tristezza, i nuovi fili bianchi nella mia barba negletta, il mio collo scarnito: una imagine di miserabile accoramento, che si fissa nella retina e vi rimane.

Il dottore mette la benda umida sopra la puntura; seppellisce l’imagine funebre sotto la tela fastidiosa; mi riabbassa il capo sul lenzuolo senza guanciale; spegne la lampada azzurra; mi raccomanda la pazienza; cauto esce.

Resto nel buio, supino e immobile come i dannati del terzo girone sotto la pioggia di fuoco. Le fiammelle sprizzano da me e mi ricadono addosso e mi bruciano e mi piagano. E non posso scuotere da me l’arsura come faceva «la tresca delle misere mani» laggiù nell’inferno. I miei gomiti sono confitti contro le mie anche. Muovo appena appena l’articolazione del polso. Le mie reni sono spezzate.

Che è mai?

Dianzi il dottore, dopo avermi sbendato, roteava dinanzi a me in tutti i sensi una fiamma, per misurare il campo visivo.

Ora quella fiamma si moltiplica in falde di fuoco penose.

E l’occhio mi brucia e mi lacrima; e l’amaro mi cola nella bocca.

E le falde a poco a poco si diradano e si ammorzano.

E rimango solo davanti all’imagine della mia miseria.

E incomincia la trasformazione.

La tristezza umana è divenuta una materia plastica. Non so qual pollice misterioso la modelli incessantemente.

È il mio viso, come nello specchio, come nella luce vivida, ma carico di una vecchiaia quale non patì mai alcun essere perituro. Da qual fondo di dolori e di colpe mi ritorna? Quanti anni di servitù hanno solcato quella fronte? quanti anni di fatica hanno aggrinzito quella gota? quanti anni di stanchezza hanno avvizzito quelle labbra?

Ringiovanisco, d’un tratto, con un aspetto tirannico e folle. L’alito mi fumiga e luccica tra i denti taglienti, come se mi fossi intossicato di fosforo.

Rapidamente la materia si deforma, mostruosa, come in una successione di spere concave e convesse.

Sembra che una spatola la sbatta e rimescoli come creta da rendere più cedevole.

Le linee si ricompongono in una figura di spiritualità intenta e attonita.

È un viso di giovinetto. E il mio viso di sedici anni. Ecco che tutta la mia disperazione s’affoca e sfavilla come sotto un gran colpo di maglio.

La fronte è liscia sotto le masse dense dei capelli scuri. I sopraccigli sono disegnati con tanta purità che danno qualche cosa d’indicibilmente virgineo alla malinconia dei grandi occhi. La bella bocca socchiusa lascia passare l’ansia, come quando il cuore si gonfia d’un sogno che minaccia di schiantarlo.

Férmati ancóra per un attimo, o annunziatore dell’Alba! Consolami.

La forza cieca della trasformazione è inarrestabile.

Il mio buio è scosso da tonfi sordi. Il cuore pulsa contro la nuca dolorosa. Tutto si traspone, nel corpo e nell’anima. Non sento più i confini del mio scheletro.

L’infanzia e la vecchiezza sono una sola sciagura?

Mi vedo bambino grinzuto; mi vedo piccolo mostro decrepito, appeso alla mammella centenaria.

Eppure mi riconosco; eppure nell’orridezza innaturale è un baleno della somiglianza, un’impronta della discendenza, un segno della genitura.

Che è questo terrore che mi scioglie le ossa?

Il tuono del cannone mi scrolla dalle fondamenta la casa, e gli occhi nelle orbite.

O forse è il rombo della mia agonia?

Non posso sfuggire. Non ho ciglia, non ho palpebre.

Il cieco è condannato a vedere sempre.

Voi lo sapete, voi lo sapete. Io non mi sono mai risparmiato. Io non ho mai domandato ad alcuno di risparmiarmi.

Ma questa volta domando, questa volta supplico.

Eccola! È fatta di me, è intrisa di quella mia tristezza che non mi montò mai fino al cuore perché pesava troppo.

E ora mi monta all’orlo degli occhi, là dove a tutti gli uomini arriva il mare del pianto.

È triste di me, è vecchia di me, è inferma di me.

È mia madre.



Per viatico del cammino verso la guerra ebbi un commiato più straziante di quello che dà con l’ultimo bagliore dell’anima il moribondo senza parola.

Non l’avevo più riveduta dall’ora della mia partenza per l’esilio volontario.

Era la settimana di marzo che sta tra il giorno della mia nascita e il giorno del mio nome, carica di amore e di ricordi e di rimpianti e di rimorsi.

Avevo cominciato a tremare di lei da lontano, come se il Tronto fosse l’orlo della sua vesta.

Avevo cominciato da lontano a sentirla nella terra, come si sente la stagione che sotterra si desta.

Il Tronto ghiaroso, con qualche filo d’acqua turchina sotto un ponte di mattone biondetto, mi salutò com’ella soleva salutare quando era contenta.

Le colline basse, le crete gialle, le more di selci erano sue. E suoi erano i piccoli alberi fioriti. E sua era la soavità del mare su quella spiaggia sottile con quella lunga fila di paranze brune a coppia tirate in secco. E di lei parlavano le donne rammendando le reti, poiché sorridevano.

Tutto rivedo.

E mi balza il cuore a quell’accenno della parlatura d’Abruzzi, là su quel binario ingombro di vetture brutali, in quella stazione formicolante di vita lucrosa, in vista di quel poggio sparso di olivi magri.

Tutto rivedo.

Un carro dipinto va lungo la riva tirato da un paio di bovi bianchi. Non è carico della mia puerizia agreste quasi fieno aromatico? E le bestie aggiogate campeggiano nel verdazzurro del mare splendendo come le vele laggiù gonfie di scirocco.

La sabbia è coltivata per solchi fin quasi al frangente. Riconosco le fave in lunghe bande verdi, e penso che sono veramente di natura animale. In un campo gli oppii scarni sembrano mani raggricchiate e torte che lega la fune arida della vite. La vanga ha lasciato nella zolla la parte forbita del suo ferro tagliandola? Tanto il taglio riluce.

Un fiumicello è candido e schiumoso come il latte appena munto. Un pagliaio nerastro è tutt’oro là dove la paglia fu intaccata per la bisogna. Un seccume disperato di viti brune e torte patisce sopra la sabbia accecante e pare che si divincoli come minuzzame di serpi. Una fabbrica di mattoni sta presso una smotta d’argilla, con la sua tettoia rossa, col suo fumaiolo che fuma, con i suoi uomini dalle pugna di creta inginocchiati all’opra.

Per te, per te amo questa parsimonia, questa diligenza, questa tenacità. Per te tanto m’è cara questa terra umile e umiliata.

Ma d’improvviso, al porto d’Ascoli, in una insenatura delle colline modeste, appare la montagna grande. Cilestrina, aerea, nivale, confusa con le nuvole fulgide, mi rapisce nella tua altezza taciturna.


O ultimo ritorno infantile verso le tue braccia che nel tuo sogno costante non cessarono mai di sostenermi!

Voglio tutto rivedere, voglio tutto riconoscere.

Dappertutto tu sei come l’aria e l’acqua. Fai buona ogni cosa. Fai semplice ogni cosa.

Il paese m’è come una iniziazione alla tua bontà.

Ogni impronta dell’uomo nella terra sembra riconsacrata: la dirittura della via, il limite del campo, la casa di loto e di canne.

Talora alle foci solitarie dei piccoli fiumi è una greggia che splende come la ghiara; e io guardo verso le montagne dove forse un’altra greggia s’abbevera alle sorgenti solitarie.

Un ampio greto discendendo dalle montagne è simile a un cammino di migrazione abbandonato, simile al tratturo dei miei padri sterilito. E odo dentro di me camminare i pastori defunti e i grandi armenti morti.

E un rammarico lungo mi punge, di non ritornare a te coi miei piedi scalzi, fratello del pellegrino che va verso il santuario dei miracoli, là per quella via litorale dove le persone e le cose mi appariscono in profilo come nelle ricamature delle nostre vecchie coperte. E il passo dell’uomo e l’incesso del bove e la foggia del carro e l’asinaio che guida il somiero carico d’un sacco di farina, tutte le forme si riducono a una semplicità primitiva nel mio sentimento ingenuo, come se io medesimo le interpretassi fanciullo con un pezzo d’ocra sopra un muro di calce.

Tu mi rendi gli occhi vergini prima che io li fissi nei tuoi.

Ora la spiaggia si fa tanto sottile che l’onda sembra sia per avanzarsi scorrendo su tutto il paese fino al piè dei poggi.

E qualcosa di me imita la spiaggia nativa. E tutto m’è dolcezza obbediente, nell’anima e nell’aria.

Te ne ricordi? Ti ricordi tu di quel verso che ti fece sorridere e piangere?

Come vien l’acqua al cavo della mano.

Non sono io sempre per te l’acqua che viene al cavo della tua mano?

Sempre raccogli la mia innocenza immacolata.


Ecco la casa. Ecco la soglia. Ecco la scala.

Tu sei in cima, sorretta dalle mie sorelle. Le mura tremano come le mie ossa. Le ginocchia si piegano. Il cuore monta, e si lacera alla tua felicità.



Perché dunque volli portare anche una volta lontano il mio cuore lacerato? Perché mi lasciai rapire anche una volta dalla smania del «folle volo»? Perché abbandonai anche una volta il focolare di tutte le fedeltà per la tenda esposta a tutte le tempeste? Perché il mio amore del destino vinse il mio amore filiale?

Né dolcezza di figlio...

Ella aveva ripreso con una divina levità sopra le sue ginocchia la mia testa che tanto è grave, e m’aveva rifatto fanciullo sonnolento. Io tacevo, ella taceva; e intorno a noi tutte le cose famigliari sussurravano. E mi davano tanto bene e tanto male. E nessuna cosa al mondo mai mi aveva dato tanto bene e tanto male. E così chinato guardavo al limitare del balcone una cavità nella pietra consunta, già cara alla mia infanzia quando negli scrosci si riempiva d’acqua piovana e io attendevo palpitando che i passeri venissero a dissetarvisi come a un beverino senza sospetto. Era asciutta; e ne soffrivo. E le dita di mia madre a quando a quando mi sfioravano la gota. E pensavo che così facesse per sentire se la bagnassero le lacrime. Ed ella forse non sapeva che con quel gesto me le moveva e traeva dal fondo.

Ah, perché mi riscossi invece di struggermi?

Quante volte in quella dolce casa avevo udito scoppiare un grido terribile! Quante volte in quella vecchia casa quieta, tra la madia e l’arca, tra il forziere e il desco, avevo udito risonare sopra la mia ansia la voce eschilèa, vivente come la mia medesima voce! «Vengo. Chi mi chiama?»

L’ulisside senza remo e senza ala, ma con mille anime, si levò per partire verso l’esilio non come verso una rinunzia accorata ma come verso un aumento di potenza.

In cima alla scala fu anche il nuovo commiato.

Se il dolore materno potesse veramente impietrarsi, in cima a quella povera scala splenderebbe per la divozione degli uomini la più bella di tutte le statue sacre.


«Vengo. Chi mi chiama?»

Cinque anni d’esilio nell’estremo Occidente, sul dosso pinoso di una duna oceanica: un lungo ordine di giorni e di opere, una lunga pazienza, una lunga attesa.

Come l’amore di mia madre non seppe mai scorgere nella mia faccia la lesione del tempo e della vita, così il mio amore serbava di lei una imagine spiritale e tutelare dove la luce attenuava le fattezze senza confonderle.

Anche la malattia non m’appariva se non come un modo mistico di affinamento, se non come un mezzo ascetico di santità. E non indovinavo da lontano quel che per compassione m’era celato.



Non ho mai avuto paura di soffrire. Di tanta resistenza mia madre mi diede l’esempio fin dai primissimi anni. Eppure, mentre mi preparavo a prendere da lei il commiato di guerra, il cuore non cessò mai di torcersi e di riluttare, oppresso da un presentimento di insostenibile pena.

O troppo lungo viaggio, corsa che l’ansia non poteva accelerare, attraverso il paese devastato, attraverso le rovine del Fùcino, attraverso la Màrsica piena di macerie e di mèssi, piena di vedove e d’orfani, piena di gramaglia e di pallore e di fatica dalle braccia contuse!

La mia devozione aveva già fatto patto con la morte, come un marinaio, come un fante, come un volatore senza nome. Nell’alba del 25 maggio avevo detto a compagni adunati: «Nessuno di voi, certo, sapeva di tanto amare questa Gran Madre. Ma chi di noi primo saprà per lei morire? C’è tra noi qualcuno già segnato, già eletto? Foss’io colui! Non mi mentisca il presagio, non mi mentisca il presentimento».

Avevo detto: «Non abbiamo ormai altro valore se non quello del nostro sangue da versare; non possiamo essere misurati se non a livello del suolo conquiso. Ecco l’alba, o compagni, ecco la diana; e fra poco sarà l’aurora. Abbracciamoci e prendiamo commiato. Quel che abbiamo fatto è fatto. Ora bisogna che ci separiamo e che poi ci ritroviamo. Il nostro Dio ci conceda di ritrovarci, o vivi o morti, in un luogo di luce.»

Ma bisognava accomiatarsi dalla madre mortale prima di donarsi alla madre immortale.

Mi rappresentavo gli addii dei piccoli soldati, dei volontarii di sedici anni, degli anziani di cinquanta, là per quella campagna amara; e imaginavo le madri in piedi, su la soglia o in capo di strada, diritte nelle pieghe del grembiule bruno.

E la paura non cessava di serrarmi la gola. E la corsa non mi pareva abbastanza celere ma ogni sosta mi era un sollievo quasi vile. E, quando entravo nell’ombra dei monti, chiudevo gli occhi come per non uscirne più.


Mi s’è rotto il polso. La mano m’è caduta come una cosa disseccata.

Ho sete. Spasimo dalla sete. Dal pollice del piede, laggiù, tanto distante, alle fauci di metallo che non s’inumidiscono mai, tutto il corpo è sitibondo. E invano domando un sorso d’acqua.

La lacrimazione dell’occhio e il sudore delle tempie mi colano fin sul labbro. E lambisco le gocciole salse. E mi sembra di lambirle con la bocca di mia madre, con quella bocca deformata che pesa in me, che soffre in me contraffatto.

Ditemi se c’è un’agonia più crudele di questa.

È peggiore dell’altra. Il dolore che ritorna è come inviperito. Si rivolta per mordermi più a dentro.

Allora potevo, a tratti, distogliere gli occhi bruciati. Chinavo la faccia sino a terra. Ponevo la fronte su quei poveri piedi bendati di lana. Serravo il cuore con tutte le costole convulse. Mi pareva d’attanagliarlo e di reprimergli il battito o di mungergli qualche poco di sangue.

Ora non posso non vedere, non posso interrompere questa fissità di supplizio.

