< Novelle (Bandello, 1910) < Parte I
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Novella LV - Un castellano, trovala la moglie in adulterio col suo signore, gli ammazza, ond’egli con molti altri è miserabilmente morto
Parte I - Novella LIV Parte I - Novella LVI

IL BANDELLO

al magnifico signore

il signor

giangirolamo castiglione


Io credo certissimamente che se mille volte il di si ragionasse degli strabocchevoli casi che per l’irregolato amore occorreno e degli errori che gli uomini accecati da la pungente passione de l’ira commettono, che tutto il di alcuna cosa nuova ci sarebbe da raccontare. Onde questi giorni essendo ne la contrada di Brera, nel giardino amenissimo e bello del nostro dottore messer Girolamo Archinto, una buona compagnia di gentili spiriti, e dopo alcuni ragionamenti di cose di lettere essendosi entrato a ragionar dei casi amorosi, il signor Cesare Triulzo, giovine di buone lettere e d’ottimi costumi ornato, la cui conversazione quanto piú è frequentata vie piú diletta e piú si desidera, lasciando sempre piú desiderio di sé ne l’ultimo che nel principio non promette, narrò al proposito di cui si parlava una istorietta piena di compassione e di pietá. E perché mi parve degna di memoria e da porre innanzi agli occhi a coloro che si fanno lecito tutto quello che loro a l’appetito viene, non considerando se bene o male gliene può avvenire, io la scrissi per metterla insieme con l’altre mie novelle, come ho fatto, sotto il vostro nome, sapendo io quanto sempre sin da fanciullo amato m’avete e fattomi tutti quei piaceri che sono stati possibili. Voi in questa novella vederete quanti danni vengono dal non sapersi governare e non voler talora porre il freno a la turbulenta, fervida e precipitosa ira quando ci assale. Non nego giá che la vendetta negli animi fieri non sia cosa dolce e di grandissima sodisfazione, quando regolatamente si fa; ma dico che io mai non vorrei cavarmi un occhio per cacciarne dui di testa al mio nemico, 2 6>4 PARTE PRIMA piacendomi molto più il generoso animo di Giulio Cesare, perpetuo dittatore che fu il primo che partorì l’imperio romano, il quale mai cosa veruna non si smenticava se non l'ingiurie e molto facile era a perdonarle. E veramente se per vendicar la morte del fratello, figliuolo o amico, il morto si potesse ritornare in vita o una ricevuta ingiuria fare che fatta non fosse, io direi che senza rispetto veruno l’uomo devesse vendicarsi. Ma non seguendo nessuna di queste cose, mi par che prima che si venga a giunger male a male, l’uomo deverebbe molto ben discorrere il fine che ne può seguire; e tanto più che essendo cristiani e volendo esser degni di sì glorioso nome, debbiamo esser imitatori dì Cristo che il perdonar ai nemici ci comanda. Ma io non voglio più oltra dire, perciò che a scrivervi non mi mossi per predicare ma per mandarvi questa istoria. State sano. NOVELLA LV Un castellano trovata la moglie in adulterio col suo signore gli ammazza, ond'egli con molti altri è miserabilmente morto. Egli in effetto è gran cosa che ordinariamente il più dei nostri ragionamenti si veggiano cascare a parlar dei casi amorosi, e massimamente quando il nostro vertuoso messer Gian Battista Schiaffenato ci è di compagnia, che sempre ha alcuna bella rima amorosa o epigramma o elegìa de le sue dotte composizioni da recitare. E perché s’è detto che un innamorato mai non deverebbe adirarsi, dico che l’adirarsi in ogni cosa sta male, quando il furor de l’ira adombra il lume de la ragione, perché il più de le volte l’uomo che da l’ira è vinto fa strabocchevoli errori che poi cosi di leggero non si ponno emendare, come in una mia istoria che raccontarvi intendo, apertamente vedrete. Si vuole l’uomo adirare ne le cose mal fatte, ma con temperamento, non lasciando trascorrer la còlerà fuor dei debiti termini. Se mi dirà alcuno che sia cosa più facile a dire che a fare, io lo confesso; ma ben gli ricordo che la vertù consiste circa le cose difficili, e dove ne l’operare è maggior NOVELLA LV 265 difficultà quivi è la gloria maggiore. Ora venendo a la narrazione de la mia novella, devete sapere che non sono molti anni ne la famiglia dei Trinci, al tempo che Braccio Montone e Sforza Attendulo capi de la milizia italiana fiorivano, furono tre fratelli, chiamati il primo