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IL BANDELLO
a l’illustrissimo signore
sforza bentivoglio
Mentre che la molto gentile e dotta signora Cecilia Gallerana contessa Bergamina prendeva questi dí passati l’acqua dei bagni di Acquario per fortificar la debolezza de lo stomaco, era di continovo da molti gentiluomini e gentildonne visitata, sí per esser quella piacevole e vertuosa signora che è, come altresí che tutto il dí i piú elevati e belli ingegni di Milano e di stranieri che in Milano si ritruovano sono in sua compagnia. Quivi gli uomini militari de l’arte del soldo ragionano, i musici cantano, gli architetti e i pittori disegnano, i filosofi de le cose naturali questionano, e i poeti le loro e d’altrui composizioni recitano, di modo che ciascuno che di vertú o ragionare od udir disputar si diletti, truova cibo convenevole al suo appetito, perciò che sempre a la presenza di questa eroina di cose piacevoli, vertuose e gentili si ragiona. Ora avvenne un giorno che, essendosi lungamente di cose poetiche tra dui famosi spiriti disputato, cioè tra il signor Antonio Fregoso Fileremo cavaliere e messer Lancino Curzio, il dotto e piacevole messer Girolamo Cittadino prese le Cento Novelle del leggiadrissimo Boccaccio in mano e disse: — Signora contessa, e voi signori, poi che la disputazione de la poesia si è finita, io sarei di parere che entrassimo in alcun ragionamento piú basso e piacevole, overo che si leggesse una o due de le novelle del Boccaccio, come piú a voi piacerá. — Bene ha parlato — disse alora la signora Camilla Scarampa — il nostro Cittadino, a ciò che gli affaticati intelletti per le cose dotte disputate alquanto con ragionamenti piacevoli e di leggera speculazione siano ricreati. — A questo soggiunse la signora Gostanza Bentivoglia, moglie del signor conte Lorenzo Strozzo: — Ed io anco sono del parer vostro; ma perché chiunque è qui ha piú volte lette e udite le Cento Novelle, io sarei di openione che alcuno di voi dicesse di quelle o istorie o novelle che cosí non sono divolgate. — Si faccia, si faccia — disse quasi tutta la brigata, quando la signora Cecilia pregò il signor Manfredi dei signori di Correggio, giovine costumato e piacevole, che una novella volesse dire. Il quale, dopo alcuna escusazione, a la fine una ne narrò, che molto a la lieta compagnia piacque. Onde io avendola scritta e meco pensando a cui donar la dovessi, voi tra molti mi occorreste, al quale meglio che a nessun altro ella conviene, essendo voi negli anni de la florida giovanezza, oltre le molte doti che in voi sono, di maturi costumi e di provida discrezione dotato. Ed io porto ferma openione che mai voi non sareste stato cosí trascurato come furono i dui ongari ne la novella nominati. Il perché, leggendo le loro pazzie, vi sforzarete più di giorno in giorno misurare le operazioni vostre, come saggiamente fate, col compasso de la ragione, ed avanzar la espettazione che la buona creanza vostra sempre ci ha dato. State sano.
NOVELLA XXI
Mirabil beffa fatta da una gentildonna a dui baroni
del regno d'Ongaria.
Io non so, signora Cecilia molto amabile ed onoranda, se cosí di leggero mi debbia, avendomene voi pregato, porre a novellare, non essendo io molto pratico di cotal mestiero, nel quale veggio alcuni in questa nobile ed onorata compagnia, che vie meglio di me e con maggior sodisfazione di tutti, essendo in quello essercitati, si diportarebbero, ed io piú volentieri ad udirli me ne dimorarei, che esser io il dicitore. Ma perché voglio che sempre i vostri cortesi preghi abbiano appo me luogo di comandamento, io, a la meglio che saperò, dirò una novella, la quale non sono molti anni il signor Niccolò di Correggio, mio zio, narrò, essendo dal regno d'Ongaria tornato, ove per commessione del duca Lodovico Sforza era ito per accompagnar il signor donno Ippolito da Este cardinal di Ferrara, che a prender la possessione del vescovado di Strigonia andava. Devete adunque sapere, per dirvi la novella, che Mattia Corvino, come qualunque persona che sia qui può per fama aver inteso, fu re d’Ongaria, e perché era bellicosissimo ed uomo di grandissimo vedere, fu il primo famoso ed anco il piú temuto da' turchi che in quel reame giá mai regnasse. E tra l’altre molte vertú sue, cosí de l'arme come de le lettere, era il piú liberale ed il piú cortese prencipe che in quella etá vivesse. Egli ebbe per moglie la reina Beatrice di Ragona, figliuola del re Ferrando vecchio di Napoli e sorella de la madre d’Alfonso, oggi duca di Ferrara, la quale in vero fu donna eccellentissima di lettere, di costumi e d'ogn’altra vertú a donna di qualunque grado si sia appartenente ornata. Ella, non meno del re Mattia suo marito, cortese e liberale, ad altro non attendeva, che tutto il dí onorare e guiderdonare tutti quelli che le pareva che per alcuna vertú il valessero, di modo che ne la casa di questi dui magnanimi prencipi si riparavano d’ogni nazione uomini vertuosi in qual si voglia essercizio, e ciascuno secondo il merito e grado suo era ben visto ed intertenuto. Ora avvenne che in quei giorni fu un cavalier boemo, vassallo del re Mattia, perché anco era re di Boemia, il quale, di casa nobilissima nato e molto de la persona prode e ne l’armi essercitato, s'innamorò d’una bellissima giovane, molto nobile e che il titolo portava d’esser la piú bella de la contrada, che aveva un fratello, ancor che gentiluomo fosse, povero e dei beni de la fortuna molto mal agiato. Il cavalier boemo era altresí non molto ricco ed aveva solamente un suo castello, ove con gran difficultá da par suo viver poteva. Innamoratosi adunque de la bella giovane, quella al fratello di lei domandò ed ebbe per moglie, con assai poca dote. E non essendosi ancora ben avveduto de la sua povertá, l'aver condotta la moglie a casa gli aperse gli occhi, e cominciò avvedersi quanto era mal in arnese e come difficilmente si poteva mantenere con le poche rendite che dal suo castello traeva. Era egli uomo gentile e da bene, il quale a modo veruno i suoi soggetti che aveva non voleva di spese straordinarie gravare,
contentandosi di quel censo che ai suoi avoli erano consueti
pagare, che era molto poca moneta. Onde conoscendo che di