Non è un’imagine immobile. Si muove, si muta. E triste, e diventa più triste. È disfatta, e diventa più disfatta. Apre la bocca, e non può parlare la parola umana; non può se non masticare l’anima, biasciare la desolazione.

E mi sembra che le stratte di corda date dal torturatore non sieno nulla in paragone di quel che soffro a ognuno di quei movimenti.

Ma che ho fatto? Che colpa sconto?


Le mura di Pescara, l’arco di mattone, la chiesa screpolata, la piazza coi suoi alberi patiti, l’angolo della mia casa negletta.

È la piccola patria. È sensibile qua e là come la mia pelle. Si ghiaccia in me, si scalda in me. Quel che è vecchio mi tocca, quel che è nuovo mi repugna. La mia angoscia porta tutta la sua gente e tutte le sue età.

La mia porta mi sembra più piccola. L’androne è umido e tacito come una cripta senza reliquie. Vacillo sul primo gradino della scala. Ho spavento del silenzio. Ho paura di vedere lassù le mie sorelle col capo velato. Un ragnatelo trema nell’inferriata che dà su la corte. Odo chiocciare. Odo stridere la carrucola del pozzo. Il passato mi piomba addosso col rombo delle valanghe; mi curva, mi calca. Soffro la mia casa fino al tetto, fino al colmigno, come se le avessi fatto le travature con le mie ossa, come se l’avessi scialbata col mio pallore.

Non c’è nessuno in cima alla scala. Comprendo. Quel silenzio è pietà e pudore. La sventura è su la seconda soglia, e sola mi accompagna per mano.

La prima stanza è deserta. La felicità d’una volta non vi lasciò se non coltelli affilati per dilaniarmi.

La seconda stanza è deserta. Ci sono i libri della mia puerizia e della mia adolescenza. C’è il leggìo musicale del mio fratello emigrato. C’è il ritratto di mio padre fanciullo col cardellino posato su l’indice teso.

Ho vissuto tant’anni nella dimenticanza di queste cose; e queste cose possono rivivere così terribilmente in me?

Nella terza stanza c’è il mio letto bianco; c’è il vecchio armadio dipinto, con i suoi specchi appannati e maculati; c’è l’inginocchiatoio di noce dove mi sedevo in corruccio e rimanevo ammutolito, con una ostinazione selvaggia, per non confessare che mi sentivo male.

Le ginocchia mi si rompono; e le pareti mi prendono, mi vincolano a loro, mi girano, come una ruota di tortura.

Nella quarta stanza c’è il piccolo Gesù di cera dentro la sua custodia di cristallo; c’è la Madonna dalle sette spade; ci sono le imagini dei santi e le reliquie raccolte dalla sorella di mio padre santamente morta; e ci sono le mie prime preghiere, quelle del mattino così dolci, quelle della sera ancora più dolci, che per rientrare nel mio cuore mi sfondano il petto come se fossero divenute le armi dell’angelo implacabile.

Tre gradini salgono alla quinta stanza, come tre gradini d’altare.

È piena d’ombra, sotto la volta arcuata. Rimbomba. Il cuore batte le mura con l’urto cieco del destino. Il vasto letto la occupa, dove fui concepito e generato. Credo di udire dentro di me le grida di mia madre che, quando nacqui, non penetrarono le mie orecchie sigillate. L’odore indefinibile della malattia mi soffoca. Una mano mi tocca e mi fa trasalire. Una mano fredda mi piglia e mi trae verso la stanza sesta.

È la sesta stazione: il sudario della Veronica.

Una voce piana dice: «È là.» Mi agghiaccia. La riconosco. È quella della serva ammirabile, della creatura fedele, nata dalle nostre glebe, allevata nella nostra casa, chiamata Maria.

«E là.»

È mia madre?

Una povera povera cosa curva, una cosa informe, una cosa di miseria e di pena, abbassata, umiliata, perduta.

È mia madre?

Mi trascino ai suoi piedi, striscio sul pavimento. Sono vuoto di tutto, fuorché del terrore. Alzo la testa spasimando came se mi si spezzasse una vertebra nel collo. Alzo la testa e guardo.

Guardo quel viso.

Bisognava che la sorte mi accecasse prima.

Non era così il viso del Salvatore quando egli ebbe preso sopra di sé tutti i peccati del mondo?

Orribile e sublime, veramente, con uno sguardo che non mi vede, che non mi riconosce, oscurato e fisso, dove l’amore non è se non tristezza senza nome, tristezza sino alla morte e di là dalla morte.

Mia madre!

Una povera creatura avvilita, percossa, sfigurata; e non so che spaventosa grandezza in cui entro come in un luogo pio e tremendo, come nel mio sacrifizio stesso.

Sono come il suo prigioniero atterrito. Imprigionata in lei la mia anima mi fissa dalla profondità di quelle ignote pupille.

E l’umile donna della terra nomina il mio nome, ripete il mio nome a quell’orecchio sempre più inclinato.

E allora le due mani si levano di su le ginocchia. Tutta la vita s’arresta, perde colore, non è più niente.

C’è dunque qualcosa che può farmi più male di quello sguardo senza lume?

C’è la bocca, che non ha più bellezza, che non ha più dolcezza, che non ha più forma umana, che non ha più suono umano.

Le due palme s’abbattono sul mio capo pesanti come se fossero esangui ed esanimi. E la bocca vuol dire il mio nome, ma non ha se non un mugolìo fioco.

E io son vuoto anche del mio terrore. Non ho più senso. Conosco una morte che forse nessun altro figliuolo di donna potrà mai conoscere.

12 marzo 1916E come puoi ora, come puoi tu farmi così rimorire?

Oggi è il giorno mio natalizio.



Dico al dottore che m’interroga:

«Imagini che io abbia una farfalla viva imprigionata nella gota, e che le sue ali brune sopravanzino la mia palpebra inferiore e palpitino di continuo nell’orlo dell’occhio».

Egli non sorride, s’acciglia.

Io sorrido e soggiungo: «Non bisogna ucciderla, bisogna liberarla.»


Dico al dottore: «Imagini ora ch’io abbia nell’occhio una piccola foglia di felce, d’una di quelle felci aride che sembrano intagliate in una làmina di rame».

Egli risponde: «Sa che quando si taglia a sghembo lo stelo di una felce, ci si vede la figura dell’Aquila bicipite?»

La Sirenetta dice: «Il glicine è già fiorito a tutte le finestre.»

Ho nel mio occhio triste qualcosa come una cristallizzazione di ametista chiara, che talvolta di minerale si converte in vegetale e somiglia i fiori chiusi del glicine simili a leggiere scaglie oscillanti.



La Sirenetta ha una voce che lenisce, che sopisce.

Quando parla, il mio cuore si placa, il mio polso si rallenta.

Mi ricorda la voce giovenile di mia madre, che ogni sera nel mio piccolo letto di bambino mi addormentava con una favola.

Legge i poeti, e il fiume dei sogni mi trasporta nell’ombra dei lauri.

Cessa di leggere, e sùbito la pena mi rimorde.

Ha una parlatura toscana, di purità senese. Così parlava Santa Caterina giovinetta quando coltivava il suo giardino.

Un’ape le ha lasciato in bocca il miele votivo.

Per la sua bocca i sonetti della Vita nuova mi toccano a dentro come quando, a sedici anni, li leggevo lungo l’argine dell’Affrico erboso, verso il tempo del Resurressi.

E stando io con amarissima pena «come coloro che non si possono muovere», apparvero anche a me certi visi di donne scapigliate che mi dicevano: «La tua giovinezza è morta!»

E anche, dopo queste donne, m’apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, i quali mi diceano: «Tu se’ morto».

Avendo una bella voce, la cara creatura è sensibile alle voci belle.

Mi dice quale più ama tra quelle dei nostri familiari. Ne parla come del sapore che hanno le acque delle fontane diverse.

Poi mi racconta che una sera di plenilunio, quando era alunna al Poggio Imperiale, fu condotta con alcune sue compagne a visitare l’osservatorio di Arcetri.

Nel suo ricordo ella vede grandi terrazze bianche di luna, grandi terrazze sovrapposte che si avvicinano agli astri come nella dimora d’un astrologo inventata in un poema di cavalleria.

E là ella udì la più bella voce del mondo.

Era quella del modesto assistente, che presso il telescopio parlava delle montagne e delle valli lunari, parlava degli anelli di Saturno e del rossore di Marte.

Tutte le fanciulle pendevano dal suo labbro, rapite dall’incanto del plenilunio.

La voce pura era come un tono dell’armonia celeste.

E la corona virginea palpitava come una costellazione umanata, intorno al dottore di stelle.



La mia figlia ha due occhi bruni d’Oriente, di quelli occhi saracini che fiorivano in Sicilia al tempo del soldano svevo.

Talvolta, quando si china all’improvviso verso me, mi sembrano collocati nelle sue tempie come quelli dei palafreni che guatano dalle miniature asiatiche.

Una testa bianca o piuttosto come il fiore del pesco, con una criniera crespa e bruna, difficile a esser divisa in trecce.

Talvolta, quando è seduta sopra un cuscino basso e taglia per me le liste di carta che stridono alquanto come le foglie secche di palma, mi viene in mente «la fiore di Soria».

Ella aveva colto i ramoscelli d’ulivo nell’orto di Gethsemani; e li intrecciava con quell’arte che orna la Domenica delle Palme, appresa nel nostro contado.

Ella ne faceva una stoia, lunga come il mio corpo, perché io vi giacessi supino.



«Sono arrivate le rondini» dice la Sirenetta entrando nell’ombra, con un accento dominato che par l’ombra del grido.

Penso, non so perché, al suono dell’antica mia voce quando, fanciullo, sollevavo il coperchio ferrato del pozzo e, sporgendomi dalla sponda di pietra solcata dalla corda, gittavo un grido verso il fondo ove intravedevo il mio viso nell’acqua che luceva.

Ho negli occhi quel suono d’argento assordito, in cui tremava la levità del capelvenere.

Richiudevo il coperchio con cautela, perché l’urto del ferramento non ricoprisse il mio grido segreto.

E mi pareva d’aver imprigionato nel pozzo fresco e cupo qualcosa di vivo come un uccello che seguitasse a svolazzare e a cantare sbattendo le ali contro l’umido mattone.


Dice la Sirenetta, ricordandosi che una sera io la condussi a vedere la scala del Bòvolo e per prepararla all’incanto le bendai i belli occhi con le mie due mani, nella calle stretta, prima di sboccare nella corte Contarina; la Sirenetta dice: «Non credi che nella scala del Bòvolo sia appeso qualche nido? Voglio andare a rivederla per sapere se le rondini ci vanno ad abitare, come io farei se fossi una di loro!»

O piccola, schiodami di qui e portami teco.

Sono fisso con due chiodi nelle ascelle e due nei piedi.

Resto silenzioso. Ma un istinto balzante della mia carne stanca imita la rondine veloce.

I suoi minuti occhi selvaggi s'aprono sotto la mia benda.

Entra nella corte Contarina. Un grido, due gridi.

Viene dalla riva degli Schiavoni.

Passò sopra Chioggia.

Volò a San Francesco del Deserto.

Girò intorno al campanile orientale nell’isola degli Armeni.

Si posò un istante nella bocca del Leone su la colonna della Piazzetta, tentata di mettervi il suo nido novello.

Entra nella corte Contarina. Un grido aguzzo, un guizzo bianco.

S’abbassa verso i pozzi aridi raccolti entro le inferriate.

Poi sfiora le logge a chiocciola sovrapposte, con la rapidità musicale di una mano che fa un arpeggio su per le corde di un’arpa scolpita.

Brilla e svolazza intorno agli ultimi balaustri.

Poi la vedo sparire, la sento stridere sotto la volticella.

Poi la vedo partirsi a saetta, valicare i tetti, trafiggere l’azzurro.

La odo gridare di dolore, gridare al sole il mio dolore.



Mentre il mio corpo è lavato e profumato a parte a parte da mani pietose, come quello dei morti, mi prende un lieve sopore.

Tutte le apparizioni della notte insonne si sono dileguate nella luce del mattino.

È concesso al mio occhio sinistro di vedere un poco di luce.

L’imposta è socchiusa in modo che non entri il sole, ma laggiù la vecchia seta rosata della parete s’indora.

Ricevo il chiarore su la palpebra nuda insieme con un tepore che non è se non la soavità di quello.

Sento stropicciare le mie ginocchia dimagrite. Le sento levigate come quelle delle statue sepolcrali.

Il sonno che l’equinozio di primavera mi porta è come il sonno di Ilaria nella tomba di Lucca. Questa luce somiglia quella della vetrata che laggiù nel duomo toscano illumina la statua giacente.

Questo tono musicale della stanchezza riconduce ai miei piedi congiunti l’amore del più bello fra i miei giovani levrieri.

Cedo lentissimamente al sonno, e so che potrei non più risvegliarmi.

Le mani pietose mi ricoprono d’un lenzuolo fresco che dà la visione del bianco al mio occhio cieco.

Sono sfuggito alla notte.

L’anima triste sembra candidata, come direbbe il Mistico.

Il mio sonno non è più un fiammeggiamento di fantasmi formidabili, ma è un chiarore queto ed uguale.

L’infermiera ha detto: «La facciata della casa è già tutta vestita di verde come Ornella».

Il muro si dissolve senza polvere, e le piccole foglie nuove tremano quasi sul mio volto. Il mio fiato le muove.

Quanto ho dormito? Sento sùbito la lacrimazione dell’occhio malato sotto la benda. Una lacrima è giunta alla commessura delle labbra.

Le lacrime che esprime l’anima e quelle che versa la palpebra irritata sono amare dello stesso sale?

Indovino il pomeriggio. M’è rimasta nel corpo meschino qualcosa come una doratura del sonno diurno dormito nella luce.

Chiamo. Sono le tre del pomeriggio. Ho dormito lungamente.

L’infermiera sorride e dice che sono giunti i sonatori per far musica.

Odo venire dalla stanzetta attigua gli accordi del violoncello e del violino.


La Sirenetta appare su la soglia. Ha una veste rigata e il suo bel capo bruno si leva da un gran collare bianco movendosi sul collo nudo con quella grazia che è sola degli uccelli e sembra perciò regolata dall’istinto del canto.

È un angelo tunicato che si distacca da una cantoria fiorentina.

Precede la musica e l’annunzia.

Le prime note del quinto Trio dei fiammingo Beethoven mi toccano il cuore veramente, corporalmente, come le bacchette battono il timpano nel marmo vivente di Luca.

È il trio detto degli Spiriti.

Lo ascolto come dopo la morte.

I musici sono nascosti, sono di là.

La piccola stanza chiusa è come una cassa armonica.

Il cembalo, il violino, il violoncello sono tre voci che parlano come in un dramma religioso, come in un mistero sacro.

Ho abbassata la benda anche su l’occhio vivo.

Quando, dopo la pausa, gli strumenti cominciano il Largo, vedo una zona gialla compenetrare una zona violetta.

Poi vedo un drappo violetto orlato di giallo coprire un rilievo che è quello del crocifisso.