Niccolò, Cesare il secondo e l’ultimo Corrado. Tenevano costoro il dominio di Foligno, di Nocera, di Trevio e di molte altre terre nel ducato di Spoleto, e quelle con fra- tevole amore governavano, non si curando altrimenti dividere il nobil e ricco stato. Avvenne che andando assai sovente Niccolò da la città di Foligno a quella di Nocera ed alloggiando sempre in ròcca, egli pose gli occhi a dosso a la moglie del castellano ch’era una giovane molto bella e piena di grazia, e di lei si fieramante s'innamorò che gli pareva non dever vivere se amorosamente quella non godeva. E non avendo riguardo che il castellano a nome di lor tre fratelli guardava la ròcca e che più tosto deveva carezzarlo che offenderlo, diede opera che la donna di questo amore s'accorgesse. Il che in breve ebbe effetto, perciò che ella avvedutasi che il signore la vagheggiava, si tenne da molto più e molto caro l'ebbe, onde se gli scopriva tutta piacevole e ridante e con la coda de l'occhiolino gli mostrava che era disposta a far quanto a quello era a grado. Del che Niccolò ne viveva contentissimo. Ed essendo i dui amanti d’un medesimo volere, non passarono molti giorni che avuta la commodità si trovarono in parte ove presero insieme con gran contentezza amoroso piacere. Piacque mirabilmente a Niccolò la donna, e se di lei era prima innamorato, ora tutto ardeva, e per averne assai più spesso copia, veniva tutto il di a cacciare nei boschi di Nocera che di porci cinghiari ed altri salvaggiumi sono molto abondevoli. Veniva egli a la caccia volentieri, non solamente per goder la bella ed amorevol castellana che era tutto il suo intento, ma anco a ciò che sotto il titolo de la caccia il castellano del suo cosi frequente venire non ingelosisse e pigliasse de l'amorosa pratica sospetto. Perseverò felicemente lungo tempo in questa sua impresa senza impedimento veruno o che persona se n'avvedesse. Ma usando poco discretamente per la lunga consuetudine questa pratica, Fortuna 266 PARTK PRIMA invidiosa del bene e contentezza degli amanti fece che il castellano se n’avvide, ed aprendo meglio gli occhi che prima fatto non aveva, ritrovò egli un giorno il suo signore in adulterio con la moglie cosi celata e cautamente che eglino punto non se n’accorsero. Di cotanto oltraggio il castellano entrò in un fierissimo sdegno, e la fede che al suo signore aveva giurata converti in perfidia e l’amore che gli portava cangiò in mortai ne- micizia ed odio acerbo e crudelissimo, seco deliberando, andasse il caso come si volesse, d’ammazzarlo. E ben che l’ingiuriato castellano per lo scorno ricevuto fuor di misura entrasse in còlerà ed avesse di leggero potuto gli amanti a salva mano uccidere, nondimeno egli per far più la vendetta compita e vie maggior che si potesse, assai meglio la sua ira ed il concetto sdegno dissimulò e tenne celato che i dui sfortunati amanti non avevano saputo i loro amori nascondere. Ed avendo lungamente tra sé vari modi imaginato a ciò che tutti tre i fratelli cogliesse a un laccio,, si pensò che dilettandosi eglino de la caccia, il mostrar di farne una era il più sicuro mezzo che trovar si potesse. Fece adunque far l’apparecchio grande, e sparse la voce che in uno di quei boschi nocerini aveva tra molti veduto il più smisurato e gran porco cinghiaro che ¡mai in quelle selve si fosse visto. Scrisse poi a Foligno ai tre fratelli che il seguente giorno piacesse loro di venire, perché la matina dopoi a buon’ora an- derebbero a caccia ed averebbero il più bel piacere che di caccia avessero già mai. Si ritrovò a caso quel giorno Berardo da Varano duca di Camerino esser a Foligno, il quale sentendo di questa caccia parlare, andò anco egli con i dui maggior fratelli a Nocera: in lor compagnia v’andarono molti gentiluomini ed altri. Piacque a nostro signor Iddio che Corrado terzo fratello s’era il giorno avanti da Foligno partito e cavalcato a Trevio, ov’era da alquanti giovini a un paio di nozze con una bellissima festa stato condutto. Andarono dunque a Nocera Niccolò, Cesare ed il signor di Camerino con lor brigate e giunsero su! tardi. Cenarono tutti in Nocera, e dopo cena Niccolò e il Varano andarono a dormire in ròcca e Cesare restò ne la città, ove quasi tutti gli altri alloggiarono. La notte su l'ora del primo NOVELLA LV 26- sonno, avendo