straordinario aiuto gli era bisogno, gli cadde ne l’animo, dopo molti e vari discorsi tra sé fatti, di mettersi in corte ai servigi del re Mattia suo signore, e quivi tale di sé dar esperimento ed in modo adoperarsi, che egli e la moglie si sarebbero da lor pari potuti mantenere. Ma tanto e si fervente era l’amore che a la sua donna portava, che non gli pareva possibile poter vivere senza lei un’ora, non che star senza quella lungamente in corte. Ché di condurla seco e tenerla ove la corte facesse dimora non gli piaceva. Onde, tutto il giorno pensando su questo fatto, ne divenne molto malinconico. La moglie, che era giovane saggia ed avveduta, veggendo il modo del vivere del marito, dubitò che quello non avesse forse alcuna mala contentezza di lei, il perché un dí cosí gli disse: — Marito mio caro, volentieri, quando credessi non farvi dispiacere, vi chiederei una grazia. — Chiedete — rispose il cavaliere — ciò che piú vi aggrada, ché, pur ch’io possa, farò di buon core quanto voi mi chiederete, perciò che altro tanto desidero compiacervi, quanto faccio la propria vita. — Alora la donna molto modestamente il pregò che le volesse scoprire la cagione de la sua mala contentezza, che mostrava nel sembiante d'avere, perciò che le pareva che molto piú del solito stesse di mala voglia ed altro mai non facesse che sospirando pensare e fuggir la compagnia di ciascuno che tanto soleva piacergli. Udita il cavalier la proposta de la donna, stette alquanto sopra sé; poi le disse: — Moglie mia carissima, poi che intender vi aggrada la cagione dei miei pensieri e d'onde nasca che io vi paia divenuto malinconico, io di grado la vi dirò. Tutti i miei pensieri, ove sí fieramente mi vedete immerso, tendeno a questo fine, che vorrei trovar modo e via a ciò che voi ed io onoratamente potessimo vivere, secondo che il grado nostro richiede, perciò che, attesa la qualitá del nostro parentado, noi viviamo molto poveramente. E la cagione di questo è che il vostro e mio padri hanno logorati molti beni, che gli avoli nostri loro per ereditá lasciarono. Ora io su questo fatto tutto il dí discorrendo e diverse imaginazioni facendo, non v’ho mai altro compenso saputo ritrovare, se non uno che assai piú di tutti gli altri mi va per la fantasia, che è che io me ne vada a la corte del nostro supremo signore re Mattia, dal quale giá io sono su le guerre conosciuto. Io non posso se non credere che da lui averò buona provigione e acquisterò la grazia sua, perciò che essendo egli liberalissimo prencipe ed amando gli uomini che il vagliono, io mi governerò di maniera che, col favore e cortesia di quello, potremo piú agiatamente vivere di quello che facciamo. E tanto piú in questa openione mi vado fermando, quanto che giá altre volte essendo io ai servigi del vaivoda de la Traselvania contra i turchi, fui dal conte di Cilia richiesto di mettermi in casa del re. Ma come io da l’altra parte penso di devervi lasciar qui senza la mia compagnia, non è possibile ch’io possa acquetar l’animo d’allontanarmi da voi, sí perché viver senza voi, che unicamente amo, non mi dá il core, ed altresí senza fine temo, veggendovi tanto giovane e bella, che io non ne ricevessi alcun disonore. Ché subito ch’io fossi partito, dubito che i baroni e gentiluomini de la contrada non si mettano con ogni loro sforzo per acquistare il vostro amore. Il che ogni volta che avvenisse, io come disonorato non potrei mai piú sofferire d’esser veduto fra uomini di valore. E questo è tutto il nodo che mi tien legato qui, di modo che non so né posso a’ casi nostri provedere. Avete adunque, moglie mia carissima, da me udita la cagione dei miei pensieri. — E cosí detto, egli si tacque. La donna, che era valorosa e di gran core e che il marito senza fine amava, come sentí quello aver finito il suo ragionamento, fatto allegro e buon viso, in tal maniera gli rispose: — Ulrico, — ché tale era il nome del cavaliere — io medesimamente piú e piú fiate ho pensato a la grandezza dei vostri e miei maggiori, da la quale parendomi che noi senza colpa nostra siamo assai lontani, mi andava imaginando che modo si potrebbe trovare a metterci meglio in arnese di quello che siamo. Ché se bene son donna e voi uomini diciate le donne esser di povero core, io vi ricordo che in me è il contrario e che ho l’animo assai piú grande e pieno piú d'ambizione che forse a me non si converrebbe, e che anco io vorrei poter mantenere il grado che mia madre, secondo che mi ricordo, manteneva. Tuttavia in tanto mi so moderare, che sempre resterò contenta a tutto quello che piú a voi piacerá. Ma venendo al fatto, vi dico che, pensando io ai casi nostri come voi fate, che insomma ne l’animo mi cadeva che, essendo voi giovine e valente de la persona, non ci era meglior mezzo che pigliar il servizio del nostro re. Ed ora tanto piú profittevole il credo, avendo da voi inteso che di giá il re su la guerra vi ha conosciuto. Onde mi giova di credere che il re, che giudicioso estimatore sempre è stato de l’altrui vertú, non potrá se non farvi buono e convenevol partito. Di questo mio pensamento non ardiva io farvi motto, temendo non v’offendere. Ora che voi m’avete aperta la strada di poterne parlare, non resterò che io non vi dica il parer mio. Fate poi voi quello che il meglio vi parrá e piú a proposito de l'onore ed util vostro. Io, quanto sia per me, ancor ch'io sia donna, che, come poco avanti dissi, naturalmente sono ambiziosa e vorrei tra l’altre comparire onorata e mostrarmi nel publico piú onorata e pomposa de l’altre, nondimeno, poi che la fortuna nostra è tale qual veggiamo, mi contentarei starmene quel tempo che abbiamo a vivere di continovo con voi in questo nostro castello, ove per Dio grazia non ci manca da intertenerci onestamente e farci servire di ciò che ci bisogna, volendoci de le cose necessarie contentare e le nostre rendite modestamente con misura dispensare. Noi qui, con dui o tre servidori e due o tre donne, possiamo assai comodamente dimorare e tener anco un paio di cavalcature, facendo una vita allegra e quieta. Se poi averemo figliuoli, come siano allevati ad etá di poter servire, gli metteremo in corte e con altri baroni, di modo che eglino, essendo da bene, s’acquistaranno onore e roba, e riuscendo da poco e da niente, il danno