Le sporgenze dei ginocchi straziati sollevano il drappo nel centro; e, quando il violino riprende il tema, il drappo nel centro s’imporpora.

E allora sento ogni volta come uno strazio profondo.

Ogni nota sospinge di vena in vena sino al cuore il fondo del calice di vita, quello che non ho assaporato ancora, quello che pregai fosse tenuto lontano dalle mie labbra.

Ogni nota più lo sospinge verso il cuore, e il cuore non s’apre a riceverlo, ma si torce e repugna.

Ecco è all’orlo, è prossimo. Il cuore s’arresta, poi è subitamente posseduto, rempiuto, ricolmo.

Travedo l’ombra della mia creatura che si china sul mio viso.

Le sue dita lievi toccano la mia gota, di sotto alle bende, e si bagnano.

Sopra le lacrime raffreddate e invescate, dall’occhio perduto sgorga un pianto caldo e fluido.

La vita dell’anima riempie le bende.

Non m’illudo. Son certo che l’onda è sgorgata dal ciglio cieco prima che dall’altro.

Ora tutt’e due gli occhi vivono d’una stessa vita sublime. Sono due fonti vive.

Non so più dove sia il mio male. Il mio male è un bene che non si conosce.

Il pianto trabocca. La mia creatura v’ha immerso le dita ma non osa asciugarle.

Sento il suo capo presso il guanciale.

E la mia figlia, la figlia della mìa carne, a me sul limitare della vecchiezza dice una parola materna, la parola tenera che le madri dicono ai fanciulli!

Sento che con quella parola ella mi prende su le sue ginocchia come l’antica Pietà, e sopporta le mie piaghe.



Inebriatemi di musica.

Fatemi piangere ancóra lacrime d’anima.

Toccate con la melodia il fondo della mia piaga, a suscitarvi i colori indicibili che non appariscono se non nello spettro luminoso delle stelle.


Ecco che io sono come all’inizio del dissolvimento. Sono pieno di sostanze che si disgregano e di succhi che fermentano. Odo in me i gorgógli che udii già nell’alta notte vegliando le salme tra le corone funerarie.

E io vivo tuttavia maravigliosamente. Il mio spirito è il cristallo di tutti i misteri. L’immenso flutto lirico della creazione lo attraversa per salire dalle radici del mondo al triplice solco della mia fronte d’uomo.


Oggi contemplo la morte vestita di non so che celeste pudore, quale me la mostrarono lassù, nel paese gotico, certe tombe terragne del dugento.

Gli occhi sono aperti come le corolle alla prima ora della luce; e le mani conserte sembrano già partecipare della vita eterna.


Penso all’arte di quel dio che, nel dì novissimo, rimodellerà i volti dei suoi eletti a simiglianza della sua bellezza recòndita.

Nel mio volto supino la lesione del tempo e della vita, a un tratto, sarà cancellata.

Ridiventerò giovine nel marmo del mio sepolcro, come i trapassati nelle stele funerarie degli Elleni.

Scolpito in piedi, terrò per la briglia un gran cavallo alato, non simigliante né all’Ippogrifo né a Pègaso.


La morte non mi appare se non come la forma della mia perfezione.

Eternerà tutti gli elementi che la vita commuove e commuta in me con una perpetua alchìmia.

Quale «inno senza lira» accompagnerà il mio transito?


I giorni passano, le ore precipitano; e ogni giorno senz’alba e ogni ora senza mutazione mi ritrova inchiodato.

Non voglio guarire. Mi basta cicatrizzarmi e saldarmi. Voglio rimettermi in piedi, voglio risorgere.

I miei compagni mi chiamano, i miei emuli mi aspettano. Laggiù, su la linea del fuoco, lassù, nel cielo della battaglia, ogni giorno sembra che il sommo dell’eroismo sia toccato; e, il giorno dopo, v’è un eroe sconosciuto che lo sormonta.

Non mi leverò se non con la volontà di superarlo.

Sento che, quando mi rimetterò in piedi, saprò meglio combattere.

Di quali accorgimenti, di quali scaltrimenti, di quali astuzie animali userò per sopperire alla diminuzione della vista! Avrò il nemico sempre a manca o di fronte, se Dio mi aiuti. Come il mio selvaggio Malatestino, dirò: «Io vedo pur con l’uno.»

L’ardore sarà il medesimo; ma l’ardire sarà istrutto dall’esperienza, aguzzato dalla pazienza.

Nulla oggi ha misura. Il coraggio dell’uomo non ha misura. L’eroismo è senza limiti.

Al vertice della potenza lirica è il poeta eroe.

Pindaro ha troncato le sue corde, ha mutilato la sua cètera, perché sa quanto sia più bello pugnare e osare.


Il pericolo opera liricamente su me. La mìa poesia è sostenuta dal mio coraggio; e non soltanto nella guerra ma — se considero le grandi ore della mia vita trascorsa — anche nella pace, anche nel tempo di già, durante il culto dell’aspettazione, quando foggiavo le mie ali e le mie armi.

Non mi sono mai sentito tanto pieno di musica come nelle pause della battaglia.

Ripenso il ritorno dall’incursione aerea su Canale, con Ermanno Beltramo; il passaggio pel cielo di Gorizia, sotto cupole di scoppii bicolori; la discesa involontaria da tremila metri a mille e duecento, inebriante come l’ascesa; il mutuo cenno irridente verso il nemico che non correggeva il tiro; l’incuranza del dolore nella mano destra mezzo congelata; l’impeto musicale contrapposto al tono affievolito del motore; la folle smania del canto.

«Accensione lirica, radiatori freddi»feci balzando dalla fusoliera su l’erba di Campofòrmido.

E avevo fame.


Il 27 dicembre, dopo la morte di Giuseppe Miraglia, venne a visitarmi Giacomo Boni.

Ricevuta la notizia in viaggio, era accorso, senza sostare a Grado dove appunto doveva ritrovarsi con Beppino, se fossimo tornati dall’impresa di Zara, per eseguire dall’alto ritratti del paese battuto dalle antiche invasioni barbariche.

Lo rivedo accanto al camino vivace, seduto nella poltrona dove soleva sedere il compagno scomparso. Lo rivedo con quel suo viso dolce eppure accigliato, con quel colorito acceso tra il pelo grigio, come certi Procuratori del Tintoretto. Rivedo quel suo ciuffo selvatico di capelli su la fronte carica di sapienza e di divinazione.

Tornava dall’Alpe, dov’era salito a distribuire le sue vestimenta bianche, i suoi calzari costrutti a simiglianza di quelli che portavano i cacciatori di cinghiali al tempo di Orazio, costretti a passare la notte su la neve ocreati.

Mi raccontava che gli Alpini, con le gambe congelate, cercavano di levarsi al suo passaggio e sorridevano. O gentilezza d’Italia! In un sol giorno il chirurgo aveva mozzo i piedi a duecento cinquanta uomini.

Mi raccontava che nel Carso era anche peggio. Le trincee s’empìvano d’acqua, e i fanti stavano con le gambe nell’acqua motosa fino alle ginocchia, per giorni e giorni. Le loro scarpe erano di qualità pessima, scarpe di cartone, fornite dai frodatori che godevano di tutte le indulgenze invece di esser fucilati in massa o forzati a rimaner tre giorni nelia morta gora della trincea con quelle loro stesse scarpe ai piedi. Tre giorni — diceva egli — bastano a finire un uomo anche ladro.

E, d’improvviso, interrompendo l’orrore e l’abominio, mi raccontò che nel settembre scorso, conversando con Giuseppe Miraglia, gli avvenne di citare una invocazione orientale all’allodola: «O allodola, ai tuoi trilli non basta il giorno intero!»

Allora il buon pilota gli confidò non senza timidezza che una mattina, essendo partito per Pola prima della levata del sole ed essendo giunto nel mezzo mare, vide il disco rovente sorgere nella nebbietta lontana e tutte le acque giubilare «a quel primo colpo di tìmpano». Egli lasciò le leve e incrociò le braccia. E, mentre l’Albatro abbandonato a sé stesso ondeggiava nell’aria tranquilla, si mise a cantare inventando le parole e la musica del suo canto. E soltanto così comprese l’ebrezza di San Francesco nel Cantico delle Creature. Né poi ebbe più memoria di quelle parole e di quella musica.

«O allodola, ai tuoi trilli non basta il giorno intero!»

La parola del poeta orientale mi torna nel cuore come una melodia straziante. E penso all’inno sconosciuto del mio compagno sepolto.



Non so se io abbia più sete di acqua o più sete di musica o più sete di libertà.

Sento il sole dietro le imposte. Sento che c’è un’afa di marzo chiara e languida sul canale. Sento che è bassa marea.

La primavera entra in me come un nuovo tossico. Ho le reni dolenti, in una sonnolenza rotta di sussulti e di tremori.

Ascolto.

Lo sciacquio alla riva lasciato dal battello che passa.

I colpi sordi dell’onda contro la pietra grommosa.

Le grida rauche dei gabbiani, i loro scrosci chiocci, le loro risse stridenti, le loro pause galleggianti.

Il battito di un motore marino.

Il chioccolìo sciocco dei merlo.

Il ronzìo lùgubre d’una mosca che si leva e si posa.

Il ticchettio del pendolo che lega tutti gli intervalli.

La gocciola che cade nella vasca del bagno.

Il gemito del remo nello scalmo.

Le voci umane nel traghetto.

Il rastrello su la ghiaia del giardino.

Il pianto d’un bimbo non racconsolato.

Una voce di donna che parla e non s’intende.

Un’altra voce di donna che dice: «A che ora? a che ora?»

A volte i suoni e i frammenti dei suoni e le pause diseguali si confondono in una sola armonia che si porta con sé la mia tristezza e qualcosa di ancor più triste che la mia tristezza.

A volte la mia attenzione li separa, li scerne, li distingue a uno a uno.

E alternamente mi fanno soffrire.

Ecco quella stilla continua nella vasca del bagno, quella stilla di caverna paurosa! Mi doventa intollerabile. Mi corrode, mi buca, mi trapassa.

Chiamo l’infermiera. Mi lagno.

A lungo ella si sforza di serrare il mastio della cannella; ma non riesce. La stilla è ostinata contro il mio male.

La donna sospira e dice: «Non si può.»

Prende un batùfolo di cotone, e lo introduce nella bocca della cannella. Crede di averla ammutolita.

La tregua mi dà un gran sollievo. Sono così attento al silenzio, dalla parte del bagno, che più non odo gli altri rumori.

Ahimè, la stilla ricomincia. Traversa il cotone, come lo traversa la lacrimazione fastidiosa del mio occhio fasciato.


Oggi il dèmone ha spento i fuochi, e ha inventato un nuovo supplizio.

L’infermiera entra e dice: «Tutti i giacinti sono caduti sotto l’acquazzone. Son tutti per terra.»

Mi rammarico.

Ella soggiunge: «A raccogliere i più belli mi si sono invescate le dita. Dai gambi rotti fila un umore che si attacca alle mani.»

Soggiunse ancóra: «Ma ci sono altri bulbi che gìttano. Ce ne sono molti. Saranno anche più belli. Ne ho visto uno che ha messo fuori il capo d’un fiore doppio, violetto, così scuro che sembra nero. E le pecchie ronzano. M’inseguivano, dianzi. Perché i giaciuti più scuri odorano più forte?»

Un nulla mi turba e mi sconvolge.

In certe ore sembra che tutte le relazioni e tutti i rapporti cèssino nel mio spirito senza lasciare ombra di vestigio. Divento una materia non governata da nessuna legge stabile, soggetta a trasmutamenti subitanei che spossano o esaltano il corpo quasi direi transustanziato. Sento circolare nella sfera dell’occhio le forze più varie e più discordi. Il flusso e il riflusso primaverile mi attraversano come una vicenda di maree cariche di orrori e di tesori innaturalmente accelerata.

La donna s’accosta. Odora di giardino grondante.

Le chiedo se abbia tuttavia fra le dita il vischio dei giacinti.

«Oh no!» risponde con una voce sùbita e vivida come il rossore.

E lievemente mi sfascia e mi cambia la compressa che s’è disseccata sopra la bolla d’acqua salsa.

Poi s’allontana. Richiude l’uscio. La sento discendere la scala.

Un’angoscia misteriosa si gonfia dentro me; si deforma a poco a poco, e affluisce verso l’occhio che sembra urtato dal battito atroce della mia nuca.

Dove sono i giacinti rotti e raccolti?

La stanza si empie d’un profumo delirante. L’angoscia divampa come la follia.

Dal bulbo dell’occhio, con una fitta improvvisa, rompe il giacinto violetto.

Serro i denti. Sento le barbe aggrovigliate nel cervello. Sento distinte le membrane e le squame carnose.

Il gambo s’allunga. Il fiore si compisce, s’infoltisce, s’appesantisce. È cupo, è quasi nero. Lo vedo. Chi me l’ha scerpato?

Ho paura del mio grido folle.

L’umore vischioso impiastra la compressa, mi cola giù per la gota.

Il nero rispunta, con una fitta più acuta. Rinasce e si stronca e m’invesca E io grido.

Rigitta ancóra, si spezza ancóra.


Oggi non ho più nell’occhio il giacinto cupo. Oggi ho nell’occhio non so che fiore villoso, tra rossigno e gialligno, simile all’orecchio di un cuccioletto.


Ho nell’occhio quella creta cocente che s’abbevera sotto il rovescio d’acqua. Ho nell’occhio quella creta gialla che abbaglia laggiù in quel greto deserto della Versilia.

Sento il succhio della sua arsura sotto lo scroscio del nembo.

Ecco, ho nell’occhio il fanciullo etrusco di bronzo, che tocca la terra con la mano destra.

E d’un rossore cupo, come escito dalla fornace, ancor rovente.

Non si rialza mai.


La lacrimazione dell’occhio infiammato mi cola sino alla commessura delle labbra. L’amaro si mescola al sapore metallico.

Penso ai pescatori della Pescara che partono con le belle paranze dipinte, prima dell’alba, nel vento di maestro, e hanno il gusto del sale in bocca.


Una rondine grida disperatamente sopra un’armonia cupa di cannone e di campana.

È verso sera.

Il mio carnefice notturno è dietro la porta.



Come può la pioggia di marzo avere questo suono argentino, questo clangore che brilla?

Slegatemi i piedi.

Come può la pioggia di marzo aver rapito gli spiriti del tripudio alla baccante che dorme?

Slegatemi i piedi.

Per i capelli, per i lunghi lunghi capelli afferrerò la pioggia di marzo sonatrice di cròtalo.


Ecco che la grazia della mia giovinezza entra, senza toccare il pavimento, sollevando piano piano l’arcobaleno.


È la mia magia, questa?

Davvero dunque la malattia è d’essenza magica?´

Tutto è presente. Il passato è presente. Il futuro è presente.

Questa è la mia magia. Nel dolore e nelle tenebre, invece di diventar più vecchio, io divento sempre più giovine.


Eco di antichi e di futuri tempi.


