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IL BANDELLO
al magnifico e vertuoso
messer
domenico saulo
salute
Il giorno che voi da Genova partiste per andar a Lione, io medesimamente partii per andar a Milano e poi a Roma, e vicino a la porta di san Tomò c’incontrammo e sino a Serravalle sempre andammo di compagnia, cominciando alora la nostra amicizia, la quale fin al presente è durata e durerá con la grazia di Dio tanto che la morte ci divida. Essendo poi indi a molti di messomi in camino per andar a la corte del re Lodovico di questo nome duodecimo, che era a Bles, mi ritrovai in Lione, che di poco innanzi eravate venuto d’Inghilterra. Quivi dimorai io cinque o sei di; ed ancor che i negozi vostri vi tenessero occupato foste sempre meco, e conobbi che negli studi de le buone lettere avevate fatto non poco profitto. Io me n’andai a Bles ove dimorai alcuni mesi; e ritornando a Milano trovai che quivi avevate condutto una casa e attendevate a le cose de la mercadanzia, non interlasciando perciò mai gli studi de le buone lettere e de la filosofia. Vi deste anco a la filosofia platonica ne la quale io molto m’affaticava, avendo trascorso di giá quasi tutti i dialogi platonici. Tutto il di eravamo insieme, di modo che di piú in piú l’amicizia nostra maggior divenne. Fui dopo io dai venti di contraria fortuna molto crollato, come anco voi i suoi soffiamenti travagliarono assai. Ora tirato da la somma umanitá e cortesia del valoroso signor Cesare Fregoso, seco fermato mi sono, essendomi da la sua indicibile cortesia dato il modo che a me stesso ed a le muse vivo. Qui in Verona in casa sua sempre ci sono alloggiati di molti forastieri. Eravi 342 PARTE SECONDA questi di messer Federico Grimaldo che da Vinegia venuto ci era. E ragionandosi del superbo apparato fatto da’ genovesi a Carlo quinto imperadore e di molte mischie fatte con gli spagnuoli, narrò esso messer Federico una novella a quei di avvenuta. Onde avendola io scritta, ho voluto ch’ai numero de l'altre mie novelle si veggia sotto il vostro nome in testimonio de l’amicizia che non solamente con voi ho avuta, ma anco con molti altri de l’onorata famiglia Saula, e spezialmente con quella benedetta anima di vostro fratello sempre con prefazione d’onore da deversi nomar, monsignor Filippo Saulo vescovo brugnatense e referendario apostolico, le cui singolari vertù e rarissime doti e ne l’una e l’altra legge eminente dottrina non meritavano che sul fiorir de la sua gioventù morisse. State sano. NOVELLA VI Ligurina rubata al sacco di Genova dopo lungo tempo è da’suoi conosciuta e messa in un monistero. L’aver voi molte cose dette che a la venuta di Carlo quinto imperadore a la città nostra di Genova furono fatte per onorarlo come a tanta sua altezza si conveniva, m’ha a la memoria ri- dutto un accidente che alora occorse. Ed a ciò che voi meglio intendiate il successo del tutto, vi dico che nel tempo che Ottaviano Fregoso collegato con francesi governava il dominio di Genova, gli Adorni, accordatosi col duca di Milano, avendo in lor aita Prospero Colonna capitan generale in Italia cesareo, andarono col campo imperiale a Genova, e per forza entrati dentro la città, quella espugnarono e tutta senza pietà dirubarono. E tra l’altre cose fu rubata una figliuola molto bella, d’età di nove o dieci anni, nobile dei primi di Genova, e fu per mare condutta in Spagna, ove crescendo in beltà e grazia, essendo in età di quattordici anni piacque molto a un figliuolo del duca d’Alva. Tenne adunque modo il giovine d’aver la rapita fanciulla che per ora Ligurina nomeremo, e quella ferventemente amando con lei si dava amorosamente buon tempo. Avvenne indi a poco tempo che Carlo imperadore passò per mare di Spagna in Italia NOVELLA VI 343 e con lui vennero molti signori di quelle contrade, tra i quali era questo figliuolo del duca d’Alva, che insieme con la sua Ligurina montato in nave prese porto a Genova. Ella a cui dj mente la patria e i suoi parenti non erano usciti già mai e tutto il di desiderava tornar a casa, veggendosi ritornata nel suo luogo nativo, tenne modo e via col figliuolo del duca, di cui il nome, essendomi di mente uscito, chiameremo Alfonso, il quale dai forreri si fece dar alloggiamento ne la piazza dei Marruffi per scontro a la casa di messer Stefano Fiesco. Avuto l’alloggiamento secondo che Ligurina aveva disegnato, che