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Novella XXXIX - Filippo duca di Borgogna si mette fuor di proposito a grandissimo periglio
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IL BANDELLO

al valoroso signor

luigi gonzaga detto rodomonte

marchese


Si fanno molte fiate de le cose le quali, innanzi che la fine loro si sappia, molto mal agevolmente si può giudicare se sono di buona sorte o cattiva, seguendo quella regola generale che ogni cosa sortisce la denominazione sua dal suo fine, e quella il cui fine è buono si dice buona, ove per il contrario quella il cui fine è tristo sará anco ella chiamata trista. Sono anco molte operazioni umane de le quali senza che la fine loro si veggia, se tu dirai a uomo di giudicio: — Io vorrei far cosí per tale e tal rispetto, — egli ti saperá molto ben dire se son cattive o no, ben che talora paia che il fine sia riuscito buono. E di questa sorte si veggiono esser infinite azioni ed opere dei prencipi e grandi uomini i quali il piú de le volte, massimamente essendo giovini e nodriti licenziosamente, metteno fuor di proposito la vita loro a pericolo di morte e di perder in un tratto lo stato e la vita ed insiememente l’onore. Ed ancora che talora si consegua il desiato fine, nondimeno si vede la cosa esser fatta sí fuor di ragione che non può colui che la fa, schifare che maestro Pasquino non canti e dica che molto bene gli sarebbe avvenuto che andando cercando il male, come fanno i medici, se il malanno gli fosse dato; come ben sovente ho sentito dire del signor Gianfrancesco marchese di Mantova vostro zio, il quale ne la sua gioventú andava per Mantova la notte tutto solo con la spada e la rotella, e con quanti s’abbatteva voleva a mal grado loro venir a la mischia e con l’armi far questione, e la faceva il piú de le volte; e non essendo conosciuto ritrovava talora chi lo pettinava senza pettine e gli dava de le ferite, le quali il coraggioso prencipe si portava pur in pace. E se una notte, essendo a le mani con un bravo e gagliardo giovine, non gridava: — Io son Francesco di Gonzaga, — era senza dubio ammazzato. Onde ragionandosi un dí a Diporto di questi capricci che fuor di proposito vengano ai prencipi, e specialmente di quelli del detto signor marchese, a la presenza di madama Isabella da Este sua consorte, il signor Giovanni Gonzaga vostro zio, uomo tanto ragionevole quanto altro ch’io conosca, narrò a questo proposito una istoria, la quale io che l’ascoltai subito scrissi. E sovvenutomi che voi, quella notte che a Castel Gifredo tutta intiera stemmo a ragionar di versi e di cose de la lingua volgare, mi diceste che volevate che io vi donassi una de le mie novelle, questa vi dono e sotto il vostro nome voglio che sia veduta. Se ella poi non è con quel candore scritta che voi le vostre rime cantate, ricordatevi che a tutti non è concesso navigar a Corinto. Pigliate il mio buon animo e sodisfatevi di quello. State sano.

NOVELLA XXXIX

Filippo duca di Borgogna si mette fuor di proposito

a grandissimo periglio.