L’occhio è il punto magico in cui si mescolano l’anima e i corpi, i tempi e l’eternità.


Che debbo terminare?

Che debbo incominciare?


Scopro nelle cose una qualità fisica nuova. Sento in tutto quel che tocco, in tutto quel che odo, una novità ammirabile.

Quali nomi darò alle costellazioni che tremano nelle lontananze del mio dolore?


La parola che scrivo nel buio, ecco, perde la sua lettera e il suo senso. È musica.


«O allodola, ai tuoi trilli non basta l’intero giorno!»

Risogno l’inno mattutino del mio compagno perduto. M’incalza il cuore veloce non so che smania di canto.

Il giardino è pieno di pecchie sonore Se tendo l’orecchio mi par di udire il bombo.

Mi torna nello spirito, quasi disegno di melodia, un ricordo delizioso della «Diana caucasea».

Ella aveva latifondi nel Governo di Kiel. Presso lo stagno, tutto smeraldato d’anitre salvatiche, era un grande frutteto, un bel frutteto di ciliegi soli.

Lo guardava un vecchio barbato come Carlomagno dalla barba fiorita. E questo vecchio solo aveva cura dell’alveare. E le pecchie docili gli si adunavano nella barba bianca. E la barba a volte gli doventava un lungo sciame d’oro. Ed egli, addossato al tronco di un ciliegio prediletto, non dava crollo. Respirava piano. Socchiusi gli occhi, cantava piano una cantilena della culla.


Mi torna il ricordo di un altro canto.

Ero nella casa d’Ilse, in una notte della invernale Parigi chimerica.

La stanza era piena del fumo che il vento di fuori respingeva per la canna del camino acceso. E la fata freddolosa vietava di aprire le finestre.

Intorno a un liocorno di legno dorato, proveniente da quell’impero birmano che è amico della musica, Alastair vestito d’una tunica azzurra broccata d’oro aveva danzato le sue danze gotiche. Tra cervi di bronzo e antilopi e altri svelti animali dell’ Estremo Oriente che sembravano pascolare il tappeto, aveva officiato in rima un rimatore vestito da vescovo violetto, con i capelli tagliati in tondo nello stile della santa chiericìa di Frate Angelico. Coricata su i cuscini bassi, la dama del luogo pareva una figura di cera dagli occhi di smalto; ma rivelava la vita movendo leggermente la gamba dalla caviglia sottilissima, come la serpe batte la coda nell’amore o nella collera.

Era una di quelle ore arteficiate che la follia la fantasia e la nostalgia lavorano insieme come tre streghe intorno a un beveraggio sospetto.

Ma in mezzo a tanta falsità e morbidezza c’era una coppia di forze rudi: il fumo risoffiato dal vento e Isnayat-Khan cantore indiano.

Il fumo di tizzo uccideva i profumi perfidi. La bocca dischiusa d’Isnayat fece tacere le civette e gli assioli.

Il liocorno cercò invano un grembo di donzella vergine, dove potesse riposare la testa altiera e addormentarsi nella dolcezza dell’umiliamento. Ma parve contribuire alla perfezione del silenzio col suo mistero favoloso.

Il cantore era seduto con pacatezza, come se quel fumo gli venisse dai roghi del fiume padre e non gli potesse offendere la voce. Portava una tunica d’un color giallo rosato e una gran collana d’ambra. Teneva stese su le ginocchia le mani brune. Una corta barba nera compiva l’ovale del suo volto bronzino. Il bianco degli occhi era più puro che un guscio d’uovo di tortora. Ed egli cantava sempre a bocca aperta, modulando le note nella gola.

Conosceva più di cinquecento modi.

Era un uomo fraglie, era un petto d’uomo scarno; e il suo canto pareva sorgere dalla profondità del tempio, venire di più giù che la pietra, di più giù che lo spazio di sotterra, fondere in sé le aspirazioni di tutta la stirpe, raccogliere in sé il travaglio di tutte le radici.

Non c’erano più pareti, non c’era più il camino angusto; non c’erano più fantasmi né maschere né frodi.

C’era il fumo del rogo, e il sudore che ingemmava la fronte del cantore sacro.

Nella pausa nessuno più osava parlare o esclamare.

Isnayat mi guardava a ogni principio di canto. Voleva significarmi che cantava per me solo.

Per me solo cantò il canto antelucano, il canto d’innanzi l’alba, misterioso come il messaggio del vento inviato sopra l’affanno della terra da Colui «che è intento ad accrescere la luce».



Le quattro assi sembrano più strette intorno al corpo.

Le sento contro le anche: ne sento una contro le piante dei piedi, una contro il cranio.

E il coperchio è inchiodato.

Nessuna allucinazione, nessuna apparizione.

Tutto è nero, come in fondo a un vaso dove il liquido si rappiglia in falde pallidissime che calano al fondo e si posano.

Se sospiro, la sollevazione del petto sembra sollevare quel fondiglio che risale e ondeggia nell’olio nero. E ogni sospiro cresce l’angoscia.

Chiamo. Prego che la finestra sia aperta, che l’aria fresca entri.

Sento l’aria entrare nella mia bocca come un’acqua viva.

Mi tendo fino all’estremità dell’orizzonte dove l’aria deve essere già rischiarata dall’alba, per prenderne un sorso.

D’un tratto ho un corpo immenso.

La mia oscurità non è limitata dall’oscurità ma è tutto il buio.

Le quattro assi sono cadute. Tutto il mio corpo sembra aerarsi.

Il cerchio luminoso si riforma e passa. Saturno ha perduto uno dei suoi anelli che viaggia sospeso nella notte.

È un’aureola che cerca un capo da cingere.

Odo l’infermiera che dice, presso la finestra: «Basta così?» — «No. Ancóra».

Ella dice: «Che notte chiara! La luna è alta. Si potrebbe leggere!»

Allora perdo la mia immensità. Ridivento un corpo nero fra quattro assi.

Non ho i confini della notte ma quelli della mia miseria.

Non sento più il sapore dell’aria notturna, ma quello della mia bocca di metallo.

La finestra si chiude come un coperchio su me.

Ho l’impeto di strappare le bende e di balzare in piedi.

La volontà sorge dal cuore disperato e mi rinchioda.

Lo sforzo mi produce il calore d’una febbre subitanea.

Brucio. Il sudore stilla come un pianto che non trovi più la via degli occhi.



Ho un desiderio così disperato di rivedere il cielo che per pietà mi portano presso la finestra.

Il sole è tramontato. Anche la luce crepuscolare s’è affievolita. Nulla mi può ferire.

Sono quasi supino. Fisso il cielo col mio occhio illeso, e il cielo entra in me come se io fossi trasparente.

Sono come un’acqua che trema, uno di quei piccoli stagni salsi che restavano su la spiaggia sabbiosa davanti alla mia casa d’esilio laggiù nella Landa.

La Sirenetta è accosciata ai miei piedi. Intravedo un mazzo di giaggiuoli foschi dietro la sua testa.

Sembra che il suo gonfio cuore di vergine entri in me. Certo il mio batte per due in questo momento. Ne sono pieno dalla nuca al pollice del piede.

L’agitazione offusca l’acqua, e il cielo s’allontana. Alzo la benda, e lo guardo anche col mio occhio malato.

Nel mio occhio malato guizza un riflesso di stelle e si frange come in un prisma.

«Vedi la prima stella nel cielo?» domando alla Sirenetta.

«Non ancóra» risponde.

Lo spettro sidereo è nel mio occhio infermo.

Chiedo: «Si può vedere di qui la luna novella?»

Ella si alza in piedi. La sua figura s’intaglia su la vetrata. Mi sembra ingrandita da un sospiro represso.

«Non la scopro» ella risponde. «Vuoi che vada nel giardino per cercarla?»

Le do la mia ansia. La mia ansia le dà un’ala che riempie l’ombra della stanza.

Ella discende. L’ombra s’incupisce, il cielo è cinerino. Diventa opaco e inerte.

La Sirenetta riappare. Odo la sua leggerezza per la scala come una melodia saliente.

Porta ella sotto i piedi la falce della luna?

Porta ella il diadema dalla luna su la sua fronte?

Ella dice: «La lunetta è dietro la casa. Non puoi vederla.».

Sono deluso, come un fanciullo a cui non sia tenuta una promessa.

Mi rimettono sul letto odioso.

Del cielo non rimane in me che il deserto di cenere.



Giorgio mi suona un’aria di Gerolamo Frescobaldi detta la Frescobalda.

Il cielo grande di Ferrara s’inarca su la mia malinconia.

Rivedo i carri carichi di lino, carichi di tutta la canizie del mondo, passare per le strade larghe e diritte.

Rivedo nel palagio di Marfisa la sala d’un antico teatro piena di lino accumulato, ingombra della bianca vecchiezza tonduta del Tempo.

Rivedo una figura magica di donna dipinta sopra una porta sconnessa su cui pendono i ragnateli polverosi.

Sono solo, preso d’una malinconia sbigottita. E gli occhi magici mi guardano. E non ho cuore di spingere quella porta per ripassare la soglia.

Lo stridore del ganghero rugginoso romperebbe la musica che m’incanta.



Nell’insonnio il preludio di Alessandro Scriàbine mi passa e ripassa su la fronte che mi sembra leggiera e trasparente come una visiera di vetro in un elmo di ferro.

Tutto il capo mi pesa profondato nel guanciale.

Ho quell’armatura del capo che i fanti chiamavano cervelliera. Ma la fronte è di vetro, piena d’incrinature e di bolle, calda come una coppa soffiata di recente dal vetraio.

È la sola parte lievemente luminosa del mio corpo insonne, di sopra la benda.

il preludio di Scriàbine è di colore cupo, violaceo, simile a una stoffa marezzata che si divincoli al vento della sera.

Mi ricorda il velo funebre che ondeggiava nel mio occhio perduto e che non mi lasciava vedere nello specchio se non la sommità pallida della fronte calva.

Le ore passano. La musica è come il sogno del silenzio.

Non dormo, eppure la vita s’abbassa in me a poco a poco come la marea. Il polso è fievole. La mano sul petto non sente il cuore.

La musica si allontana e poi ritorna cangiando di colore come un flutto sotto un crepuscolo mutevole.

Il verde il violetto e l’azzurro cupo sono i colori di questa notte.

A un tratto vedo le stelle, le stelle dell’Equinozio larghe come i loro riflessi nell’acqua.

Poi sento l’alba contro il davanzale, appoggiata al davanzale coi due gomiti, con gli occhi allungati fin dove i capelli s’appiccano alle tempie.

Oso volgere un poco verso lei la mia gota. E tutta la mia disperazione chiede di respirare.

Ma nessuno è là per aprire la finestra. La casa dorme, le mura dormono.

Il sonno intorno a me è spesso, duro, incrollabile.

La follia è chiusa nella mia fronte come in una ampolla. Se grido, la mascella scuote nell’occhio il mio male.

Il capo inchinato ridiventa supino. Il silenzio non sogna più la musica: è compatto, immobile, nemico.

Attendo il suono dell’Angelus come una salvazione.

A un tratto odo qualcosa che somiglia al canto di un gallo, fioco, lontanissimo — non grido di svegliatore ma gemito di prigioniero — chi sa su qual canale putrido, in quale corte sordida ancóra illuminata dalla lanterna violetta.

«Eravamo là, cinquanta fanciulli, ALEXANDER SKRJABIN.
cinquanta eredi del folle volo,
i figli d’Icaro e delle Sirene,
i nepoti di Dedalo dal Labirinto.
Generati negli antri glauchi
del Mare icario,
nel gineceo marino
delle cantatrici profonde,
dalla voluttà dell’eroe pennuto
converso in demone d’abisso.

Fuor del purpureo gorgo
eravam noi emersi all’aurora,
su l'orlo dell’isola scabra,
in un circo di rupi deserto.
Scossa la salsedine dalle penne,
le asciugavamo al meriggio,
dispiegandole a prova,
con alzate le braccia,
verso il cielo ceruleo
come la mammella materna.


Ala urtava contr’ala
nella latomia troppo angusta.
A ogni battito il fratello rompeva
contro il fratello le penne.
Il cuore si gonfiava d’altezza
come l’ala lieve al remeggio.
Arcato era sul pollice il piede.
Tenevamo pel pollice il sasso,
e il rimanente di noi
cerulei della cuna marina
s’incielava nell’ansia del volo.

Allora udimmo sonare la bùccina.
E il fremito fu contenuto.
Origliammo verso lo scoglio,
se non sopravenisse l’eroe
a sprigionarci
pietoso di tanta angoscia inesperta,
egli ch’era sommerso in eterno!
Ma un’ombra s’allungò sopra noi.
E tutti ci voltammo e gridammo,
e scorgemmo contro il cielo il nemico.

Enorme, tutto pugno e mascella,

tutto fauce senza parola
brandiva un’ascia grande,
l’ascia inventata da Dedalo,
che nel tronco intagliò il primo dio.
Disceso, entrava nel folto dell’ali frementi.
Ghermiva l’un di noi, e l’altro e poi l’altro.
A colpi d’ascia iterati
mozzava dalla spalla le penne.

Sprizzava sangue dal taglio,
che non per legami dedàlei
ma per nodi di tendini vivi
eran giunte al nostro sogno le penne.
Calpestavamo, sfuggendo, stridendo,
la straziata messe di penne.
Non restava l’ascia crudele.
Abbattuti, dal dolore convulsi,
sanguinavamo sopra le penne.

E un solo scampò nell’altezza.
Pontato su l’orrore fraterno,
prese lo spazio fatto dall’ascia,
per aprire i vanni e levarsi.

L’ala sua ci parve più grande.
Tinti del nostro sangue salso
vedemmo i suoi piedi contratti.
Guatava in su, ringhiando, la belva.
E tutti i nostri occhi eran pieni di cielo,
resupini su le penne tarpate.
E la stirpe era invitta nel volo.

Poi non dìttamo avemmo al dolore.
Niuno medicò le nostre piaghe,
se non la rugiada silente.
Bevve il pianto delle Sirene,
bevve la melodia delle Pleiadi,
con la silente rugiada,
la nostra angoscia notturna.»






     Lo zoppo dai piedi di bronzo AL. SKR.
     s’attarda nel passo discorde.
          E la danzatrice
          intorno gli danza
misurata e aerea come la voce puerile che solfeggia nella cantoria a mattutino.



     Penosa nel calle del mondo
     l’impronta va dietro l’impronta.
          E la danzatrice
          intorno gli danza
ventilata e tenue come la paglia d’avena che svola senza polvere brillando nel turbine repentino.




     Il tonfo s’alterna col tonfo
     sul suolo sonoro di tombe.

          E la danzatrice
          intorno gli danza
graduata e fluida come l’acqua che versano gli orci salendo e scendendo per la ruota della nòria a irrigare il giardino.






Un pugno d’uomini AL. SKR.
sul ponte della nave guerriera,
diritto lo sprone
alla mèta tremenda,
nella notte senza luna e senza stelle.
Da poppa a prua, congegni ed armi,
tènebra e silenzio.
E v’è una sola costellazione
per l’anima sola:
la Buona Causa.