sia loro. E sallo Iddio che mio sommo contento sarebbe che noi il tempo che ci avanza da vivere sempre insieme potessimo al bene e al male dimorare. Ma conoscendo in alcuna parte l’animo vostro, che piú stima fa d’un’oncia d’onore che di quanto oro sia al mondo, e veggendovi star sí di mala voglia, ho sempre giudicato, ancora che degli altri pensieri mi andassero per la mente, il tutto procedere o che voi vi trovasti mal sodisfatto de’ fatti miei, o che vi doleste non potervi essercitar ne l'armi e tra gli altri onorati cavalieri aver luogo degno di voi. Onde, come colei che voi sovra ogni creata cosa amo, ho sempre voluto che ogni vostro volere fosse mio, e cosí mentre mi sará concesso vivere il vorrò di continovo, amando molto meglio ogni vostro piacere, che la vita propria. E perciò, deliberando voi d’andar al servigio del re Mattia, il dolore, che senza dubio mi assalirá per la vostra lontananza, addolcirò col contento che sentirò veggendovi sodisfar a sí lodevol disio come è il vostro, e con la dolce memoria di voi anderò ingannando i miei pensieri, sperando di vedervi assai piú lieto che ora non sète. A la parte, poi, che dite dubitare che io non sia combattuta da chi cercherá debellare la mia onestá e levarmi l'onor vostro e mio, io v’assicuro che, se non divengo totalmente pazza, che ’l fermo mio proponimento è prima di morire che mai in una picciola parte macchiar la mia pudicizia. Ora di questo io non so né posso darvene altro pegno che la mia sincera fede, la quale se da voi fosse conosciuta cosí come io la tengo ferma ed inviolabile, voi senza dubio tanto ve ne appagareste, che mai una minima scintilla di sospetto di quella in mente non vi caderebbe. Sí che, non sapendo che altra fermezza darvene, mi rimetterò a l'opera che indi ne seguirá, con speranza che la vita che io farò sia quella che a la giornata ve ne debbia render testimonio. Nondimeno tutti quei modi e tutte le vie che piú v’aggradiranno d’esperimentare per assicurarvi, a me saranno di contentezza infinita, come quella che altro non bramo che sodisfarvi. E quando vi cadesse ne l’animo di chiudermi in una di queste torri del castello fin a la tornata vostra, io, come una romitella, vi dimorerò volentieri, pur ch’io sappia di far cosa che in piacer vi sia. — Il cavaliero con diletto grandissimo ascoltò la risposta de la moglie, la quale finita egli le disse: — Consorte mia carissima, io lodo molto la grandezza de l'animo vostro, e piacemi pur assai che voi siate del mio parere. Apportami anco contentezza inestimabile intender il fermo proponimento che di conservar l’onor nostro avete, e cosí vi essorto a perseverare, ricordandovi di continovo che come la donna ha perduto l'onore ha perduto quanto di bene possa avere in questa vita e non merita piú esser nomata donna. Ora, ciò che io ho detto di avere in animo di fare, per esser cosa d’importanza, io non lo farò, penso io, cosí tosto. Ma quando il manderò ad effetto, io vi assicuro che qui vi lascierò padrona del tutto e signora. Fra questo mezzo io penserò meglio al nostro bisogno e mi conseglierò con gli amici e parenti, e poi mi atterrò a quello che ottimo sará giudicato. Viviamo adunque allegramente. — Ora, perché insomma niuna altra cosa molestava il cavaliere, se non il dubio che aveva de la moglie, per vederla delicata, giovane e bellissima, si andava pur egli imaginando come a la sua sicurezza si potesse trovar un mezzo. E stando in cotal pensiero, non dopo molto avvenne che, essendo un giorno di brigata il cavaliero con alquanti gentiluomini e parlandosi di varie cose, vi fu chi narrò un accidente avvenuto ad un gentiluomo de la contrada, che aveva ottenuto la grazia ed amor d’una donna col mezzo d'un vegliardo pollacco, che aveva fama d’esser grande incantatore e dimorava per medico a Cuziano, città di Boemia, ove sono le vene de l’argento e degli altri metalli in grande abondanza. Il cavaliere, che non molto lunge da Cuziano aveva il suo castello, trovate sue cagioni d’andar a Cuziano a far certe sue bisogne, vi andò, e trovato il pollacco, uomo molto attempato, seco lungamente parlò, e insomma lo richiese che, secondo che ad alcun aveva porto aita a conseguir il suo amore, a lui volesse dar il modo che assicurar si potesse che la moglie non li farebbe torto e non lo manderia in Cornovaglia. Il pollacco, che era in cose d’incantesimi, come udito avete, molto pratico, gli disse: — Figliuol mio, tu mi domandi una gran cosa, la quale io mai non saperei fare, per ciò che da Dio in fuori non ci è chi de la castitá d’una femina ti possa render sicuro, essendo elle naturalmente fragili ed inclinatissime a la libidine, ché di leggero a le preghiere degli amanti si rendono pieghevoli, e poche sono che, essendo pregate e sollecitate, stiano salde. E quelle poche di ogni riverenza ed onore son degne. Ma io ho bene un segreto, col quale in gran parte potrò sodisfare a la domanda tua, che è tale, che io con l’arte mia in spazio di poche ore ti farò una picciola imagine di donna con certa mia composizione, che tu continovamente potrai in un picciolo scatolino portar teco ne la tua borsa, e tante volte il giorno quante ti piacerá mirarla. Se la moglie tua non ti romperá la fede maritale, vedrai sempre la imagine sí bella e sí colorita come io la fabricherò, e parrá che venga alora alora da la mano del pittore; ma se per sorte ella pensasse sottoporre a chi si sia il corpo suo, la imagine diverrá pallida, e venendo a l’atto che facesse ad altrui di sé copia, subito essa imagine diverrá nera come spento carbone e putirá di maniera che il puzzo si fará d’ogn’intorno meravigliosamente sentire. Ogni volta poi che sia tentata, si fará di color giallo come un biondo oro. — Piacque pur assai il mirabil segreto al cavaliere e gli prestò quella fede che a le piú vere e certe cose si presta, mosso ed assicurato da la fama che di lui e de l’arte sua intendeva, perciò che quelli di Cuziano narravano cose incredibilissime de l’arte di quello. Convenuto adunque seco del prezzo, ebbe la bella imagine ed al castello suo tutto lieto se ne ritornò. Quivi essendo dimorato alcuni dí, deliberò andar a la corte del glorioso re Mattia e la sua deliberazione a la moglie manifestò. Messe poi a ordine le