il ribaldo castellano mutinati tutti i fanti de la guardia de la ròcca, andò con parte di loro a la camera ove Niccolò dormiva, e quello senza romore con i camerieri preso, a lui per esser l’adultero, prima tagliò via tutti dui i sonagli col membro virile insieme e poi cavògli crudelmente il core. Né contento di questa acerbissima vendetta, fece del corpo mille pezzi con le proprie mani. I nostri vicini bergamaschi quando sentono alcuno che maledicendo il compagno gli dice: — Ti venga il cacasangue, la febre, il cancaro — e simili imprecazioni, sogliono dire: — Io non so dir tante cose, ma io vorrei che tu fussi morto. — Deveva bastar a Tirato fuor di misura castellano uccider il suo padrone e non incrudelir poi nel morto; ma Tira come è sfrenata, non sa servar modo. Il perché entrato dopoi ne la camera ove il duca di Camerino dormiva, quello con le sanguinolente mani prese e col resto di quelli che in ròcca alloggiavano cacciò in una oscura prigione. Cominciandosi poi a scoprir l’aurora e già quelli che ne la città albergavano mettendosi in punto per la caccia, mandò il crudel castellano uno dei suoi scelerati ministri a chiamar Cesare in ròcca a nome del fratello. Egli che nulla sapeva e meno nulla di male sospettava, come fu entrato in ròcca si vide miseramente far prigione e tutti quelli che seco erano incarcerare. II castellano per non esser inferiore a qualunque più crudel barbaro che mai si fosse, fece menar cosi legato Cesare ne la camera ove Niccolò in mille pezzi smembrato nel suo sangue si stava, e gli disse: — Cesare, ecco il ribaldo adultero di tuo fratello; vedi qui il capo e riconoscelo a le sue fattezze. Quanto mi duole che Corrado non sia a queste nozze che io faccio, perché anch’egli se ne sederebbe a questa sontuosa mensa, a ciò che nessuna reliquia del sangue dei tiranni Trinci al mondo restasse. Ma chi fa ciò che può ha fatto assai. Io non ce l’ho potuto cogliere: che maledetto sia Trevio e chi ci abita. — Detto questo, il perfido castellano sovra le membra di Niccolò crudelmente di sua mano Cesare, che più morto era che vivo e che mai parola essendo a si fiero spettacolo fuor di sé non disse, come un agnello svenò e lasciò voltarsi nel sangue del fratello e suo. 268 PAKTE PRIMA Dopo cotanta sceleraggine il fiero e più che neroniano castellano fece domandar i primi e più riputati uomini di Nocera, ai quali dinanzi la porta de la ròcca congregati egli che su le mura tra i merli era, cominciò a parlare ed essortargli a volersi metter in libertà, dicendo loro che il tempo oportuno era giunto che si potevano, volendo, liberare da la tirannia dei Trinci, perché egli aveva Niccolò e Cesare imprigionati, i quali intendeva indi a poco far morire a ciò che la sua patria liberasse. Non parve al ribaldo manifestare che i dui fratelli fossero morti se prima non spiava e conosceva le menti dei nocerini. Quando i ragunati intesero che dui dei loro signori erano incarcerati, udendo si fatto tradimento tutti ad una voce agramente il ripigliarono, e poi con buone parole il pregarono che di cotanto errore quanto commesso aveva, pentito, lasciasse’ liberi i lor signori dai quali si tenevano giustamente ed umanamente governati ; che se questo egli faceva, talmente opererebbero appo essi signori che gli impetrarebbsro dei grave commesso fallo perdono. L'assicurarono poi che essi ed il popolo siini- gliantemente non permetterebbero mai che i lor signori fossero si villanamente morti, e che subito del tutto avvertirebbero Corrado ché in aita dei fratelli ne venisse. Gli dissero altresì che Braccio per modo veruno non comportarebbe che suo cognato che era il duca di Camerino stesse in prigione; e molte altre cose gli misero innanzi. Lo scelerato castellano veggendo che la città non era per liberarsi, rispose ai cittadini che fra il termine di tre o quattro ore darebbe loro risoluta risposta, e che in questo mezzo voleva meglio pensar sul fatto. Licenziati ì cittadini, subito chiamò a sé dui giovini dei quali molto si confidava, e diede loro tutti i suoi danari e gemme che aveva, pregandogli a partirsi subito e trovar un luogo fuor de la giurisdizione dei tiranni ove poi potesse mandar i figliuoli. Montarono a cavallo i dui compagni ed uscirono per la porta del soccorso, e s’accordarono come furono fuori che