«Io sollevo le braccia
per sciogliere i capelli.
E sotto le mie braccia
il sacchetto di mirra
che fa ebro l’amato.
Ma io sono distante.»



Un pugno d’uomini

devoti alla notte e alla morte.
i marinai con in capo le cuffie
s’accosciano presso i cannoni.
Scuote lo scafo un fremito grande.
Sul coraggio degli uomini il cielo
è fortuna fumo e favilie.
E v'è una sola costellazione
per l’anima sola:
la Buona Causa.

«Io mi stendo sul fianco
e sono una collina
che sbarra l’orizzonte
alla forza del forte:
una collina dove
non è se non un’ombra.»



Un pugno d’uomini
dati alla vittoria e alla gloria.
Stanno in agguato
i lunghi siluri dal muso di bronzo.
Le torpedini in gabbie di ferro
riposano sopra le selle
sporgenti verso l’acqua che è nera.

E v’è una sola costellazione
per l’anima sola:
la Buona Causa.

«Io non so se sia sonno
o languore, o se sia
la lampada soave
che dentro mi rischiara.
Chi terrà fra le braccia
me così trasparente?»



Donna, resta con me, perché si fa sera.

Un grande evento silenzioso sembra che sia là, dietro quella stretta porta. Ora entra.

Mi riapparisce il dio di passione incatenato col ferro delle cose avverse ch’egli spezza e trascina. Io non l’ho seguito.

Mi ricordo di te quando venisti. Tutta la spiaggia era dorata e soffice come il fiore della gaggìa. Un naufrago era uscito a riva, gonfio e bianchiccio come un otre macero. Nella mia stanza chiara c’era un profumo di lauro. Lo sento ancóra.

Conosco un demone sognante, che cammina sopra un non formato mondo, la cui molle creta gli s’appicca al calcagno. Ora mi chiama.

Più lontanamente mi ricordo di te quando approdasti in quel porto d’Irlanda fosco con mille e mille cumuli di carbone fumiganti, minacciato da un sole disastroso. L’attesa senza volto ventilava un che di candido in mezzo al fumo. Mi pareva di vederti oscillare lassù, a bordo della nave enorme, come la penna d’una freccia infissa nel corpo d’un colosso che non muore. Ignoravo il tuo nome. Ma all’improvviso udii cantare, dall’albero di quella nave senza vele, la vedetta d’Isotta. «Sventura, ahi sventura, donna d’Irlanda, amor selvaggio!»

Ecco che di nuovo io prendo una forma appropriata all’ignoto e alla melodia.

Ho pur sempre una bocca di metallo, e da tempo non so altro sapore che quello dell’acciaio temperato nel mio sangue spesso.

Resta con me. Serra la porta. Nascondi la chiave. Scioglimi la benda, rompi le mie fasce. Spalanca la finestra.

Fa che io ribeva con te il filtro, in una coppa d’aria, questa sera.





Questa sera Scriàbine danza,
con la forza d’un arciere del principe Igor,
sul suo cuore immortale
che canta la melodia duplice
del desiderio e del dolore.


A ogni urto
il suo calcagno insanguinato
rompe il canto e lo difforma.
Ma, quando il piede s’alza
nel ritmo ineguale,
il desiderio e il dolore
ritrovano le note eterne
che un nuovo urto infrange.

Egli le ode, col capo riverso,
pallido di rapimento; e il suo viso è
coma una lampada sublime
che rischiara la danza ma non la conduce.

Tutta l’anima vi s’aduna e vi splende
come in un alabastro sensibile.

E l’ombra cade
dal bosco dei lauri,
dal bosco dei mirti,
dal bosco dei cipressi.
E solo rimane illuminato quel volto
sopra la saltazione frenetica e misteriosa.

Tutto il corpo,
dal sommo del petto al calcagno,
appartiene a un altro dio.
Egli vuole che quel cuore
nudato e gettato
si mescoli con la terra,
s’intrida con la zolla,
come un grappolo sfuggito alla vendemmia e restituito al suolo sitibondo.

Egli danza, danza,
con una ebrezza disperata,
chiarore di sé stesso,

finché non senta
sotto l’urto sempre più crudo
il cuore premuto nella terra,
divenuto una cosa della terra,
finché non oda le note rotte del nero
e vermiglio canto avvenire,
la melodia dell’eternità,
l’inno profondo, sempre più profondo,
della doglia infinita.



Veggo visi attentissimi di musici che danno il delicato orecchio al minimo intervallo di suono, alla minima ondulazione dell’aria sonante.

M’appariscono di una estrema esiguità, con qualcosa di graziosamente animale che mi fa pensare ai furetti alle donnole agli ermellini.

Si trasfigurano.

Ora sono come belli angeli consumati dalla passione dei cieli. Questa loro bellezza sembra fatta di nervi sensibili che sieno fissi a un giogo interno e tesi da dentro sino al limite dello spezzamento.

D’attimo in attimo, di nota in nota, di pausa in pausa, la sinfonia inaudita accresce l’acume di questa lor bellezza e la discarna.

A un tratto, come in una folata umida e calda, mi giunge il lembo d’un crescendo accompagnato da grandi colpi di timpano.

I colpi si ripercotono nella mia nuca e nel mio petto, con un dolore che mi fa gemere e stridere.

I visi acuti si chinano su me per ascoltare il mio sangue che sibila e che romba.

Ora sono dall’attenzione così affilati che mi tagliano.


È buio. È notte fosca.

Gli anelli di Saturno, gli anelli di tutti i pianeti inanellati, ròtano nell’immensità del mio occhio morto.

Entra una creatura viva.

Non so chi sia.

Si ferma presso la sponda del letto. Non parla.

Dal suo respiro sento che ha la testa china.

Aspetta che uno dei miei anelli funesti la cinga?

Quanto pesa l’aureola!


Questo fiotto verde, che sgorga a quando a quando dal fondo dell'occhio e si spande in larghi cerchi molli, mi rammenta il mio orto della Versilia arenoso.

Scendeva la sera dall’Alpe apuana, camminando coi piedi nudi su la polvere del marmo segato e inazzurrando la pesta.

Ero stanco, dopo un intero giorno di lavoro difficile. M’ero steso nella mia branda disciplinare. La prima falda di cenere già copriva il fuoco del mio cervello chiuso.

Non sapevo di dove pendesse quella pausa divina che precede sul Tirreno il levarsi della brezza; e m’avveniva di confonderla col mio medesimo sollievo.

Non udivo più il respiro virgineo dei mare, né quello della mia poesia.

Ma, profittando del silenzio, una raganella prese un filo d’avena e montò sopra una saggina; e lì si mise a far le sue prove.

Vedevo tra i cigli socchiusi la finestra a poco a poco verdicare come se l’orto sottoposto vi si rispecchiasse.

E la voce della raganella si assicurò e afforzò, così che la saggina brandiva sotto la cadenza del pieno canto.

E il mare s’avvicinava scivolando senza rumore sopra la spiaggia sottile.

E vedevo di sotto le pàlpebre gravi la finestra inverdirsi come l’acqua dei fondi.

E la raganella beveva con quel filo d’avena tutto il verde della Versilia, e lo rendeva in canto al mio sopore.

E il mare scorreva senza schiuma su la sabbia levigata. S’approssimava. Era già sotto la siepe di canne. Penetrava per gli interstizii. Si lasciava pettinare, come una capellatura liscia, da quel pettine di canne argute.

E il canto della raganella, giunto al più alto grado del verde, si ruppe in garrito e tacque di sùbito, senza oscillazione.

Allora la finestra cominciò a impallidire.

Una forma indistinta e tacita, simile alla seppia con il suo sacco e i suoi tentoni, apparve nel vano e versò un gran fiotto verde che si diffuse fino al fondo della mia stanchezza addormentandola.


Mi pare di scrivere con quell’inchiostro il mio sogno che torna.



È venuto Guido Po. Pareva che avesse tuttora dietro di sé i filoni della grande scìa.

È venuto da Chioggia con la sua torpediniera, a una velocità di trenta miglia. Aveva al traverso il mare lungo di scirocco. La silurante suscitava una schiuma mille volte più splendida di quella da cui nacque la Voluttà dei mortali e degli immortali. Dal vertice, al tagliamare nel centro della prodiera, nasceva in ogni attimo qualcosa di più bello e di più giovine: un cuore d’eroe marino.


«Quattro, tre, zero!»

Chi ha parlato ne! portavoce?

Riconosco l’accento toscano di Piero Orsini.

«A dritta un po’! Uno, zero, zero.»

Ho nell’orecchio il soffio vivo. I comandi mi risuonano nel cranio come nella canna del portavoce.

«Il Fuciliere è di prua per rombo settantaquattro magnetico.»


Lasciatemi respirare! Lasciatemi bevere il vento, fiutare il rischio, spegnere nella mia ansia le faville e le stelle! Lasciatemi rivivere il silenzio la vittoria e la notte!

Non sono rovescio sul mio letto di miseria. Sono diritto sul ponte dell’Impavido; e io e il cacciatorpediniere e tutto l’equipaggio abbiamo il medesimo nome verace.


Il mare s’incupisce; ma nella sua palpitazione accelerata si sente già la fosforescenza notturna.

L’increspamento luccica qua e là, d’una luce interiore, come una pàlpebra che batta e lasci sfuggire uno sguardo misterioso.

La luna nuova è come un pugno di solfo che bruci. A tratti a tratti la nuvola nera del fumaiolo la nasconde, oppure sembra trasportarla come una favilla fugace nella sua voluta.

La vita non è un’astrazione di aspetti e di eventi, ma è una specie di sensualità diffusa, una conoscenza offerta a tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare, da palpare, da mangiare.

Io sento tutte le cose prossime ai miei sensi, come il pescatore che va a piedi nudi sul lido scoperto dal riflusso e si china a ogni tratto per riconoscere e raccogliere quel che gli si muove sotto le piante.

Nulla sfugge agli occhi senza tregua attentissimi che la natura mi ha dati, e tutto m’è alimento e aumento. Una tal sete di vivere è simile al bisogno di morire e di eternarsi.

La morte è infatti presente come la vita, è calda come la vita, è bella come la vita, inebriante, promettitrice, trasfiguratrice.

Sto diritto, sopra i miei due piedi calzati di scarpe leggère che facilmente si slacciano, sto diritto sopra il ponte di questa piccola nave da battaglia, dove non c’è posto che per l’arme e per il combattente.

Le macchine sono già sotto pressione. Il nuvolo nero dei tre fumaiuoli monta verso la dolce luna novella, che vi splende gialla per entro bruciando come un pugno di solfo.

I marinai hanno già intorno al torace il salvagente e hanno già gonfiato il collare che deve sostenere la testa nell’agonia del naufragio.

Odo la voce del secondo che ordina di mettere nei due soli canotti di salvataggio la galletta e la carne in conserva.

Un giovine ufficiale, nervoso e pieghevole come un leopardo, che ha gli occhi stessi dell’audacia, per aver compiuta una manovra ammirabile nel condurre il cacciatorpediniere dall’Arsenale al luogo d’ormeggio, paga lo sciampagna ai suoi camerati.

Beviamo una coppa nel quadrato, seduti intorno alla tavola dov’è stesa la carta marina, mentre il comandante della squadriglia in piedi detta al dattilografo l’ordine dell’operazione notturna, per rimetterlo ai comandi delle altre navi.

Un’allegrezza contenuta brilla in tutti gli occhi. L’operazione è pericolosa, difficilissima; e quella può essere l’ultima coppa.

Andiamo a sbarrare con sessanta torpedini la baia di Panzano, tra la Punta Sdobba e Santa Croce. Ognuna delle sei siluranti porta dieci torpedini regolate per tre metri e mezzo. Ognuna ha contro la sua sorte i proiettori e le batterie della costa nemica, l’attacco delle navi nemiche, l’urto su le mine, le mine impigliate nell’elica, l’investimento nel bassofondo.

Un guardiamarina che è quasi un fanciullo, un siciliano che sembra un adolescente arabo educato alla Corte di Federico di Svevia, stropiccia fra le sue dita brune una foglia odorosa, una foglia d’una di quelle erbe che crescono in un vaso di terracotta su i davanzali delle finestre nei campielli solitarii. L’odore è così forte che ciascuno di noi lo fiuta, con le nari palpitanti.

Quella sola foglia, su quella tremenda nave di battaglia dove tutto è ferro e fuoco, quella foglia d’amore ci sembra infinitamente preziosa ed evoca nel nostro spirito i giardini abbandonati della Giudecca e delle Fondamente nuove.

Il comandante séguita a dettare l’ordine dell’operazione, con la sua bella pronunzia toscana, con la sua schietta lingua che è quella stessa dell’epistola che Ramondo d’Amaretto Mannelli mandò a Lionardo Strozzi quando i Genovesi furono rotti dall’Armata dei Veneziani e dei Fiorentini.

Si tratta d’un meraviglioso gioco, che durerà fino all’alba.

Il guardiamarina ha messo tra i suoi denti bianchi la sua foglia odorosa, mentre si lega intorno al collo il collare nero che poi gonfierà col suo fiato.


Siamo pronti. Si salpa.

Il cielo sul nostro capo è pieno di fumo e di faville.

Lungo il bordo, dall’una e dall’altra banda, le enormi torpedini nelle loro gabbie di ferro riposano sopra le selle sporgenti verso l’acqua.

I lunghi siluri sono volti all’offesa, protetti dai loro tubi, con le loro teste di bronzo cariche di tritòlo, simili a bestie in agguato.

I marinai con in capo le cuffie stanno aggruppati presso i cannoni dalla culatta aperta.

Tutto lo spazio è ingombro d’armi, di congegni e d’uomini vigilanti. Per andare da poppa a prua, bisogna strisciare, curvarsi, passare sotto un siluro untuoso, scavalcare un marinaio disteso, urtare lo stinco contro il legamento d’una torpedine, schiacciarsi contro un fumaiolo scottante, impigliarsi in una corda, ricevere uno spruzzo di schiuma nell’appoggiarsi a una battagliuola.

Salgo sul ponte di comando. Siamo già usciti dall’ancoraggio. È notte. La luna tramonta sul mare. Fra un’ora sarà scomparsa.

Il grande fremito delle macchine scuote tutta la nave.! fumaioli danno ancóra troppo fumo e troppe faville. A bordo sono spente tutte le luci, anche le sigarette. Da poppa a prua l’oscurità è eguale. Il silenzio è imposto. L’equipaggio è taciturno.

Gli ultimi comandi dati col megafono risuonano in un azzurro cosparso di faville, e di stelle che sono faville inestinguibili.

Una leggera foschìa sale dalle immense acque. La scìa biancheggia, e l'onda prodiera si riversa in due filoni pei fianchi, dando di tratto in tratto strani bagliori. Nel solco si vede nereggiare il cacciatorpediniere che segue, e via via tutti gli altri in linea.