cose de la casa e lasciato il governo del tutto a la donna, avendo giá apparecchiato quanto gli era bisogno per il suo viaggio, ancor che con molto dolore e discontentezza d’animo da la sua donna si allontanasse, pure si partí e si ridusse in Alba Reale, ove era in quei giorni il re Mattia e la reina Beatrice, dai quali fu lietamente ricevuto e visto. Non stette molto in corte, che venne in grandissima grazia di tutti. Il re, che giá il conosceva, gli ordinò onesta provigione e cominciò adoperarlo in molti affari, i quali tutti egli condusse a fine secondo il voler del re. Dapoi mandato a la diffesa di certo luogo che i turchi infestavano sotto la condotta di Mustafá basciá, egli in modo governò quella guerra, che cacciò gli infedeli tra le lor confine, acquistando nome di valente e forte soldato e prudente capitano. Il che molto piú gli accrebbe il favor e grazia del re, di maniera che, oltra i danari e doni ch'a la giornata riceveva, ebbe anco in feudo un castello con buona entrata. Per questo parve al cavaliero d'aver fatto ottima elezione ad essersi messo in corte ai servigi del re, e ne lodava Iddio che a questo inspirato l’avesse, sperando ogni giorno di meglio. Tanto piú poi contento e lieto viveva, quanto ch’ogni di piú e piú volte pigliava in mano il caro scatolino ov’era l’imagine de la donna, la quale sempre vide sí bella e sí ben colorita come se alora alora fosse stata dipinta. Era la fama in corte che Ulrico aveva in Boemia per moglie la piú bella e leggiadra giovane de la Boemia e de l’Ongaria. Onde avvenne che una volta, essendo molti cortegiani di brigata, tra i quali era il cavaliere, ch’un barone ongaro gli disse: — Come può egli esser, signor Ulrico, che omai sia circa un anno e mezzo che partiste di Boemia, e mai non ci siate tornato a veder vostra moglie, la quale, per quello che la fama con publico grido afferma, è cosí bella giovane? Certamente molto poco di lei vi de’ calere. — Sí mi cale pur assai — rispose Ulrico — e l’amo a par de la vita mia. Ma il non esser io in tanto tempo andato a vederla è non picciolo argomento de la sua vertú e de la mia fede. De la sua vertú che ella sia contenta che io serva al mio re, e le basta che spesso abbia nuova di me ed io di lei, non ci mancando assai sovente la comoditá di visitarci con lettere. La fede mia poi e l'obligo che io conosco avere al re nostro signore, dal quale ho tanti e tali benefici ricevuti, ed il continovo guerreggiare che si fa a le frontiere dei nemici di Cristo, ponno in me molto piú che non può l’amore de la moglie; e tanto piú voglio che il debito mio verso il re preponderi a l'amor maritale, quanto che io so che de la fede e costanza de la mia donna posso viver sicuro, come di colei che, oltra la beltá sua, è saggia, costumata ed onestissima e me sovra ogni creata cosa tien caro ed ama a par degli occhi suoi. — Cotesto è un gran parlare — soggiunse il barone ongaro — che voi dite di esser sicuro de la fede e pudicizia de la moglie vostra, de le quali ella istessa non potrebbe assicurarsi, perciò che ora sará la donna in un proposito e non si moverá a preghiere né a doni di tutto il mondo, che poi un altro giorno a un sol sguardo d’un giovine, a una semplice parola, a una calda lagrimetta e breve preghiera, diverrá pieghevole e si dará tutta in preda e in poter de l’amante. E chi è o giá mai fu, che aver possa questa sicurezza? chi è che conosca i segreti dei cuori, che sono impenetrabili? Certo, che io creda, nessuno, eccetto nostro Signor Iddio. La donna di sua natura è mobile e volubile e il piú ambizioso animale che sia al mondo. E quale è, per Dio, quella donna che non desideri ed appetisca d'esser vagheggiata, richiesta, seguitata, onorata ed amata? E bene spesso avviene che quelle che piú scaltrite si tengono e pensano con finti sguardi pascer vari amanti, sono poi quelle che, non se ne accorgendo, danno de la testa ne la rete amorosa e in tal maniera vi si avviluppano, che, come augelli presi al visco, non si ponno né sanno districarsi. Sí che, signor Ulrico, io non veggio che la donna vostra piú de l'altre, che di carne e d'ossa sono, sia da Domenedio privilegiata, che non possa esser corrotta. — Tanto è — rispose il cavalier boemo; — io mi persuado esser cosí, e giovami di credere che in effetto cosí sia. Ciascuno sa i casi suoi, e il pazzo sa meglio ciò che ha, che non sanno i suoi vicini ancor che siano savi. Credete voi ciò che vi pare, ch’io non ve lo divieto, e lasciate che io creda quello che piú m’aggrada e mi cape ne la mente, perciò che il mio credere non vi può annoiare, né il vostro discredere mi reca danno alcuno, essendo libero a ciascuno in simili avvenimenti pensare e creder ciò che piú gli va per l’animo. — Erano molti altri signori e gentiluomini cortegiani presenti a questi parlari e, secondo che veggiamo talora avvenire, chi una cosa e chi un'altra ne diceva. Onde molto varie furono le openioni loro che sovra la detta materia avevano. E perché gli uomini tutti non sono d’un temperamento e molti si persuadeno saper più del compagno e ne le chimere loro sono di maniera ostinati che de la ragione punto non si appagano, quasi che i ragionamenti vennero in gridi ed in romori. Il che fu rapportato a madonna la reina. Ella, che donna era a cui le gare e questioni in corte meravigliosamente dispiacevano, fatti a sé chiamar coloro che ragionato avevano, volle puntalmente che i parlamenti avuti le fossero narrati. Ed avendo il tutto inteso, disse che in effetto ciascuno poteva a suo piacer credere in tal materia ciò che voleva; ma che era bene presontuosa e temeraria pazzia giudicar tutte le donne d'una maniera, come anco errore grandissimo esser si conosceva a dire che tutti gli uomini fossero di medesimi costumi, veggendosi tutto il dí il contrario manifestamente, perciò che cosí negli uomini come ne le donne tante sono le differenze e le varietá de le nature quanti sono i cervelli, e che dui fratelli e due sorelle, ad un medesimo parto nati, saranno il piú de le volte di contrario temperamento e di costumi diversissimi, e ciò che piacerá ad uno dispiacerá a l’altro. Onde conchiuse essa reina che ella portava fermissima openione che il cavalier boemo avesse ragione di credere de la sua