< Novelle (Bandello, 1910) < Parte I
Questo testo è incompleto.
Novella XLVIII - Il re Lodovico XI fa del bene a un guattero per un bel motto da quello detto argutissimamente
Parte I - Novella XLVII Parte I - Novella XLIX

IL BANDELLO

l'illustre e valorosissimo signor

marcantonio colonna


Ritrovandomi non è molto in Mantova con madama Isabella da Este marchesana d'essa cittá, dopo che d’alcuni affari avemmo ragionato per i quali ella m’aveva mandato a Milano, sovravvennero molti gentiluomini ed alcune de le prime donne de la cittá a farle riverenza, come ordinariamente è lor costume. E d’uno in altro ragionamento piacevolmente entrandosi, il signor Gostantino Pio disse: — Voi, madama, non avete forse ancor inteso d'un gran buffettone che il cavalier Soardo ha dato a maestro Tomaso Calandrino medico. — Come — rispose madama — è egli seguito cotesto fatto? La cosa è andata da un gran pazzarone a un gran sempliciotto. E che romor è stato tra loro? — Dirollo — soggiunse il signor Gostanzo. — Il medico Calandrino, non forse piú saggio del Calandrino del Boccaccio, ieri su l’ora che pioveva incontrò il cavalier Soardo ne la strada presso a San Francesco, ed essendo tutti dui a piedi, il medico si ritirò al muro e disse al Soardo: — Cavaliero, date luogo a tanta scienza come è in me, — e con le mani volle spingerlo verso il fango. Il cavaliero alora senza pensarvi su, alzata la mano gli diede un gran mostaccione dicendo: — E tu, che ti venga il cancaro, da’ luogo a tanta pazzia come io ho. — E non contento d’averlo battuto, gli diede anco un gran punzone e gettollo in mezzo del fango. — Io dissi bene — soggiunse madama — che il fatto andava da pazzo a sciocco. De- vrebbe pur oramai il medico guardarsi da queste sue sciocchezze che tutto il giorno gli tornano in danno, e conoscere come è fatto il Soardo. Ed in vero io non so come debbiamo nomar questi detti loro, i quali ancor che facciano ridere non mi paiono né 192 PARTE PRIMA mordaci né arguti, ma più tosto ridicoli, rappresentanti il terreno ove nascono. — Rideva tutta la brigata, e dopo che madama ebbe finito, si cominciò variamente a parlare di questo modo di parlamenti che talor si fanno ora da uomini pazzi che dicono tutto quello che lor viene a bocca e ora da prudenti che hanno certi motti arguti, mordaci, salsi e che molto spesso contengano in loro duo significati che, in qualunque modo s’intendino, danno piacere a chi gli ascolta. Quivi varie cose fi dissero, e si conchiuse per la più parte che quei motti deveno sommamente esser lodati per i quali colui che gli dice, o si libera da qualche pericolo, o muove i suoi padroni ad aver pietà di lui e fargli del bene. Né minor lode dar si deve a quelli che con arguto dire modestamente dimostrano i diiTetti dei lor superiori o, quelli con grazia mordendo, gli inducono ad emendarsi od almeno a vergognarsi d’esser di cotal errore macchiati. Sono anco degni di lode alcuni che conoscendo la diffidi e superba natura di quelli con chi hanno a negoziare e che, o bene o male che ti facciano, non vogliono esser ripresi, ma desiderano continovamente aver Gnatoni, parasiti e adulatori che Torecchie loro con false lodi e manifestissime bugie addolciscono e in ogni azione gli applaudeno; sono, dico, alcuni degni di esser lodati i quali non vogliono opporsi a queste nature cosi ritrose, e tuttavia quando veggiono qualche errore d'un signore o di chi si sia, con qualche savio motto in compagnia fida e grata lo mordeno, di modo che il parlar loro dagli sciocchi non è compreso. Onde io alora dissi: — Madama e voi signori, a me sovviene d’un arguto detto che il signor Marco Antonio Colonna, essendo io seco e ragionando ne la chiesa de le Grazie in Milano, disse. — E questo, signor mio, se vi ricorda, fu quando Odetto di Fois viceré in Milano venne a messa a le Grazie suso una picciola muletta, che voi diceste: — Bandello, ancora che tu veggia quella picciola bestiola, io non conosco perciò in questa armata del nostro re cristianissimo cavallo né mulo cosi forte e potente com’ella è. E di questo non ti meravigliare, perciò che ella porta monsignor di Lautrecco con tutti i suoi conseglieri. — Come io ebbi narrato NOVELLA XLVIII 193 a madama e a quei signori cotesta arguzia, tutti intesero benissimo che voi avevate punto la costuma d’esso monsignor di Lautrecco, che era, se ben congregava il conseglio e in una faccenda ricercava il parer degli altri, nondiméno di non far mai quello che dai conseglieri si conchiudeva, ma quello solo che al suo mal regolato giudicio sembrava esser buono. E cosi dandovi madama parte di quelle lodi che meritevolmente vi si deveno, messer Gian Stefano Rozzone, pratico de la corte di Francia, disse che un simil motto fu detto del re Luigi undecimo e d’una sua picciola chinea, soggiungendo che non essendo discaro a madama, direbbe una novelletta d’esso re Luigi pur a questo proposito dei belli ed arguti motti. Piacque a madama che cosi facesse, onde egli disse la sua novella. La quale avendo io ridotta al numero de l’altre mie, ho pensato non esser disconvenevole che quella vi doni, conoscendo quanto voi di questi bei detti e motti a l’improviso pronunziati vi dilettiate e sapendo altresì che al vostro valore io non posso cose di gran valuta offerire. Questa adunque come fio de la mia servitù vi pago e dono, essendo certissimo che con quel vostro magnanimo core sarà da voi accettata come altri averebbero caro un dono d’oro e di gemme. State sano. NOVELLA XLVIII 11 re Lodovico undecimo fa del bene a un guattero per un bel motto da quello detto argutissimamente. Luigi di questo nome undecimo re di Francia fu molto mentre che visse travagliato, per quello che gli annali e croniche di Francia narrano, perciò che non solamente ebbe guerra con i bertoni, con i fiammenghi e borgognoni ed ancora con gli inglesi che avevano posseduto Francia poco meno di trecento anni, ma anco guerreggiò con quasi tutti i baroni de la Francia e con il fratello proprio. E in vero si può ben dire che egli non avesse maggiori nemici di quelli del suo sangue, che quasi tutti a destruzion sua si misero e gli fecero tutto quel male che a loro fu possibile, di modo ch’egli provò gli M. Bandello, Novelle. 