Quando si fa un’accostata, dalla grande scìa mediana si partono le scìe oblique e danno imagine d’uno smisurato rastrello d’argento.

Piero Orsini è contro il parapetto, proteso verso la notte, con tutta l’anima negli occhi scrutatori. Volge a quando a quando il suo viso rossastro, ove il bianco degli occhi lionati è venato di sangue; e trasmette il suo comando con un accento preciso e reciso.

Il timoniere sta alla rota del timone, senza mai distogliere lo sguardo dalla bussola illuminata dalla lampadina nella sua chiesuola; ed è certo un uomo della più pura stirpe tirrena, un vero compagno d’Ulisse, con un viso che par modellato dal vento di fortuna.

Presso di lui stanno i telegrafi di macchina coi cristalli rischiarati: Mezza forza! Tutta forza! Adagio! Ferma!

Il portavoce trasmette il comando alle macchine.

«Quattro, tre, zero!»

Andiamo a ventitre miglia. Il fervore della grande scìa riluce sotto i fanaletti di poppa.

«A dritta un po’!»

L’ufficiale di rotta è curvo su la carta fermata da pesi di piombo foderati di tela, intentissimo a misurare, a calcolare, col rapportatore, con la parallela, col compasso, con la gomma, nella luce violetta della lampadina coperchiata.

Una grande stella filante traversa il cielo d’agosto e si spegne all’altezza della Capella.

L’impazienza mi morde li cuore.

Aguzzo la vista per scoprire in fondo all’oscurità il segnale di terra che fu convenuto. Non si vede ancora nulla.

Scendo per le due scalette, e vado verso poppa, lungo la fila delle torpedini, scavalcando i marinai accosciati. Da poppa si scorgono le masse cupe degli altri cacciatorpediniere in linea.

Ecco, a un tratto, il segnale, in direzione di prua. Ci avviciniamo al luogo dell’azione. Tutte le volontà si tendono. Ci dev’essere stanotte Luigi Rizzo alla Mula di Muggia.

«Di prua si vede il fanaletto di Muggia. Lo vedete?»

«Sì» rispondono i megafoni neri nel nero.

E, dove quel sì suona, tutto il mare è di Dante.

«Proseguite secondo le rotte e gli intervalli stabiliti, a miglia otto sino al traverso del canale, e poi a miglia sei.»

Le prue mi fendono il cuore stellato.

«Uno, due, zero!»

Si riduce la velocità a sei sole miglia.

I fumaioli gettano troppo fumo, troppe faville. Piero Orsini si arrovella.

I comandi sono tuttavia dati col megafono. Ogni parola gridata sembra addensare il pericolo nell’aria avventurosa.

La manovra è eseguita con una specie di esattezza ritmica. Tutte le navi, a una a una, conservando la distanza, passano a tribordo della nostra, nere sopra la scìa che biancheggia e a quando a quando arde di fosforescenza improvvisa.

«Raggiunta la rotta di sbarramento per levante, spegnere il fanaletto di poppa!» grida il megafono.

Si vede la costa rischiarata dai proiettori del nemico. Si naviga in acque basse, riducendo ancor più la velocità.´

«Uno, zero, zero!»

Si striscia quasi sul fondo, si naviga quasi a tastoni; si scandaglia continuamente per evitare di arrenarsi.

Le navi sembrano ansare, soffiare, angosciate come i grandi cetacei in pericolo di dare in secco.

«Macchina indietro! Tutta forza!»

Il Fuciliere sente di non manovrar più, di avere investito nella melma; e cerca di disincagliarsi.

È di prua, a portata di voce. Vediamo l’acqua luccicare al lume azzurro dei suoi fanaletti di poppa. Ci sembra che tutte ora sieno in pericolo e in angoscia. Il cielo è velato. Lunghe capigliature medusée di nubi traggono le costellazioni come le reti traggono la pésca argentina. Le macchine ansano. Siamo a tocca e non tocca.

Piero Orsini è là, vigile, tutt’anima, occhio che vince la notte. Se in quel momento ci avvistasse il nemico, con qual sorte accetteremmo la battaglia?

«Il Fuciliere è di prua, per rombo magnetico settantaquattro!»

I suoi comandi netti, di manovra in manovra, riconducono la squadriglia nella buona rotta, fuor della seccagna.


Vedo i proiettori nemici incrociarsi, laggiù, nella terra ferma, come lunghe spade di luce bianca. Sul chiarore la costa si disegna così vicina che sembra andiamo a ormeggiarci.

Siamo tutti tesi nell’attenzione e nell’aspettazione. Fra pochi minuti saremo nel punto destinato allo sbarramento. E i minuti sembrano ore.

Abbiamo levato i turaccioli di gomma dai pulsanti. Le torpedini, su le loro selle, sono pronte a scendere in mare. I marinai in piedi attendono il comando.

Gli ultimi minuti non passano mai. Possiamo essere scoperti d’attimo in attimo. La costa non è distante più d’un miglio. Sempre i fumaioli sono la nostra disperazione: fanno troppo fumo e troppe scintille.

Finalmente si ode l’avviso, dal ponte di comando.

«Attenti!»

Il tenente guarda l’orologio rischiarando il quadrante con la lampadina nascosta nella palma della mano da cui traspare un bagliore sanguigno.

Le enormi torpedini, dalla testa carica di distruzione, grigiastre come gigantesche meduse marine solidificate, sono là, silenziose, immobili.

Il doppio dente di ciascuna sella sporge sul filone dell’onda prodiera.

«Attenti!»

«Fondo!»

La prima torpedine rotola con un rumore di botte che si sfasci; e piomba nel mare schiumante, sparisce.

«Attenti!»

«Fondo!»

Sono passati diciotto secondi; e l’altra torpedine precipita anch’essa, poi la terza, poi la quarta, e via via tutte le altre, da tutte le navi che obliquano in un’accostata sapiente.

In tre minuti l’operazione è compiuta, lo sbarramento è fatto, nel preciso luogo assegnato.

I denti dei marinai brillano nel sorriso selvaggio. Ciascuno d’essi vede nel suo cuore squarciarsi la corazzata nemica.

«Quattro, tre, zero!»

Riprendiamo la testa di linea, ritornando su la rotta con la velocità iniziale. Le navi sembrano palpitanti d’allegrezza guerriera.

Lontano, su la terra ferma, le spade bianche dei proiettori continuano a incrociarsi. Qualche razzo scoppia. La nostra scìa è così bella che sembra una Via lattea tumultuosa.

Un marinaio sale al ponte di comando, e mi porta una tazza di caffé caldissimo, che già col profumo mi delizia le nari e i precordii. È il nepente navale.

Accendiamo le sigarette. Sembra che nel fumo ritorni l’odore di quella foglia stropicciata dal giovinetto saraceno fra le sue dita brunicce e si svolga il sogno dei giardini abbandonati su le rive corrose della Giudecca e delle Fondamente nuove.

Arriva un radiotelegramma di Umberto Cagni dall’incrociatore Pisa.

«Attenzione! Due sottomarini sono in agguato su la rotta di sicurezza.»

E respiriamo di nuovo il pericolo e la morte a pieni polmoni, nel primo brivido dell’alba.


Lasciatemi vedere l’alba! Non mi farà male. Spalancate la finestra! Soffoco.

Il sole nella foschìa era di color d’arancia, simile al plenilunio sul nascere. Le sei navi manovravano per rapide accostate. Le scìe parevano disegnare su l’acqua strumenti vasti per le mie nuove musiche.

Scomparso era il mistero notturno con le faville e con le stelle. Appariva il rude cacciatorpediniere di battaglia, con i suoi tre fumaioli, con i suoi quattro siluri, con le sue selle vuote sporgenti da bordo, con i suoi marinai distesi in riposo a occhi aperti.

Andammo alla fonda in Malamocco.

A Malamocco incontrammo un convoglio carico di feriti. Così fu per noi celebrata la messa. Il sacerdote invisibile innalzò l’ostia e il calice.

E tutto il mattino ebbe il colore delle piaghe e il sapore del sangue.



È venuto Umberto Cagni.

Di dove? Dal ponte del suo snello incrociatore? da quella camera balconata di poppa dove andavo tante volte con Giuseppe Miraglia per studiare su le carte marine la rotta della scorta mentre nell’occhio acciarito dell’eroe libico brillava la tentazione del «colpo di soprassalto» alla costa dalmatica?

O mi torna egli dal fondo d’una canzone della Gesta d’oltremare? o mi risorge egli dall’acredine di quella mia lontana invidia disperata?

E come non renderò io grazie al mio dio?

Il mio eroe celebrato nella mia terza rima è al mio capezzale. È vivente. Si china su me. Mi sfiora con la mano a cui manca la falange congelata nel Deserto artico. Non visita il poeta ma l’uomo di guerra, non l’encomiaste ma il compagno.

L’aquila immortale della canzone mi rimorde il fegato intossicato.

«Siediti, Cagni. Pensa che ritrovi qui il buio che c’era ai pozzi di Bu-Meliana, in quella notte d’ottobre. T’aspettavo. Ho perduto anch’io l’occhio destro, come il tuo Lazaro Mocenigo alla battaglia nelle acque di Scio contro il bassà Kenaan. Ma, se nel buio io vedo luccicare i tuoi occhi ferini, tu certo vedi ora splendere la mia benda. Tu mi porti un’altra vista. Spero che anche a me l’occhio manco mi divenga «il freddo astro di tutti gli ardimenti». Mi leverò e ricombatterò. Così voglio. Ci mettesti due ore a tagliarti l’osso del dito con quel paio di forbici atroci che fecero scappare fuori della tenda Simone Canepa. Ebbene, io l’ho qui sotto il mio guanciale, quel tuo paio di forbici.»

La sua presenza è leggera. Il suo passo è leggero, i suoi gesti sono leggeri. La sua gentilezza affettuosa è intenta a non turbare l’aria quieta intorno alla mia inquietudine. La mia stessa infermiera non è cauta come questo brusco uomo di guerra. Penso al mio modo di trattare i marinai feriti, nell’Isola Morosina, che sembrava non sentissero male quando io li movevo sopra le tavole fangose che servivano di barelle.

Tuttavia questa sua gentilezza mi fortifica, simile a certe bevande leni che accendono il sangue.

Fabbrico dentro di me quell’acciaio che avrei voluto martellare quando traevo le mie dieci canzoni dalla «fornace imperterrita».

Su, fuoco, travaglia! — Gloria, fiammeggia! Su, cantor di genti, — con la vittoria a gara!

Lo scontento e il corruccio degli anni imbelli, degli anni d’onta, mi s’illuminano come una aspettazione necessaria alla pienezza del compimento.

Rivivo in un attimo il compatto dolore dell’Ultima canzone. Riodo latrare nel sogno della duna oceanica i cani sardeschi, i mastini di Fonni, i veltri del Monte Spada. Rivedo la «schiera quadrata», che ha seppellito a Tobras i suoi morti, salire senza di me su pel sabbione impervio, senza di me andare verso «l’alba certa», andare incontro al certo destino senza colui che aveva creduto «essere il messo della nova vita e della nova gloria il primo nato».

Tutto è sogno.

Come e dove ho io raggiunto la schiera quadrata, e me ne son fatto capo, e irresistibilmente l’ho condotta «all’acquisto supremo»?

Ed è oggi dietro di me o è davanti a me l’ombra lunga dall’Eroe primogenito?

E non è vero dunque che sul limite della vecchiezza io sia rinato Principe della Gioventù eletto dai miei compagni della razza di Mario Bianco?

E non è vero che, per guidarli, «d’un più alto e puro fuoco» io mi sia riacceso in me stesso?

E non è vero che io li abbia guidati, non è vero che io sia per guidarli nel cielo nel mare e nella terra e in ogni più gran rischio obbedienti?

Ave, Giovine. Gloria a te nei cieli, — gloria nei mari, gloria su la terra!

Tutto è sogno, e fato occulto, e predisposizione di volontà.


L’urgenza dell’intima forza mi slega. Gli urti del cuore mi sfondano il petto. Gli urti della nuca mi stirano la benda.

Con un sobbalzo repentino mi sollevo sul letto, mi strappo le fasce, ansando d’un affanno aspro come il singulto.

«Non posso più stare qui. Non voglio. Aiutami, Cagni. Portami fuori. Salvami.»

Sgomento egli mi sostiene col suo braccio, mi regge il capo con una mano; cerca di persuadermi, di placarmi, di riadagiarmi nella mia miseria.

«Ti prego! Ti prego, amico mio, compagno mio! Non posso guarire. Non debbo guarire. Toglimi da questo supplizio inutile. Aiutami a liberarmi da questo inganno, da questa congiura. Salvami.»

Egli è sbigottito. Entra in lui la mia angoscia e lo confonde.

Brancolo. Riesco ad accendere la lampada azzurra a capo del letto. Vedo illividito dalla luce lùgubre il mio fratello della mia medesima età. Ed egli mi vede sbendato, con l’occhio gonfio e lacrimante, con quella faccia contraffatta che l’altro giorno conobbi nel piccolo specchio rotondo del dottore.

L’infermiera sopraggiunge. La volontà di rivolta mi si fiacca sotto le mani pietose che troppo tremano. Tutta la forza mi si scioglie in sudore perfido. Il sudore le lacrime e l’umidità della compressa ammolliscono il mio cruccio, afflosciscono la mia tristezza e tutto me. Non chiedo più nulla, non valgo più nulla.

Dove sono le forbici della feroce pazienza? Lassù, lassù, in una lontananza insuperabile, sotto la tenda polare, fra i resti del povero cane scoiato.



L’Ammiraglio mi parla dell’Isola Morosina come d’una grande nave da battaglia ancorata davanti alla costa nemica. Egli sa quel che io feci, coi marinai, nell’ottobre del 1915.

E anche una volta tutto diviene presente e vivente, tutto palpita e sanguina. Si partono dalla sponda del mio letto le passerelle di tavole posate sul fango; e mettono il muso nel mio guanciale come nella sacchetta da biada i maremmani villosi dei due cavalleggeri che guardano i fili dei telefono.

Vedo risfavillare gli occhi felini dei giovani tenenti di vascello che divorano la minestra grossa, mentre nella baracca della mensa io porto l’ordine di cominciare il tiro a mezzogiorno.

Ora cammino con quell’ardente allegrezza per la viottola, sopra i mattoni messi a far ponte nella belletta.

Ora salgo per la torre di legno simile a quella di una pagoda, nascosta nella gran fronda della quercia.

I marinai gridano da tutti i loro denti abbaglianti.

Vedo la Sdobba e il Quaranta cerulei, la corona nevata dei monti, un lembo del Bosco Cappuccio, e Ronchi, e Doberdò, e la macchia di Monfalcone, e i fumaioli, e la Rocca, e Duino, e la smotta rossa di Sistiana, e Miramar, e Barcola, e Trieste laggiù come una forma di luce, come mi apparve la prima volta dall’alto fra i tiranti dell’ala, tutta lieve e raccolta, quasi pudica.