moglie quello che ne credeva, avendola per lungo tempo praticata, e che in questo egli faceva prudentemente e da uomo saggio ed avveduto. Ora perché, come si vede, gli appetiti umani sono insaziabili e un uomo piú de l’altro è ardito, anzi, per meglio dire, ostinato e temerario, furono dui baroni de la corte, ongari, che portavano il cervello sopra la berretta, i quali a la reina in cotal forma dissero: — Madama, voi fate bene a mantener la ragione de le donne, poi che sète donna. Ma a noi dá il core che, se fossimo lá ove questa nuova donna di marmo dimora e le potessimo parlare, che senza dubio romperemmo quel suo core adamantino e la recheremmo a far il nostro volere. — Io non so ciò che avvenisse né quello che fareste — rispose il cavalier boemo; — ma so bene ch’io non m’inganno. — Molte cose alor si dissero, e riscaldandosi su ’l questionare l’una parte e l’altra, i dui baroni ongari, che troppo si persuadevano d’esser sufficienti a ogni affare, affermarono ciò che detto prima avevano, con giuramento che impegneriano quanto possedevano di beni mobili ed immobili, se in spazio di cinque mesi, mentre il signor Ulrico si ubligasse non andare ove era la donna né avvisarla, non la recavano a far quanto loro fosse piacciuto. La reina e tutti gli ascoltanti di questa loro proposta fecero gran risa e si beffavano di loro. Il che eglino veggendo, dissero: — Voi credete, madonna, che noi parliamo da scherzo e da gabbo; ma noi parliamo da dovero e desideriamo esser su 'l fatto a la prova, a ciò si veggia chi averá avuto meglior parere. — E durando la questione, il re Mattia intese il tutto. Onde venne ove era la reina, che s'affaticava levar di capo ai dui ongari questa lor frenesia. Come il re fu giunto, cosí i dui baroni il suplicarono che degnasse fare che il signor Ulrico si mettesse a far patto con loro, perché essi di grado, non conducendo a effetto quanto si vantavano fare, volevano perder tutto il loro avere e che liberamente fosse donato dal re al signor Ulrico. Ma che essendo quanto affermavano, che il signor Ulrico promettesse la fede sua non offender la moglie e si levasse da la sua falsa openione e credesse le donne esser naturalmente pieghevoli a le preghiere degli innamorati. Il cavalier boemo, che per fermo teneva la sua donna esser onestissima e leale e fedele, e credeva come al Vangelo al parangone de l’imagine, che in tutto quel tempo che era stato lontano mai non aveva veduta pallida né nera, ma talora gialla, secondo che da alcuno era d’amore richiesta, e che subito ritornava al suo nativo colore, disse ai baroni ongari: — Voi sète entrati in un gran pecoreccio, dove anco a me piace di entrare, con questo patto, che io vo’ sempre poter far di mia moglie ciò che mi piacerá. Del resto, io metterò tutto quello che in Boemia ho a scotto, con quello che voi detto avete di mettere, che la donna mia non recherete a far la voglia vostra giá mai, e io non farò né a lei né ad altri di questo motto nessuno. — Contrastarono sovra questo piú e piú volte. A la fine, essendo a la presenza del re e de la reina e di nuovo stimolato il boemo da la trascuraggine dei dui ongari, egli cosí disse: — Poi che il signor Uladislao e il signor Alberto — ché cosí i dui ongari si chiamavano — sono pur disposti di mettersi a la prova di ciò che si vantano, quando sia con buona grazia e licenza vostra, sacro re e voi madama reina, io sono presto accordar loro quanto domandano. — E noi — risposero gli ongari — di nuovo affermiamo tutto ciò che abbiamo detto. — Il re fece assai per levarli da questa lite, ma dai dui ongari molestato interpose il decreto regale secondo che tra le parti era convenuto. I dui baroni, veduto lo scritto decreto reale, ne presero copia, ed il simile fece il boemo. Andarono poi i dui ongari a mettersi ad ordine e conchiusero tra loro che il signor Alberto fosse il primo che andasse a provar la sua ventura con la donna, e che dopo un mese e mezzo vi andarebbe il signor Uladislao. Partí il signor Alberto con dui servidori ben in ordine e dirittamente andò al castello del boemo. Quivi giunto, dismontò ad un albergo ne la terra, e domandando de le condizioni de la donna, intese quella esser bellissima e sovra modo onesta e tanto innamorata del marito che nulla piú. Nondimeno punto non si sgomentò, ma il dí seguente, vestitosi riccamente, andò al castello e fece intender a la donna che voleva visitarla. Ella, che cortesissima era, lo fece entrare e molto graziosamente lo raccolse. Si meravigliò forte il barone de la beltá de la donna e de la sua leggiadria e dei bei modi ed atti onesti che in lei vedeva. Essendo poi assisi, il giovine disse a la donna che, mosso da la fama de la sua suprema bellezza, era partito da la corte per venirla a vedere, e che in vero trovava che ella era vie piú bella ed aggraziata di quello che si diceva. E su questo cominciò a dirle molte ciance, di modo che ella subito s’avvide di ciò che egli andava cercando e dove voleva con la barca arrivare. Il perché, a fine che egli piú tosto pigliasse porto, cominciò la donna entrare in ragionamenti amorosi ed assicurarlo a poco a poco. Il barone, che non era quello che si persuadeva d'essere, anzi era mal pratico e di poca levatura, non cessò di cicalare che si scoperse esser di lei fieramente innamorato. La donna, cosí leggermente mostrandosi schifa di cotali ragionamenti, non restava di farli buon viso, di modo che l’ongaro in dui o tre giorni altro non fece che combatterla. Ella, veggendolo augello di prima piuma, fece pensiero di fargli un sí fatto giuoco, che per sempre di lei si ricordasse. Onde non dopo molto, mostrando non sapersi piú dai suoi colpi schermire, gli disse: — Signor Alberto, io credo che voi siate un grande incantatore, perciò che egli è impossibile che io non faccia il voler vostro. Il che sono io presta a fare, mentre una cosa ne segua, che è che mio marito mai non lo sappia, perciò che senza dubio mi anciderebbe. E a ciò che nessuno de la casa se ne accorga, voi dimane su l’ora del mangiar verrete, com’è la costuma vostra, in castello, non facendo né qui né altrove dimora, ma subito vi ripararete ne la camera de la torre maestra, su la porta de la quale sono in marmo intagliate l’arme di questo regno, ed