13 194 PARTE PRIMA stranieri più amici che i suoi parenti. Perciò che avendo egli donato Savona e le ragioni che sovra il dominio di Genova pretendeva al duca Francesco Sforza primo di questo nome duca di Milano, esso duca Francesco grato del beneficio del re ricevuto, intendendo come egli era in pericolo di perder la corona per la rebellione de la maggior parte dei baroni e reali di Francia, gli mandò il suo primogenito Galeazzo Sforza in soccorso con un buon essercito sotto il governo del conte Gasparo Vimercato suo capitan generale, di modo che disfece i nemici suoi e restò re pacifico di tutto il regno. Egli era sempre stato uomo di suo capo e che di rado col conseglio d’altri si concordava, e dal re Carlo settimo suo padre di maniera si scordò che da quello se ne fuggi e si ritirò nel paese del Delfinato, ove in disgrazia del padre dimorò con gravezze insopportabili di quei popoli. Poi si ritirò appresso Filippo duca di Borgogna suo parente, il quale umanamente lo raccolse e lo trattò da fratello e s’affaticò pur assai volendolo pacificare con il padre, che altro dal figliuolo non voleva se non che Luigi s’umiliasse e gli chiedesse perdonanza. Ma Luigi fu sempre tanto ostinato che il core mai non gli sofferse di chieder perdono al vecchio padre e a quello umiliarsi. Onde la bisogna andò cosi, che stette assai più di dieci anni senza veder il padre, di modo che il re Carlo mori essendo ancor il figliuolo in Borgogna appresso al duca Filippo. Morto che fu il padre, egli se ne venne in Francia e secondo l’ordine di quel regno fu fatto re, e come vi ho già detto, fu molto travagliato; e nel principio del suo regno si scoperse vie più feroce che non si conveniva, aspro, sospettoso, solitario, fuggendo la conversazione dei suoi principi e baroni. Essendo la caccia in Francia essercizio molto nobile e di grande stima e da tutti i grandi frequentato, come fu re vietò ogni caccia cosi di fiere come d'augelli, in qualunque modo si fosse, e v’era pena la testa a chi senza sua licenza fosse ito a cacciare o ad augellare. Si dilettò poi aver appresso di sé uomini di bassa condizione e di sangue vile, dando tanta libertà ad Olivero Banno suo barbiero quanta sarebbe stata condecente dare al primo prencipe del sangue reale. E col consiglio di NOVELLA XLVIII 195 costui e d’altri suoi pari incrudeli contra il sangue proprio e fece anco morire alcuni prencipi, i quali quando il re gli avesse tenuti da pari loro non sarebbero forse incorsi negli errori che fecero. Ora vivendo Luigi non come rfc ma privatissimamente, e vestendo per l’ordinario di vilissimi panni, portando un cappello tutto carco di cocchiglie e d’imagini di santi da duo o tre quattrini l’una, avvenne che un di essendo egli rimaso con pochissima compagnia in casa, andò la sera ne la cucina ove il mangiar de la sua bocca si coceva, e vide un giovanetto d’assai buon aspetto e più che non si conveniva a si vii mestiero come faceva, perciò che girava al fuoco un spedo d’arrosto di castrato. Piacque l'aspetto e l’aria del fanciullo al re, e gli disse: — Garzone, dimmi chi tu sei e donde vieni, chi è tuo padre e ciò che tu guadagni il giorno con questo tuo mestiero. — Il giovine che novellamente era venuto in casa e dal cuoco del re preso per guattero, non conosceva ancor nessuno de la corte: si pensò che colui che parlava seco in cucina fosse qualche peregrino che venisse da San Giacomo di Galizia, veggendolo vestito di bigio e con quel cappello in capo carco di cocchiglie, e gli rispose: — Io sono un povero figliuolo chiamato Stefano — e disse la patria sua e il nome del padre — che servo al re in questo basso ufficio che voi vedete, e nondimeno io guadagno tanto quanto egli si faccia. — Come — rispose il re — che tu guadagni altrettanto quanto il re? e che cosa guadagni tu? il re anco che cosa guadagna egli? — Il re — disse il guattarello — guadagna ciò che mangia, beve e veste, e per la mia fede io averò altrettanto da lui si come egli ha da nostro signor Iddio; e quando verrà il giorno de la morte egli, ben che sia ricchissimo re ed io poverissimo compagno, non porterà perciò più seco di quello che porterò io. — Questo saggio motto piacque sommamente al re e fu la ventura di Stefano, perciò che il re lo fece suo varletto di camera e gli fece del bene assai; e crebbe in tanta grazia del re che se talvolta il re che era colerico e subito, gli dava qualche schiaffo e che egli si fosse messo a piangere, il re che non poteva sofferire di vederlo lagrimare, a ciò che s’acquetasse li faceva dare ora mille ed ora duo milia scudi, e sempre l’ebbe caro

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.