Volendovi, madama illustrissima, narrare uno azzardo che fece de la vita sua Filippo dei reali di Francia, duca di Borgogna, signor de la Fiandra, di Hainault, di Olanda e di molti altri paesi, a ciò che meglio si conosca la cagione che gli diede il motivo di cotal capriccio, egli mi convien fare come fa il gentilissimo musico Francesco da Milano, unico a’ nostri dí e divin sonator di liuto, il quale volendo sonar qualche bella canzone, prima che ce la faccia sentire suona due o tre, come essi le chiamano, «ricercate», a ciò che dapoi meglio l’uomo intenda e gusti l’armonia de la canzone che egli dietro a quelle armoniosamente suona. Io vi dico adunque che Carlo re di Francia, di questo nome quinto, diede a Filippo nomato «l’Ardito» suo fratello per la parte che a quelli che non sono primogeniti si dá, che i francesi chiamano in lingua loro «apennage», la duchea di Borgogna: e non contento di questo, procurò di fargli aver per moglie Margarita figliuola unica di Luigi conte di Fiandra ed ereditaria di quel contado e d’alcuni altri stati, di maniera che lo fece tanto potente che egli non si stimava da meno che il re suo fratello. Morto Filippo, successe Giovanni suo figliuolo, giovine di gran core, il quale accrebbe agli altri stati la contea di Hainault con la Olanda ed altre signorie, e divenne sí potente che non solamente voleva agguagliarsi al re suo zio ma si teneva da piú. Del che ne nacquero infiniti mali e Francia piú volte ne pianse, perciò che essendo a Carlo quinto successo nel reame di Francia Carlo sesto suo figliuolo, il detto duca Giovanni entrò in openione di cacciar gli zii e fratelli del re dal governo del regno e restar egli solo governatore. E per poter piú facilmente pervenire a questo, col mezzo di Raoul di Attovilla ammazzò una notte in Parigi presso a la porta Barbetta Luigi duca di Orliens fratello del re e marito di madama Valentina Vesconte, il quale era di elevato ingegno ed animoso molto. Fatto questo, esso duca avendo prima disposto cavalli per il camino, andò in un dí da Parigi ad Arras, ove sono circa cento miglia de le nostre. E cosí cominciò la nemicizia crudele tra la casa di Francia e quella di Borgogna. Onde fin al giorno d’oggi gli stati soggetti al duca di Borgogna son sempre stati favorevoli agli inglesi contra la corona di Francia. E perciò si giudica che Carlo quinto che fu cognominato «saggio» non troppo saviamente facesse ad alienare il ducato di Borgogna da la corona, il quale suo padre il re Giovanni l’aveva vinto. Occupavano alora gli inglesi parte de la Francia, la Normandia, il ducato di Ginevra che gli antichi dissero Aquitania, Il contado di Tolosa e gran parte di Linguadoca. Ora veggendo i governatori del re Carlo sesto questo disordine, s’affaticarono molto e fecero tanto che seguí certo accordo tra il re ed il duca Giovanni; il quale tornato in Francia e non contento de la morte del duca d’Orliens, tentò con ogni via la rovina dei figliuoli di quello, e sollevando il popolo parigino fece morir molti gentiluomini ed ufficiali d’esso duca, e un’altra volta fuggí via di Parigi e cominciò a mettersi contra la corona di Francia. Il re, turbato che il popolo di Parigi avesse tumultuato, ne fece decapitar molti; onde essendo i parigini molto facili a le mutinazioni si sollevarono un’altra volta, ed il borgognone col mezzo di Giovanni Villiars che era signore de l’Isola di Adam pigliò Parigi, e vi morirono piú di tre mila uomini, tutti gli ufficiali del re ed altri, con il conte di Armignac contestabile di Francia, Enrico di Marli cancegliero del regno, il conte di Gran Prato ed altri signori. Il re in quei di era gravemente infermo nel castello del Lovore, il quale con la reina rimase in poter de’ borgognoni; e se messer Tanegiú di Castello, cavaliero ardito e prudente e creato del duca Luigi d’Orliens morto, non conduceva per la porta de la bastia a Miluno il delfino, egli era o prigione o morto. Fecero adunque i borgognoni di gran danni ed altrettanto ne feee Enrico re d’Inghilterra, il quale cercava con tutti i modi unirsi col duca Giovanni. Ma trattandosi l’accordo tra il delfino, che si scriveva «governator di Francia» ed al quale molti baroni s’erano uniti, ed il borgognone, si elesse una domenica, nel qual di sul ponte di Monasteruolo Faultrione, ove era fatto un tabernacolo, il delfino con il duca Giovanni con dieci cavalieri per ciascuno parleria e si conchiuderia l’accordo. Entrò il determinato giorno dentro il tabernacolo, o sia padiglione che su il ponte era tirato, il delfino con i suoi dieci cavalieri, e da l’altra parte v’entrò il duca con i suoi. Quivi dopo l’accoglienze fatte si cominciò a contrattar de le cose de la pace. Il borgognone che si vedeva esser su l’avvantaggio avendo ne le mani Parigi con il re e la reina, usò di molte parole arroganti e superbe, a le quali monsignor delfino rispose con molta umanitá e prudenza. E perseverando pure il duca in parlar molto superbo e non tenendo conto de la persona del delfino, anzi piú tosto villaneggiandolo, messer Tanegiú di Castello che era uno dei dieci cavalieri del delfino, non potendo sofferire la superbia del borgognone e bramoso di vendicar il suo duca Luigi, alzò una azza che aveva in mano e quanto piú gagliardamente puoté diede una gran percossa sul capo al duca di Borgogna e subito l’ammazzò. Di che sbigottiti quelli che erano seco e dubitando non esser morti, tutti fuggirono via, ed il delfino con i suoi si ridusse anco egli in salvo. Filippo figliuolo del duca Giovanni morto e secondo di questo nome duca di Borgogna, che era rimaso in Parigi, udita la trista novella de la morte del padre, trovandosi ne le mani il re e la reina di Francia, senza pensarvi troppo su gli diede tutti dui in poter d’Enrico re d’Inghilterra e gli lasciò anco