entrato dentro serrarete l’uscio. La camera trovarete aperta, ove io dopoi me ne verrò, e potremo a nostro agio senza essere visti da persona, ché provederò che nessuno ci sia lá a torno, potremo, vi dico, godere del nostro amore e darci buon tempo. — Era questa camera una prigione fortissima, che fatta fu anticamente a posta per tenervi entro alcuno gentiluomo che non si volesse far morire, ma tenerlo incarcerato fin che vivesse. Il barone, avuta questa cosí al parer suo buona risposta, si tenne per il piú contento ed aventuroso uomo del mondo e non averia voluto acquistar un reame. Onde, ringraziata quanto piú seppe e puoté la donna, si partí e ritornò al suo albergo, pieno di tanta gioia e tanto lieto che non capeva nel cuoio. Il dí seguente, come fu venuta l’ora, il barone andò al castello, e non vi ritrovando persona entrò dentro e secondo l’ammaestramento de la donna andò di lungo a la camera, e quella trovata aperta, come fu entrato spinse l'uscio al muro, che da se stesso si serrò. Era l’uscio di modo acconcio, che di dentro non si poteva senza la chiave aprire, ed oltra questo aveva di fuori una fortissima serratura. La donna, che non molto lontana era in aguato, come sentí l’uscio essersi chiavato, uscí de la camera ove era, ed a la camera dentro a cui il barone stava arrivata, quella di fuori via serrò, e chiavata la serratura portò seco la chiave. Era quella camera, come s’è detto, ne la torre maestra, e in essa aveva un letto assai ben in ordine; la finestra che a quella dava il lume era di modo alta, che senza scala non vi si poteva uomo affacciare; del resto era assai accomodata per una onesta prigione. Quivi entrato che fu, il signor Alberto si pose a sedere, attendendo, come i giudei fanno il Messia, che la donna, secondo che detto gli aveva, venisse a visitarlo, e mentre stava in questa aspettazione e mille chimere tuttavia faceva, ecco che sentí aprirsi un picciolo portello, che era ne l’uscio di essa camera, il quale era tanto picciolo che a pena bastava a porgervi per entro un pane ed un bicchiero di vino, come si suol porgere ai prigionieri. Egli, che credeva che fosse la sua donna che venisse a vederlo e donargli il suo amore, si levò, e levandosi sentí una voce di donzella, che dal bucolino cosí gli disse: — Signor Alberto, mia padrona, la signora Barbera — ché tale era il nome de la donna del castello — vi manda per me a dire che, essendo voi venuto a questo suo luogo per rubarle il suo onore, che come ladrone vi ha impregionato e intende di farvi portar quella penitenza che le parrá convenevole e che il peccato vostro merita. Pertanto, mentre che costá dentro voi starete, volendo manigar e bere, egli sará forza che voi ve lo guadagnate con il filare, come fanno le povere donne per sostenimento de la vita loro. Bene vi assicuro che, quanto piú di filo filarete, tanto i cibi vostri saranno meglio conditi e in piú copia. Altrimenti voi digiunarete in pane ed acqua. E questo vi sia per sempre detto, perché altro motto di questo non vi si fará. — Cosí parlato, la donzella riserrò il portello e se ne ritornò a la sua signora. Il barone, che si credeva esser venuto a nozze e che per meglio correr la posta il matino niente o poco mangiato aveva, a cosí strano annunzio restò il piú stordito uomo del mondo, e quasi, come la terra sotto i piedi mancata li fosse, in un tratto gli fuggirono tutti gli spiriti, e perduta ogni forza e lena si abbandonò e cadde sovra il battuto de la camera, di modo che chi veduto l’avesse l’averebbe giudicato piú morto che vivo. Stette cosí buona pezza, e poi alquanto in sé rivenuto non sapeva se si sognava o pur se era vero ciò che da la donzella udito aveva. A la fine, pure veggendo e per fermo tenendo che come augello in gabbia egli era in prigione, di sdegno e di rabbia pensò morirsi ed impazzire, e lungamente tra sé come forsennato farneticando, né sapendo che si fare, passò tutto il rimanente del giorno passeggiando per la camera, vaneggiando, sospirando, bravando, bestemmiando e maledicendo l'ora e il dí ch’in sí fatto farnetico era entrato di voler espugnare l’onestá de l’altrui moglie. Gli veniva in niente la perdita dei suoi beni che gliene seguiva, avendoli con l’autoritá del re messi in compromesso. Lo affligeva sovra modo la vergogna, lo scorno e il vituperio che, sapendosi questo fatto in corte — ché esser non poteva che da tutto il mondo non si sapesse, — ne aspettava, e pareva talora che il core da due mordenti tanaglie stretto e sterpato gli fosse, di maniera che perdeva quasi in tutto ogni sentimento. Volteggiando adunque per la camera furiosamente e qua e lá dimenandosi, vide a caso in un canto di quella una conocchia carica di lino, e il fuso al lino appiccato, e vinto da la còlera fu il tutto per rompere e straziare; pure, non so come, egli si ritenne. Era su l’ora de la cena, quando ritornò la donzella a lui, la quale aprendo il portello salutò il barone e gli disse: — Signor Alberto, io sono venuta a prender il filo che filato avete a ciò che io sappia che cena vi debbia recare. — Il barone di malissimo talento pieno, con fellone animo, se prima era in còlera, a questo protesto salí in molto maggiore, e cominciò a dirle le maggiori villanie del mondo, che mai a donna di cattiva vita fossero dette, e proverbiare disonestamente la donzella, bravando contra lei come se in libertá e ad alcun suo castello si fosse trovato. La donzella, da la padrona sua instrutta, ridendo gli disse: — Signor Alberto, voi, per la mia fede, avete un grandissimo torto a braveggiare contra di me e dirmi villania. Poi questi vostri farnetichi costá dentro montano nulla. Sapete bene che ambasciator non porta pena. La mia signora vuol sapere da voi che cagione vi ha mosso a venir qui, e se ci è nessuno che de la venuta vostra sia consapevole. Questo, oltra il filare, conviene che voi mi dichiate. Voi sète ridotto a tale, che date dei calci al vento e pestate acqua in mortaio, se pensate quindi uscir giá mai, se voi non filate e non dite ciò che vi ho richiesto. Sí che passate questa vita pazientemente, perciò che altro modo né rimedio ai casi vostri non ci è, e pensando di far altrimenti voi vi beccate il cervello. Questa è la ferma e determinata conchiusione, che