Una libellula trasparente si posa sopra una foglia di quercia. Un’allodola si spazia cantando e non si sazia.

Odo tra gli alberi già malati d’autunno le voci dei marinai e delle cornacchie.

Un gabbiano brilla nell’aria come un idròttero da caccia.

I pioppi d’oro digradanti mi rapiscono musicalmente come uno sminuire di arpa.

«Pezzo uno, attenti! Castagnola, fuoco!»

È il primo colpo. La sinfonia comincia. Tutte le valli rombano. La batteria Gazzola tira sul castello di Duino, dove nel tempo degli ozii e dei giochi vissi nei giorni di delizia.

Gazzola spara dal ponte che sta contro la riva sinistra nascosto da fascine e da frasche.

Vedo la granata scoppiare al limite del bosco.

Che è questo clamore?

Per tutta la riva il megafono trasmette l’ordine del giorno che il Duca d’Aosta invia ai marinai.

La sinfonia cresce. Gazzola tira. Buraggi tira. Il sole mangia il fumo giallastro. Il clamore si propaga per tutte le batterie. Ogni pausa è riempita dal trillo ebro dell’allodola. Ma a poco a poco anche l’aria doventa di metallo.

«Pezzo quattro, attenti! Castagnola, fuoco! Pezzo quattro, fuoco!»

Piccolo, biondiccio, coi baffi tagliati a spazzola sul labbro sporgente, l’ufficiale calcola sopra un quaderno i dati di puntamento.

«Pezzo uno, direzione 1454, elevazione 345.»

Gli sta accanto un timoniere dalle quadrate spalle, sempre col microfono all’orecchio. Ha due larghi occhi bruni venati di sangue come quelli di un corsiere soriano. Ha barba corta e focosa, narici aperte, soffio veemente. Par stampato nel vecchio stampo nostro del partigiano furibondo di parte nera o bianca. E male origlia chino a quel vano arnese.

Dice: «Sdobba domanda se è B1 o B2.»

Meglio direbbe: «Togli, Dio, che a te le squadro

La grande bùccina di metallo, sporcata di verde, è appesa al ramo. Uomini e cose, siamo tutti inverditi come la quercia che ci nasconde.

«Pezzo due, direzione 1402, elevazione 230.»

Il colpo va in mare, corto. Di là dalla linea d’acqua le case di San Giovanni appaiono tranquille nel sole d’ottobre, intorno al campanile.

Buraggi spara su le case di San Giovanni per regolare il tiro. Anche il quarto colpo è corto. È finita la serie.

Il marinaio Uroni ha il polmone traforato da una scheggia mentre sta riallacciando un filo telefonico. Non si lascia cadere indietro. Rimane ritto su le due gambe, e contiene coi denti serrati il vomito di sangue. Quando il cómpito è fatto, stramazza, mentre pel filo riallacciato passa il comando.

Ricomincia la serie.


Marinai! Marinai!

È la mia voce, la mia voce di compagno, che squilla nell’ombra degli alberi folti e bassi dove la sera fluviale blandisce le baracchette di legno come se fossero le capanne della felicità.

Ora questo fiume è fatto più misterioso che il Timavo fulminato, laggiù, dove si lavò il cavallo schiumante del Dioscuro. Una banda di luce rossa arresta le nuvole fuggiasche. I cannoni sono roventi, sporcati di verde anch’essi, sopra i pontoni coperti di frasche. Mi scottano la mano.

Dentro questo pontone ridormirò stanotte con un occhio solo, tra le munizioni e i sacchi, nella cuccetta stretta come le quattro assi del nero falegname.

Bruciatemi il mio letto d’ospedale!

Chiamatemi i marinai, che vengano a formare le righe in questo spiazzo che pare una velma di laguna ed è a centomila cùbiti sopra la vita di ieri.

Marinai! Marinai!

Tutta l’ombra è una conca ritorta per ingrandire la mia voce.

Mi sembra di distribuire una bevanda cordiale alla fatica e alla febbre.

Sento nella mia pelle d’uomo i cannoni che si freddano a poco a poco.

Nell’ombra la forza compatta è grigia come il ferro nuovo; ma la gentilezza mostra nel sorriso i denti puerili.

Chi mai è stanco?

Andiamo al rifornimento delle munizioni, figliuoli. Il tiro è finito. E ricomincia il tiro.

I pontoni stanno acquattati come il bévero «ch’è bestia e pesce». Nel silenzio che sa d’acqua, si freddano i cannoni e respirano dalla culatta aperta.

I marinai passano in fila, con la granata su l’òmero, nella bella sera belli come i portatori attici di vasi sacri.


Chi non teme la morte, non muore. E la morte non vuole chi la cerca.

Stavo addossato al parapetto del Pezzo tre. Mi sono mosso per allontanarmi dalla batteria e risalire all’osservatorio arboreo.

Una granata austriaca scoppia sul parapetto del Pezzo tre. Quattro feriti.

M’aveva preso per mano mia madre?

Accorro. Mi pare ch’ella non mi lasci la mano. Sa che sta per udire dal sangue l’accento di Ortona, l’accento del suo paese.

Incontriamo un marinaio che porta una manica del sottocapo cannoniere listata di rosso e l’orologio del polso con la sua stringa di cuoio in brandelli. Un rugghio lungo riga l’azzurro sul nostro capo. La passerella è spruzzata di sangue. È una tavola? È un tizzo che sfavilla.

Ma le barelle non sono se non tavole, non sono se non tavole fangose.

E dove pigliamo le fasce? e dove pigliamo i medicinali?

L’eroe nudato si leva novamente dalla creta umana. Si rifoggia nel fango dell’origine.

«Perché la batteria non tira più?»

Quale ansia sgorga così dal corpo squarciato?

C’è un corpo convulso e sanguinoso; e in tutto quello strazio palpitante c’è un orecchio vigile, c’è un apice d’anima che ascolta e anela.

Giuseppe Maggiora non pensa se non all’arme sua. Vuole udire il tuono dell’arme sua. Il sangue gli cola dal naso nella bocca smaniosa.

«Or è quattr’anni, il 18 d’ottobre, comandante, eravamo a Bengasi. Se ne ricorda?»

Questa è la prima parola ch’egli dice a Buraggi quando lo vede: ricordo di guerra, ricordo di vittoria, scorcio eroico del tempo e dell’animo tra due sorti.

E ricomincia a smaniare per il suo pezzo che s’è ammutolito. Vuol ritornare al pezzo. Stroncato, vuole rialzarsi per ricombattere. Tenta di levare la mano intrisa, per minacciar vendetta.

«La batteria non tira più!»

O mio Maggiora, dove sei? Sei alla Mandria? sei alla Veneria reale?

Ricominci a vivere e ad ardere?

E perché stasera non sei al mio capezzale come io ero al tuo, in quella notte di ottobre, in quell’ospedale numero 71 dell’Isola Morosina?

Te ne ricordi?

Non volevi mai cessare di dirmi la tua gratitudine, a me che mi sforzavo di non cadere in ginocchio e di non baciarti le mani.

E c’era, lì accanto, il sottocapo Corsani; che anch’egli, come te, pensava sempre ai suoi pezzi. E gli avevano portato via l’occhio destro dall’orbita. Ed era bendato come sono io ora. Ed era così sereno e così dolce che ora mi fa vergognare.

Te ne ricordi?

E c’era anche Uroni, quello del filo; ed era in pericolo, e non pensava che alla batteria, e si raccomandava e supplicava per ritornarci; e piangeva di rammarico, e prometteva d’essere migliore, e non sapeva d’essere sublime.

E non lo sapevi neppur tu, di te, o mio Maggiora.

E, quando escii da quell’ospedaletto da campo su l’Ausa, col mio occhio destro perduto, pensai nella mia tristezza selvaggia a quei pochi che avrebbero pianto. Pensai a Corsani, che avrebbe pianto. Pensai a te, che avresti pianto.

E stasera quanto mi sarebbe dolce avervi tutt’e due, uno da una parte e uno dall’altra, al mio capezzale!


Anche un altro avrebbe pianto, forse di più: Giovanni Federico, il marinaio della terra di mia madre, il marinaio di Ortona.

Ma non ha più se non le sue occhiaie d’osso, là nel piccolo cimitero dell’Isola, dove avevo promesso di porgli una pietra scolpita in memoria e non gliel’ho posta ancora.

Stasera io lo raccolgo un’altra volta, lo stendo un’altra volta su quella tavola rozza ricoperta dal mio mantello di cavaliere. E anche stasera mia madre è con me, e m’aiuta.

Il più bel sorriso umano è il sorriso che luccica su i lembi lacerati del dolore inumano.

E quale Maria ebbe mai il viso di costei che si china?

Giovanni è ferito all’addome, è ferito alle reni, è ferito al costato. E da che banda lo poseremo noi?

Se lo mettiamo bocconi, non grida. Se lo mettiamo supino, non grida. Eppure il suo strazio fende anche la tavola morta. Sono inginocchiato nel fango. E nello spasimo silenzioso egli punta i piedi contro la mia coscia. E io serro le mascelle.

Ha i piedi nudi. È mezzo denudato. Ritorna alla culla. Ritorna alla razza.

Sono della sua razza; e soffro il suo dolore con una vastità smisurata che non so dire, da tutta quanta l’infanzia a tutta quanta la vecchiezza, e per tutti i fiumi dalle sorgenti alle foci, e per tutte le montagne dalle radici ai vertici.

La sua povera carne è la mia povera carne. La sua costanza nel patire è la costanza di mia madre e della mia gente.

È là bocconi. È stroncato. Ha vent’anni.

È là steso come quegli animali che il beccaio squarta sul banco del macello. Tanto la sua anima è divina quanto il suo corpo è bruto. Non è coperto se non dai brandelli della sua camicia rozza; e le pudende palesate, i segni del sesso, aumentano il ribrezzo e la miseria e l’innocenza e la compassione e il sentimento sacro della genitura che si spezza.

Ha la faccia imberbe rivolta dalla mia parte, e da me non distoglie mai lo sguardo. Mi beve. Beve da me una pietà che gli torna dall’altare della chiesa dove fu battezzato e cresimato.

Mia madre per la mia bocca gli parla come gli parlava sua madre.

E il più lieve dei suoi sorrisi infantili appare all’estremità del suo strazio.



Musiche incomparabili della guerra divina!

L’eroismo, il sangue, la morte, la carità, la speranza mi avevano messo in stato di grazia per ricevere e prolungare la melodia inaudita.

Che m’era mai, al paragone, il sentimento musicale che nel quadro di Tiziano digrada le canne dell’organo portatile e gli alberi nobili del giardino in distanze simmetriche misti alle fonti?

Nessun organo massimo di cattedrale riempì dei suoi tuoni la navata come quel gran viale di pioppi silenzioso riempiva la mia anima.

Altri nervi e tendini e fibre s’erano rotti nel separarmi dai feriti e dal moribondo. M’ero mal lavato, e avevo ancóra il sangue dentro le unghie come l’avevo su i panni.

O Isola Morosina, tutta flava d’erbe e cèsia di stagni, eguale alla più chiara figliuola di San Marco, supina verso il vespero di ottobre, io ho lasciato in te il più profondo mistero della mia passione, ho lasciato in te il più segreto polso della mia musica.

Invidio l’umile eroe ventenne della mia stirpe che ha pace in te sotto la sua piccola croce di legno grezzo. Egli forse non ode; ma, se io fossi coricato in quel tumulo di terra fresca che gli feci con la zappa del becchino senza nome, certo udrei perpetuarsi nella mia eternità la melodia dorata dei tuoi pioppi.

C’era un angelo che li numerava? e c’era un angelo che li temperava? e c’era un angelo che li concordava?

Tutt’e tre avevano pel mio amore il volto del moribondo sorridente.



Quanta vita, quanta rossa vita è ancóra in me!

Il mio dolore è pieno di sangue. I miei sogni sono pieni di sangue. Ogni mio pensiero ha un peso di sangue.

Talvolta in me repugnante il mio passato sanguina come un macello ingombro di bestie squartate e appese.

Scrivo la mia passione col sangue. Come il modellatore ha la creta sotto le unghie, io ho sotto le unghie il sangue risecco.

C’è là, su la piccola tavola dei farmachi, tra la fiala gialla dell’atropina e il rotolo delle fasce, la bacinella che rosseggia; e nel rosso brilla un sottile strumento d’acciaio.

Le imposte dell’ultima finestra, laggiù, sono socchiuse.

È il tocco dopo mezzogiorno. Sono solo. La mia gente è al pasto. L’ora trafigge i miei piedi con un chiodo più aguzzo.

Di tratto in tratto un soffio d’aria giunge alla mia benda cieca.

Ho sete. Dianzi Renata aveva nel bianco degli occhi un tremolìo di ruscelli.

La mia gente mangia. Si riconforta.

Un filo vietato di sole entra per le imposte socchiuse. Fa risplendere la bacinella. Entro i margini di porcellana il sangue fresco ha la vivacità d’una rosa di porpora.

Un’ombra lieve passa e ripassa. Un’ombra labile sfiora il catino; si dilegua; ritorna.

La seguo intento. Basta ad agitare la mia malinconia e ad esasperare la mia inquietudine.

È un’ombra di farfalla.



Il buio si raddensa, mentre il cratère dell’occhio riscoppia.

È come una insurrezione subitanea di nuvole affocate, che solleva e inebria un ritmo epico.

È una materia solida e ricca atteggiata come un dolore e un furore di rupi in metamorfosi.

È uno sfondo per un gran gesto che non so.



Tutto riarde. L’alba non ha più rugiade ma faville.

Ecco che incomincia il mattutino degli uccelli.

Da principio è come un cigolìo di tizzi verdi.

Il fuoco s’appiglia, si dilata, divampa.

Il fuoco trilla, cinguetta, garrisce.

Distinguo nel coro acceso un altro suono.

Il suono estraneo cresce di forza. Il canto sembra che ceda.

Indovino la pioggia.

La pioggia scroscia sul canto come sopra un incendio basso di sermenti.

Il canto si divide in strette lingue di fiamma.

A poco a poco la pioggia l’opprime, lo fiacca, lo spegne.

Lo scroscio eguale domina.

La Notte ritorna; poggia i gomiti alla lettiera; si pone su la bocca il suo dito nero, e mi fissa.



Ho sempre sete. I torturatori mi vietano di bere, e continuano ad acciaiarmi con l’iodio la bocca.

Oggi una parola, nel cervello vacuo, il suono d’una parola insistente m’incrudelisce il supplizio, tra imagini liquide e fredde: aloscia.

Credo che fosse una bevanda estiva di limone, di miele e di spezie.



Il dèmone ha riacceso in fondo al mio occhio tutti i fuochi; e soffia sul tristo rogo con tutta la sua follia, come nelle più disperate ore di questo martirizzamento senza remissione.

L’arsura mi riduce tutto il corpo misero in un fastello di stipa al margine della vampa.


Si moltiplica la foglia di felce che m’ho dentro l’occhio; s’alza, s’infolta.