era meglio romper la fede a l’infedel castellano che essere rubelli del signor Corrado, onde quanto i ronzini gli poterono portare cavalcarono verso Trevio ove sapevano esser Corrado. NOVELLA LV 269 I cittadini subito che furono da la ròcca partiti, sonarono a consiglio e congregati elessero un cittadino che se n’andasse a trovar Corrado ed avisarlo degli imprigionati suoi fratelli, non sapendo ancor la morte loro. Giunsero.primieramente i dui partiti de la ròcca, e trovato Corrado, a quello la crudelissima morte dei dui fratelli e la prigionia del duca di Camerino e di molti altri dissero. Egli udita si fiera novella, senza punto tardare fece metter ad ordine alcuni cavalli, e volendo montar a cavallo, venne il messo de la città di Nocera, al quale Corrado commise che ritornasse subito indietro e facesse intender a la città come il castellano già aveva crudelmente ucciso i dui fratelli; pertanto imponesse ai cittadini che mettessero buona guardia a torno a la ròcca a ciò che il traditore non scappasse, mentre ch’egli andasse a cercar aiuto da Braccio. Montato adunque Corrado a cavallo, se n’andò di lungo a Tuderto ove alora Braccio che n’era signore si ritrovava, e a quello narrò la morte dei dui fratelli e come Berardo suo cognato era in prigione. Signoreggiava in quei tempi Braccio Perugia e molte altre città de la Chiesa ed era gran contestabile del regno di Napoli e prencipe di Capua; onde subito ragunati quei soldati che vicini gli erano e agli altri fatto intendere che il seguissero, se ne cavalcò a Nocera in compagnia di Corrado. Giunto a la città, mandò Braccio un trombetta al castellano per intender da lui a suggestione di cui tanta sceleratezza egli aveva commesso. Rispose il castellano che da nessuno instigato i tiranni aveva ucciso, ma per vendicar la patria sua in libertà e per punir l’ingiuria che ne la propria moglie Niccolò gli faceva. Domandato che restituisse Berardo e gli altri che in prigione aveva, nulla ne volle udire. 11 perché dopo il terzo giorno essendo già assai numero di soldati convenuto, Braccio fece dar l’assalto a la ròcca; e diffendendosi quanto potevano quei di dentro, durò l’assalto più di sei ore. A la fine prevalendo, i bracceschi entrarono dentro. 11 castellano fuggi nel maschio de la fortezza ove aveva già impregionata la moglie, e seco vi si ridussero dui suoi figliuoli ed il fratello. Furono presi ne la ròcca il padre del castellano con trentanove provigionati che tutti a la morte dei dui fratelli 270 PARTE PRIMA erano stati. Come Corrado vide quelli che i fratelli gli avevano uccisi, da fierissimo sdegno acceso, il padre del castellano con le proprie mani ammazzò e in mille pezzi fattolo dividere, il fece per cibo dar ai cani. Tutti gli altri crudelmente furono morti, perciò che alcuni vivi a coda di cavalli furono per sassi, per spine e fossi tirati, lasciando or qua or là le lacerate carni. Altri con affocate tenaglie spolpati ed arsi, altri in quattro quarti vivi divisi ed altri, in cuoio di buoi nudi posti, furono fino al mento interrati. Era stato, ne l’entrar che per forza in ròcca si fece, liberato il duca di Camerino con gli altri incarcerati. Il castellano salito sovra de la torre, poi che vide al fatto suo non esser scampo, avendo già visto il crudo strazio che di suo padre e d'alcuni altri fatto s'era, a ciò che da ogni banda vendicato morisse, legate le mani a la bella moglie, quella gridante mercé da l'alta torre gettò in terra, la quale tutta si disfece e mori subito. Né guari stette che vinto dal fumo che Braccio fatto far aveva, fu dai bracceschi preso ed insieme con i figliuoli e fratello da l’alta torre, come de la moglie fatto il crudel aveva, a terra precipitato. Corrado di questo non contento, fece ai corpi loro mille vitupèri fare e comandò che insepolti restassero per esca di corbi. Fece poi seppellire le reliquie dei dui fratelli e volle anco che a la donna fosse dato sepoltura. A cosi miserando adunque fine l’amore di Niccolò e l’ira del castellano sé ed altrui, come udito avete, condusse; onde si può bene la mia istoria con tre versi del nostro gentilissimo poeta conchiudere: Ira è breve furor, e chi noi frena, è furor lungo, che ’1 suo possessore spesso a vergogna e talor mena a morte.

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