altro non avete a mangiare, che un poco di pane e d’acqua, se non filate e non dite se vi è chi sappia il fine, perché qui siate venuto. Se volete vivere, mostratemi del filo e dite la cosa com’è. Se non, ve ne rimanete. — E veggendo che filato non aveva né disposto era dire ciò che se gli domandava, chiuse il portello. Il mal arrivato barone quella sera non ebbe né pane né vino. Onde, perché proverbialmente si dice che chi va a letto senza cena tutta la notte si dimena, egli mai non chiuse occhio in tutta la notte. Ora, come fu il barone serrato in camera, in quel punto, per commissione de la donna, furono segretamente e con destrezza sostenuti i servidori e i cavalli del signor Alberto, ed insieme con le robe di quello ridotti in un luogo appartato, ove erano benissimo del vivere provisti e non mancava loro altra cosa che la libertá. Si fece dapoi spargere la voce che il signor Alberto se n’era tornato in Ongaria. Ma tornando al cavalier boemo, vi dico dunque che egli, sapendo uno dei dui competitori ongari essersi da la corte partito e cavalcato in Boemia, ognora contemplava la incantata imagine per vedere se di colore si cangiava. Onde, in quei tre o quattro giorni che l’ongaro cercava renderla verso sé pieghevole, in tutte l’ore che egli le parlava vedeva il boemo la sua imagine farsi di color giallo e poi ritornare al suo nativo colore. E veggendo che piú non si cangiava, tenne per certo il barone ongaro esser stato repulso e niente aver operato. Del che si trovava sovra modo contento, parendogli di poter esser sicuro de la onestá de la moglie. Tuttavia egli in tutto non si assicurava, né il core gli stava ben riposato, dubitando che il signor Uladislao, che ancora partito non s’era, non fosse piú del compagno aventuroso ed ottenesse ciò che l’altro non aveva potuto acquistare. Il barone, che imprigionato si trovava, non avendo il dí innanzi a la sua presura mangiato cosa alcuna e la notte nulla dormito, venuta la matina, dopo che molto e molto ebbe ai casi suoi pensato, veggendo che quindi non aveva rimedio d’uscire se a la donna non ubidiva, fece di necessitá vertú e si elesse, per guadagnar il vivere, manifestar la convenzion sua e del compagno fatta con il cavaliero e prender la conocchia e filare. E ancor ch’egli mai filato non avesse, nondimeno, ammaestrato da la necessitá, cominciò a la meglio che sapeva, preso il fuso, a filare, filando ora sottile ora grosso ed ancor di mezza qualitá un filo cosí sgarbato, che averebbe fatto di buona voglia rider, qualunque persona veduto l'avesse. Tutta la matina adunque assai si affaticò a filare. Venuto dipoi il tempo del desinare, ecco venire la consueta damigella, la quale, aperto il finestrino, domandò il barone se disposto era rivelar la cagione che in Boemia condotto l’aveva e quanto filo da lui si era filato. Egli, tutto vergognoso, disse a la donzella tutto ciò che con il signor Ulrico s’era pattuito, e poi le mostrò un fuso di filo. La giovane alora sorridendo gli disse: — La bisogna va bene. La fame caccia il lupo fuor del bosco. Voi avete ottimamente pensato, avendomi detto il fatto come sta, e filato sí bene, che io spero che del vostro filo faremo de le camiscie a la nostra padrona, che le serviranno in luogo di stropicciatoio, se le rodessero le carni. — Fatto questo, ella recò al barone di buone vivande per desinare e lo lasciò in pace. Tornata poi a la signora, le mostrò il filo e le manifestò tutta l’istoria del patto che era tra il signor Ulrico e i dui baroni ongari, del che la donna, ancor che sbigottita dei lacci che costoro tesi le avevano, si trovò perciò assai contenta che la bisogna andasse come andava e che il marito conoscesse la sua integritá ed onestate. Prima adunque che volesse avisare il marito di cosa alcuna, si prepose ne l’animo di voler attendere l’avvenimento del signor Uladislao e a lui anco dare il castigo che meritava de la sua sí trascurata e disonesta openione, meravigliandosi forte che tutti dui i baroni fossero stati tanto temerari e presentuosi, che a sí fatto rischio, non conoscendo che donna ella si fosse, avessero tutti i beni loro compromessi. Conobbe pertanto ch’eglino devevano aver de lo scemo ed esser troppo arditi. Ma per non discorrere di passo in passo le cose particolari che a la giornata avvennero, ché troppo lunga istoria e forse rincrescevol sarebbe, vi dico che il barone posto in gabbia in poco tempo apparò assai convenevolmente a filare e filando passar la sua disaventura. La damigella faceva portar molto abondevolmente di buoni e delicati cibi, ed essendo richiesta d’andar a ragionamento con il barone, mai non volle acconsentirlo. In questo tempo il signor Ulrico tutto il dí vedeva e rivedeva la sua bella imagine, la quale sempre ritrovava d’un tenore, bella e colorita. S’era giá infinite volte avvertito da alcuni come il cavalier boemo mille fiate il dí apriva la borsa e, cavatone un picciolo scatolino, intentamente ciò che dentro vi era risguardava, e poi chiusolo il riponeva ne la scarsella. Onde essendo da molti domandato che cosa ella si fosse, a persona non l’aveva voluto palesar giá mai. Né mai pertanto vi fu chi al vero s’apponessi. E chi, per Dio, averebbe mai cosí fatto incantesimo imaginato? Tuttavia, oltra gli altri, il re e la reina volentieri averebbero inteso che faccenda fosse quella che il cavalier boemo tanto intentamente e cosí spesso contemplava; nondimeno non parve loro di cotal fatto chiedergli la cagione. Era giá passato piú d’un mese e mezzo che il signor Alberto era da la corte partito e divenuto castellano e fatto gran filatore. Onde, veggendo il signor Uladislao che, secondo che tra loro si era convenuto, il signor Alberto non gli mandava né messo né ambasciata come a lui il fatto fosse successo, stava in gran pensiero di ciò che far devesse, varie cose tra se stesso piú volte imaginando. Cadutogli poi ne l’animo che il compagno felicemente al fine de l’impresa fosse pervenuto ed avesse colto il desiato frutto da la donna, e che, immerso ne l’ampio e cupo pelago dei suoi piaceri, si fosse l’ordine preso smenticato e non si curasse di dargliene avviso, deliberò mettersi in cammino e tentar anch’egli la sua fortuna. Pertanto, non dando molto indugio a