Ecco che sono come quella macchia di felci, color di rame e d’oro, che nella foresta incendiata della Landa vidi non tocca al limite dell’incendio.

La vampa l’aveva sfiorata senza bruciarla. Ed ero pieno di meraviglia e di superstizione nel vedere quella cosa accendibile e lieve su l’orlo del fuoco, intatta. Era pronta a infiammarsi in un attimo, a incenerirsi in un attimo; e la voracità del fuoco l’aveva risparmiata a miracolo.


Chi mi fascia di cenere cocente? L’apice del cuore sfavilla, e traversa la cenere.


Sono la mia cenere e sono la mia fenice. Sono opaco e risfolgoro.


Sopravvivo al rogo, ebro d’immortalità.


Chi m’ha issato sul mio cavallo con una mano tanto imperiosa?

Lo spirito dell’attenzione entra in me come un dio armato di mille occhi.

L’attenzione crea quel ch’ella rimira.

Creo l’ardore.

Il mio intimo fato è questo.

O selva dell’Estremo Occidente! O foresta delle piaghe opime! O esilio della mia virtù lacrimata come la rèsina!


Cavalco attraverso le pinete già arse.

Vo errando per le giovani pinete senza avvenire, sacrificate come i fanciulli di prima scelta nel bronzo arroventato dell’idolo.

Il terreno è caldo e qua e là fumido, nerastro, striato di cenere bianchiccia.

I pini sono foschi, avvampati fino alla cima, senza aghi, con ì soli rami nudi; ma tutti in piedi come ì martiri invitti.

Qualcuno è incarbonito; e il fuoco lavora tuttavia nel tronco mozzo, cerca le radici, mangia sotterra.

Qualcuno ha la sua nerezza coperta da lievi falde di cenere per tutto il fusto scabro.

In ogni tronco vuoto lo zoccolo della mia bestia può affondarsi come in un fodero arroventato. Non allento mai la vigilanza. Sono tutt’occhi e tutto acume. Gli stecchi neri minacciano di forare la suola sparsi come quei triboli di ferro che spedavano le cavallate avversarie.

La cinigia scotta. Sento l’odore dell’unghia abbruciaticcia, come alla porta del maniscalco. Respiro la vampa. Odo un soffiare, un crocchiare, uno sgrigliare intermessi. Grondo e anso.

Chi è quell’uomo, col volto arsicciato, coi panni in fiamme, che si voltola nella sabbia del guardafuoco e urla?


M’avanzo per la landa cenerosa.

Cavalco per la selva fosca, tra cenere e sabbia.

Di quando in quando un turbine tacito solleva la cenere a grande altezza.

Vedo nel cielo muto alzarsi la lunga tromba esile che ondeggia.

M’incanta.

Volgo verso quella il cavallo per osservarla da vicino.

Come mi accosto, si dilegua.

E un’altra sorge più lontano.

E m’incanta.

E m’accosto. E svanisce.

E un’altra sorge ancor più lontano; e un’altra ancóra; e ancóra un’altra.

Vacillano taciturne per l’aria ardente; accennano; si disciolgono, si disperdono.

Sono come le larve degli olocausti.


Varco i fossi; trapasso le larghe vie sabbiose, chiamate guardafuochi nella Landa, che non valsero a preservare le selve contigue. La sabbia v’è mescolata di cenerume e di carbonella trita.

Sotto una frana un groppo di radiche brucia e fuma cigolando, sibilando, crepitando.

Qua e là, in mezzo all’incarbonimento e all’incenerimento, scorgo un filo d’erba secca intatto, una foglia intatta di felce.

Scopro qua e là, su i cigli dei fossi, dov’è giunto l’incendio, un ciuffo d’erba verde, uno stelo carico di piccoli fiori rosei o violetti.

L’anima attonita allude a sé stessa.


Non più larve di cenere, ma colonne di fumo tetre.

E un rombo sinistro, che sembra salire dal cuore della terra.

Per mezzo ai pini arsi incito il cavallo come verso la voragine espiatoria.

Il fàscino serpentino del pericolo mi cerchia il petto.

Il suolo fumiga e sgrìgliola sotto gli zoccoli.

La nube grassa del fumo ingoia le fiamme discoste.

L’agrore della resina mi morde la gola.

Il rombo cresce, mi percote, m’assorda.

Dall’intimo un canto mi scoppia a contrasto quando fra tronco e tronco subitamente appariscono le fiamme vive.

Bellezza del fuoco, mi sei più nuova della primavera, ogni volta.


La moltitudine delle fiamme è schierata in campo, dinanzi a me, come un esercito impenetrabile.

Sopra la stroscia della ragia, sopra il friggìo della resina, sopra gli schianti e gli scoppii, cantano.

Sono schierate in una linea sola che s’avanza, voracissimamente.

Mi mangiano gli occhi, mi mangiano la faccia.

Sono di colore aranciato, che riceve a quando a quando una mescolanza di azzurrognolo, di verdigno, di grigiastro.

S’incupiscono talora come la bragia; abbarbagliano talora come la folgore.

Ogni lor diversità mi turba, come gli sguardi che màgano.

Hanno lasciato dietro di sé la foresta incarbonita e fumigante. Si avanzano in lunghissima catena. Spiegano una fronte di battaglia che si perde nella lontananza addentrandosi nel nuvolo del fumo nero.

La lor violenza è tale che non sembra nascere a fior di terra, là dove lo sterpeto si radica, ma irrompere dal profondo, insorgere dall’abisso, come il vòmito dei cratèri aperti.

Hanno la violenza e la pertinacia, l’impeto e la costanza.

Insegnano a combattere.


Ecco i modi dell’arte ignea.

Assalgono i tronchi tentando prima le radici palesi, le barbe esterne.

Poi strisciano su per le scaglie.

Sembra che pàlpino, sembra che cérchino dove meglio possano mordere.

Si appiccano là dove un ramo fu potato, là dov’è una ferita resinosa, una piaga aromatica; e persistono.

In una pausa del vento, si abbassano.

Ma quella che ha addentato il tronco nel punto vivo, quella non lascia. Resta sola, sospesa, intenta a mordere, intenta a divorare, distaccata dalle altre, sola con la sua fame e con la sua furia, ostinatissima.

Penso, non so perché, a quei combattimenti navali, a quegli abbordaggi e arrembaggi disperati, quando i pugni e le mascelle si afferrano ai bordi delle navi, e le scuri avverse troncano i polsi, mozzano le collòttole; e le mani terribili restano tuttavia abbrancate al legno, le dentature restano conficcate nel legno, mentre i corpi piombano giù e si sommergono.

Così le branche rosse della fiamma, così le fauci rosse della fiamma restano apprese al tronco, separate dal corpo che s’abbassa.

O combattente inerte, ricòrdati del fratello di Eschilo.


Certi tronchi ardono da una sola banda, come se il fuoco rompa da dentro per l’incisione verticale praticata dal resiniere.

Il fuoco è come una bandiera lacera ghindata all’albero.

Ecco, il vento rinforza.

Tutte le bandiere vittoriose sbattono e garriscono, e si lacerano in lembi che svolano.

Una grande raffica salsa giunge dal largo.

Il fuoco balza e rimbalza, sorpassa le cime, investe i pini intieri, li arrossa dalla radice alla vetta, con un fragore di tempesta.

Scaglie di scorza infiammate e pigne ardenti schizzano a gran distanza come i lapilli dei vulcani.

I nidi innumerevoli filati dalle larve dei bruchi infiammandosi vólano a distanza ancor più grande e propagano l’incendio laggiù nella selva sicura.

La resina frigge, sgrìgiola, stroscia. I vaselli d’argilla, bollenti, roventi, traboccanti, saltano, ricascano, scoppiano come le bombe manesche. Ogni raffica dardeggia miriadi d’aghi rossi.

Per entro al fragore una melodia misteriosa si disegna, si allunga, fluisce.

Cantano le Salamandre?

Le fiamme s’involano col fumo sino al cielo. Un turbine di fumo fosco occupa l’aria, assalta il sole.

Vedo il sole attraverso, simile a un disco rossastro che sia per freddarsi.

Non lo vedo più. È ingoiato.

Il vento fa tregua. Il fumo si dirada.

Rivedo il disco. A poco a poco, da rosso diventa fulvo, da fulvo diventa biondo.

Ma nell’ombra l’incendio è più splendido di lui.

Ecco che tutto l’orlo del nuvolo fumido s’imbionda, splendidissimo.

Il sole vince?

Per un attimo risfolgora nell’azzurro, mentre la grande fiamma s’abbatte e striscia.

Ma lassù, in quei nodi alti dei tronchi, la piccola fiamma vige e rode.

Ma lassù, nei tronchi spossati, già abbandonati alla morte, la piccola fiamma pervicace ricerca l’ultima stilla.

E la melodia misteriosa nella pausa dell’assalto si fa più distinta. E chiara come un canto soprano. Mi rapisce di là da ogni ardore.


Cantano le Salamandre?

L’Oceano risoffia le sue raffiche fra duna e duna gagliarde.

Il rombo e lo stroscio soverchiano la voce fatata che scioglie dal male chi arde.

Il rombo e lo stroscio si mutano in mugghio di bùfale, in rugghio di leonesse.

Rinfuriate le fiamme s’avanzano in ordine di battaglia più alte e più spesse.

«A me la selva!» grida il condottiere implacabile che porta il mio viso di guerra. «A me tutta la selva e tutto l’aroma!»

È primo all’assalto; e primo con la sua mano rossa afferra all’irsuto la chioma.

«Uomini, a me! A me, gente della foresta!» grida l’avversario audace che porta il mio viso di guerra.

Il fuoco abbatterà il fuoco, la fiamma ucciderà la fiamma, perché dalle due ceneri ostili sia rifecondata la terra.



Chi è quell’uomo, col volto scottato, con i vestimenti accesi, che si getta contro la sabbia e vi s’addentra come per seppellirsi?

Né si spegne.



A me, uomini! Vecchi, donne, fanciulli, a me! A me tutta la gente della Landa, che ha mani e soffio!

Io guido il controfuoco.


Alla catena delle fiamme è opposta la catena umana. Alla fronte dell’incendio è opposta una fronte contraria.

Il controfuoco divampa.

Con lunghi rami freschi di pino i giovani i vecchi le donne i fanciulli battono la belva rossa per forzarla ad avanzare contro l’altra belva che s’avanza.

Aiuta aiuta!

La fiamma fustigata si ritorce. Le folate del vento rovesciano il fumo su i battitori. Il riverbero sempre più forte arsiccia i cigli i sopraccigli le barbe le vesti. La gola si dissecca, gli occhi lacrimano.

Aiuta aiuta!

Il controfuoco avanza. Il nemico s’approssima. S’ingialla e s’arrossa a volta a volta. Si frange in miriadi; si ricompone; si dissolve; si disgrega. Stroscia, stride, crocchia, cigola, sibila, schianta.

Aiuta aiuta!

Da quali viscere sorge questo urlo di dolore e di terrore, che mi spacca l’anima?

Non è più la voce dell’elemento. È la voce della creatura.

Prese tra il fuoco e il controfuoco le bestie impazzate cercano lo scampo.

Il fuoco le incalza, il controfuoco le serra.

Accecate dal barbaglio còzzano i tronchi già crepitanti nell’afa che cresce.

Per il lungo corridoio torrido del laberinto senza uscita si precipitano mugghiando; e il mugghio lùgubre rompe la soffocazione della fuliggine, in un turbine di scaglie accese e di pigne ardenti.

Aiuta aiuta!

Calpestiamo la bragia, calchiamo i tizzi, inghiottiamo le faville.

Questi battitori ostinati sono una falange di martiri costretti a combattere il fuoco del Signore?

Ciascuno ha di contro a sé dritto un angelo fiammeggiante e mille spade tortuose.

I fanciulli piangono; i vecchi cadono su le ginocchia; le donne ululano come nel parto maligno.

E chi è il Signore di questa battaglia corrusca?

E quale dei secoli profondi questa lotta di fiamme arrossa?

Veggo la grandeva Cibele senza torri e senza leoni.

Veggo la sua veste variegata d’aria d’acqua di terra e di fuoco.

Veggo i suoi portatori di pini, le schiere irsute dei suoi dendròfori somiglianti all’albero sacro.

Chi ulula? Chi rugge? Chi chiama dall’abisso e dal sommo?

Il sole è oscurato.

Il tuono dei Novissimi è questo che dòmina l’urto dei due avversarii ruggenti?

Dove si scontrano, tutto è già divorato. Tutto è nero tizzo e bragia e cenere calda. Non v’è più esca.

Il fuoco muore.

Il fuoco è morto!

Attonito è il dolore, e il terrore ammutisce.

Ma, ecco, un turbine tacito prende la cenere che tuttora sfavilla, e la solleva al nuvolo tetro che si dirada.

Veggo la lunga tromba esile montare, vacillare, lontanare.

È la larva dell’olocausto.







Olocausto, la fresca vittima
biancovestita e altocinta
tende verso il tuo splendore
la mano colma di rugiada
come il calice solitario del vilucchio
che l’alba riempie fino all’orlo.



Olocausto, Olocausto,
ti fu sottratto il cuor dell’uomo,
dove il sangue lottava bogliente
come nella pensile argilla
la rèsina d’oro gemuta.
Ma la mano del rapitore
fu arsa fino all’osso del polso;
e fu espiato l’ardire
e testimoniato il futuro.
Olocausto, Olocausto,
non spegnere nella tua cenere
l’astro dell’immortalità,
ch’era favilla in vetta ai precordii.




È ancóra il turbine fùnebre
che risolleva la cenere morta?
È quel che non muore.
Le tacite larve risalgono
il silenzio del cielo mondato?
Il silenzio attende.
Da quali acque soffia lo spirito
che commove l’esangue deserto?
Son placate le acque.
Che è questo fremito d’ali?
Che è questo baleno di penne?
La specie del Sole.
Che è questo miracolo d’oro
più bello di tutte le fiamme?
L’inno redivivo, o re Lemuel.




Odo cantare le Fenici!
L’ebrietà si precipita
in me come fiumana celeste.
Sento in me il mio dio.


Odo cantare le Fenici
un canto che ha l’odore della mirra
e il giubilo dell’amarezza.
Sento in me il mio dio.

Tutta la cenere è seme,
tutti gli sterpi son germogli,
tutto il deserto è primavera.
Sento in me il mio dio.

Tutta la selva è rinata di palme,
tutta la selva è alta nell’etere, immune
dalla servitù d’ogni peso.
Sento in me il mio dio.

Cantano in vetta alle palme idumèe,
senza piegarle né crollarle,
cantano le Fenici rinate.
Sento in me il mio dio.

O Fenici degli Olocausti,
non dirò la vostra porpora oriente
né il vostro cimiero d’astri ignoti.
Vedo in me il mio dio.


O Fenici degli Olocausti,
non rivelerò la parola votiva
che apre e chiude ogni giro dell’inno.
Servo in me il mio dio.


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