Parigi, di modo che il re Carlo sesto e la moglie morirono in mano degli inglesi. Onde la nemicizia che di giá era cominciata crebbe in odio crudelissimo e tanto fiero che, o fosse il re Carlo settimo o Carlo duca d’Orliens, fu da un di loro indutto un alemanno per forza d’andar a mettersi al servigio di Filippo a ciò che egli con piú comoditá potesse ammazzarlo. Era il tedesco uomo ben membruto e di gran core e tenuto fortissimo e persona audace per dar fine ad ogni grande impresa, perciò che de le sue forze e de l’animositá aveva in molti luoghi fatto fede. Andò il tedesco e s’acconciò con Filippo con assai buona condizione e cominciò a servirlo molto bene. Ora, che che si fosse, la cosa fu fatta intender al duca Filippo, il quale avvertito de l’animo del tedesco il domandò un giorno perché s’era partito di Francia e lasciato il soldo che giá qualche tempo aveva continovato. Egli allegò certe sue apparenti ragioni, le quali Filippo mostrò di credere e gli disse che attendesse a ben servire. Era in quei giorni fuggito di Francia Luigi delfino, che poi fu re di Francia morto il padre, e s’era accostato al duca Filippo dal quale fu tenuto molti anni onoratamente. Esso duca Filippo sapeva certo che il delfino non sapeva cosa alcuna del maneggio del tedesco, e stava sempre con gli occhi aperti a ciò che talora l’alemanno, che Beltrando aveva nome, non gliel’accoccasse. Da l’altra parte non cessava tutto il di fargli carezze e donargli bene spesso di ricchi doni. Beltrando che con malissimo animo era venuto ai servigi del duca borgognone, o che cangiata avesse la malevoglienza in amore o che mai non avesse trovata occasione di commetter ciò che era venuto per fare o che forse non ardisse mettersi a tanto rischio, attendeva diligentemente a servire e far quanto il duca gli comandava. Esso duca che mai non si era potuto accorgere che Beltrando avesse animo d’ammazzarlo e che giá era passato l’anno che ai suoi servigi lo teneva, per non stare di continovo in sospetto, deliberò provare se egli era cosí animoso e gagliardo come la fama il predicava. E non volendo communicar l’animo suo con persona alcuna, fece di quelle cose che sovente fanno i prencipi giovini, che fuor di proposito, come poco innanzi si questionava, metteno la signoria e la vita a periglio. Egli fece far due buonissime spade e dui pugnali tutti cosí simili che tra le due spade non ci era differenza di cosa del mondo ed il medesimo era dei pugnali, ed ogni cosa fece fornire d’una stessa foggia. Fece anco far calze, giubboni e dui sai d’un medesimo garbo con dui cappelliin tutto simigliantissimi. Era Beltrando de la propria grandezza e grossezza che era il duca Filippo. Ora volendo un giorno il duca ultimar questa pratica e venire al cimento de le forze di Beltrando, ordinò una caccia di porci cinghiari in una de le sue foreste, e quel giorno che si deveva andar a la caccia volle che Beltrando si vestisse con lui di quei panni che aveva fatto far cosí simigliami. E cosí Beltrando si calzò le calze, si mise il giubbone e il saio che il duca gli avea fatti dare, con il cappello. Essendo poi per montar a cavallo, il duca gli donò un buonissimo corsiero. Onde, come si vide Beltrando esser d’una foggia vestito simile al duca e che si seppe il duca esserne stato autore, fu da tutta la corte giudicato questo esser un segno che il duca molto l’amava e che l’aveva per suo favorito. Andarono a la caccia, ove dopo che furono dimorati buona pezza e che furono ammazzati duo grandi cinghiari, Filippo chiamò a sé questo Beltrando e gli disse: — Beltrando, va’ a la tal parte di questo bosco e lá tutto solo m’aspetta. — Il che egli subito fece, sapendo molto bene il luogo perché sovente Filippo soleva andarvi a diportarsi. Come egli fu partito, il duca celatamente, che nessuno se n’avvide, gli andò dietro e poco dopo lui aggiunse al deputato luogo, che era un praticello di minutissima erbetta cinto d’ogn’intorno da spessi e altissimi arbori, e per una vietta vi si poteva entrar comodamente dentro, la quale era capace di due o tre persone, di modo che pareva proprio un campo o steccato fatto a posta per combattervi duo guerrieri. Quivi arrivato, Filippo disse a Beltrando che smontasse ed attaccasse il suo corsiero ad uno di quegli arbori, ed egli altresí dismontò dal suo e lo legò ad un tronco. Come tutti dui furono a piedi, attendendo Beltrando ciò che questo volesse dire, il duca alora cacciata la sua spada del fodro, con alta e ferma voce gli disse: — Beltrando, metti mano a la tua spada e da me ti diffendi fino che tu puoi, ché io non vo’ vantaggio nessuno da te. Sforzati pure di far ciò che tuo padrone che qui ti mandò t’ha comandato, perché io so che tu sei venuto in casa mia per uccidermi. — A queste parole il tedesco tutto sbigottito, cavatasi la spada e quella tratta via, s’inginocchiò e con le braccia in croce domandò perdono al duca, dicendo che era vero ciò che egli diceva, ma che veggendo il bene ch’egli fatto gli aveva, s’era pentito e l’aveva fedelmente servito e che contra lui non prenderebbe l’armi giá mai. Filippo alora gli rispose: — Or via, vatti con Dio con ogni cosa del tuo e fa’ che piú non ti veggia su lo stato mio, ché tu sei un vile e codardo non ti dando l’animo d’essequire ciò che il tuo padrone t’ha comandato. — Il tedesco si parti con piú prestezza che non si dá la fava la notte dei morti. Or sarebbe un bel disputare se il tedesco restò d’essequir l’impresa per viltá o per le carezze e beni ricevuti dal duca, e se questa opera di Filippo, ancor che avesse buon fine, è degna di lode o di biasimo. E questa questione lascierò io, madama, al vostro conseglio ed a questi signori; ed io fin qui avendo ragionato, ascolterò ciò che se ne dirá.

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