l’essecuzione del suo pensiero, ordinò tutto quello che gli parve necessario per questo viaggio, e montato con dui famigli a cavallo, si mise a cavalcare verso Boemia, e tanto di giorno in giorno caminò, che pervenne al castello ove la bella ed onestissima donna dimorava. E sceso a l’ostello ove anco il signor Alberto s’era da prima alloggiato e di lui diligentemente spiando, intese quello molti dí innanzi essersi partito. Del che forte meravigliandosi non sapeva che cosa del fatto di quello imaginarsi. E il tutto se non come in effetto era pensando, propose di mettersi a la prova di quello per cui d’Ongaria s’era partito. Investigando poi de le maniere de la donna, quello ne intese che per quella contrada era publica voce e fama, cioè che ella senza pari si predicava esser gentile, saggia, avvenevole ed onestissima. Fu subito la donna avvertita del giunger del barone, e sapendo la cagione per cui veniva, seco stessa deliberò pagare anco costui di quella moneta ch’egli andava ricercando. Essendo adunque il barone ongaro il giorno seguente andato al castello, fece dire che voleva la signora di quello, venendo da la corte del re Mattia, visitare e farle riverenza. Dinanzi a la quale essendo intromesso, fu da lei con allegro e piacevol viso ricevuto. Entrando dapoi in diversi ragionamenti e mostrandosi la donna molto festevole e, come si dice, buona compagna, entrò il signor Uladislao in openione che in breve verrebbe de la sua impresa a capo. Tuttavia, per questa prima volta, egli non volle a nessuna particolaritá del suo proponimento discendere, ma le parole furono in generale, che udita la fama de la sua beltá, de la leggiadria, de la piacevolezza e bei costumi, che, essendogli bisognato venir in Boemia per suoi affari, non s’era voluto partire senza vederla, e ch’in lei aveva trovato molto piú di quello che la fama apportava. E cosí, passata quella prima visitazione, se ne ritornò al suo albergo. La donna, partito che fu di castello il baron ongaro, seco prepose che ’l signor Uladislao non era da tener troppo a bada, molto ne l’animo suo essendo contra i dui ongari adirata, parendole che troppo presuntuosamente si fossero gettati a la strada, come publici assassini, per rubarle e macchiarle il suo onore e metterla in continova disgrazia del marito, anzi al rischio de la morte. Fatta adunque conciar un’altra camera, che era a muro di quella ove il compagno filava, come il signor Uladislao fu tornato, cominciò fargli buona cera e dargli ad intendere che per lui ardesse. Né guari stette, ch’egli si trovò in prigione, al quale la solita damigella, per un buco che ne l’uscio era, fece intendere, se viver voleva, che gli conveniva imparar a dipanare, e che guardasse in un canto de la camera e vi troveria alcune accie di filo ed un arcolaio. — Attendete — diceva ella — a dipanare, e non perdete tempo. — Chi avesse alora veduto in viso quel barone, averebbe una statua di marmo piú tosto veduta che figura d'uomo, quasi ch’egli arrabbiò di stizza e fu per uscir di sentimento. Veggendo poi ch’altro compenso a la sua rovina non v’era, passato il primo dí, cominciò a dipanare. La donna dopoi fece liberare i famigli del signor Alberto, ed insieme con quelli del signor Uladislao li fece menar a le camere dei lor padroni a ciò vedessero come il viver si guadagnavano. E fatto prender i cavalli e tutte le robe dei baroni, accomiatò i servidori che se n’andassero. Da l’altra parte mandò un suo uomo al marito avvisandolo di quanto fatto aveva. Il cavalier boemo, avuta cosí buona nuova, andò a far riverenza al re e a la reina e in presenza loro narrò tutta l’istoria dei dui baroni ongari, secondo che per lettere de la moglie aveva inteso. Restarono pieni d’ammirazione il re e la reina e sommamente commendarono l'avvedimento de la donna e l'ebbero per onestissima, saggia e molto scaltrita. Domandata poi dal signor Ulrico l’essecuzione de la convenzion pattuita, il re, fatto unire il suo conseglio, volle che ciascuno dicesse il suo parere. Onde, per deliberazione presa, fu mandato il gran cancegliero del regno con dui consiglieri al castello del cavalier boemo per far il processo di quanto i dui baroni fatto avevano. Andarono e fecero diligentemente il tutto, ed avendo essaminata la donna e la donzella ed alcuni altri de la casa, essaminarono anco i baroni, i quali, alquanti dí avanti, aveva la donna fatto metter insieme, a ciò che filando e dipanando si guadagnassero il vivere. Il gran cancegliero, formato il processo, ritornò a la corte, ove il re Mattia insieme con la reina e con i principali baroni del regno e tutti i conseglieri, ventilata maturamente questa cosa dei baroni ongari e del cavalier boemo, dopo molte questioni, tenendo la reina la parte de la donna e prestando il favor suo al boemo, sentenziò esso re che il signor Ulrico avesse il possesso di tutto l’avere e beni mobili e feudi dei dui baroni, per lui e suoi eredi perpetuamente, e che essi baroni fossero banditi da tutti dui i regni d’Ongaria e Boemia, con pena che ogni volta che vi ritornassero fossero publicamente dal manigoldo frustati. Fu la sentenza messa ad essecuzione, perché il cavalier boemo ebbe il tutto e i dui sfortunati ongari trasportati fuor dei regni e dichiaratoli la sentenza contra loro fulminata, la quale fu da molti reputata troppo rigida e severa, massimamente dagli amici e parenti dei dui baroni. Nondimeno, essendo chiara la pattuita convenzione, fu da tutti giudicata giusta, a ciò che per l’avvenire fosse in essempio a molti, che leggermente, senza fondamento alcuno, giudicano tutte le donne esser d’una qualitá, veggendosi per esperienza ogni dí il contrario, perché tra le donne ce ne sono di varie maniere, come anco sono gli uomini. Volle poi il re con la reina che la valorosa ed onesta donna venisse a la corte, ove da loro fu benignamente raccolta e da tutti con infinita meraviglia mirata, e la reina, presala per dama di onore, le ordinò grossa provigione e sempre l’ebbe cara. Il cavaliere, cresciuto in roba e degnitá e dal re molto accarezzato, visse lungamente in pace e tranquillitá con la sua bellissima donna, e non si scordando il pollacco, facitor de la meravigliosa imagine, di danari e d’altre cose gli mandò un ricco dono.