era la casa del padre di lei, ella tutta piena d’allegrezza v’entrò, né fu da nessuno de la casa riconosciuta, e nondimeno da lei furono riconosciuti il padre e la madre ed alcuni altri parenti. Alfonso che sommamente quella amava e molto onoratamente in ordine di vestimenti, collane d’oro, maniglie ed altre bagaglie d'ori battuti e di perle e pietre preziose la teneva, e tutti i suoi danari, abbigliamenti e cose di prezzo in mano di continovo le lasciava, attendeva a corteggiar l'imperadore; ed in compagnia di lei dimoravano dui paggi che di,quanto comandava loro l’ubidivano. Egli poi e tutta la sua famiglia per altro nome non la chiamavano che« signora ». Essendo adunque Ligurina in casa sua, per meglio far ciò che deliberato aveva, finse esser cagio- nevol de la persona ed assai indisposta. Alfonso subito ordinò che si mandasse per i medici e non se le mancasse di quanto era bisogno, e molto a la padrona di casa madre di lei la raccomandò. Si scusò Ligurina per alora non voler medico, e che era certa che facendo un poco di dieta e stando in riposo che in breve sarebbe sana. La madre di lei, gentildonna da bene ed amorevole come generalmente sono le donne genovesi, da tutte l'ore l’era a torno e la confortava, offerendosele che senza rispetto veruno ella chiedesse quanto le pareva profittevole, ché al tutto si provederebbe. Parlava Ligurina benissimo in lingua spagnuola, come quella che alcuni anni s’era in Spagna allevata e nodrita, e chiunque parlar l’udiva, teneva per fermo che fosse spagnuola naturale. Ora essendo una matina a buon’ora andato Alfonso a corte e sapendo Ligurina che il costume di 3'I4 PARTE SECONDA quello era non venir se non sul tardi a casa a desinare, cominciò con la madre a ragionar di molte cose e sempre parlar genovese. La madre di lei grandemente di questo meravigliatasi le disse: — Gioia, che è ciò che io sento? Voi parlate si ben genovese che par che siate nata e cresciuta in questa città. Ditemi, signora, ci foste voi mai più altra volta? — Alora Ligurina le disse: — Madonna, fate venir qui vostro marito e il tal e tal uomo e la tale e tal donna, perché io ho cose di credenza da parlar con voi tutti insieme, che vi daranno piacere, a mio giudizio, grandissimo e non poco anco vi faranno meravigliare. — Non fu tarda la donna a far la volontà di Ligurina, ed ella mandati via i paggi in diversi servigi, come i richiesti furono venuti e dinanzi al letto assisi le dissero dopo le convenevoli salutazioni: — Signora, che buone novelle v’hanno fatto chiamarci a la presenza vostra a cotesta ora? Eccoci presti a farvi piacere, — ella a gran pena potendo rattener le lagrime, disse loro parlando pur genovese: —Ecci nessuno di voi che mi conosca o che si ricordi per alcun tempo avermi veduta in questa terra? — Risposero tutti che non sovveniva loro averla né in Genova né altrove veduta già mai, pregandola che volesse dire chi ella fosse. Ligurina alora non si potendo più contenere che amaramente non lagrimasse, dopo molti sospiri e singhiozzi, con meraviglia grandissima di ciascuno che l’ascoltava, rivolta al padre ed a la madre disse: — Io sono, oimè, la vostra sfortunata figliuola Ligurina che quando questa terra, da Prospero Colonna cacciati i signori Fregosi, a favore degli Adorni fu presa, andatoci a sacco ogni cosa, fui da certi fanti spagnuoli rubata e condutta per mare in Spagna, ove il signor Alfonso che qui in casa alloggia, figliuolo del duca d'Alva, essendo io ancora picciolina, m’ebbe ne le mani e m’ha finora tenuta da alcuni anni in qua, dicasi la verità come è, per bagascia. E certamente io son sempre da lui stata tenuta molto onoratamente e mai non m’è mancato cosa ch’io abbia desiderata. Ma perché questa vita, sallo Iddio conoscitore dei cori, mai non m’è piacciuta, quando egli volle venire e navigar in Italia, io feci ogni cosa per venir seco, che di leggero mi venne fatto, e feci che i forreri ci dierono NOVELLA VI 345 questo alloggiamento a fine che io con più sicurezza e salvezza de |a vita mia capitassi a le vostre mani. — Con tutte queste parole che ella disse, non ci era perciò nessuno che la conoscesse; quando la madre ricordandosi d’un nevo che Ligurina aveva vicino a l’ombilico con sette o otto peluzzi neri come spento carbone, disse: — Se questa è nostra figliuola, io tantosto la riconoscerò bene, perché ha un segno che non deverà mentire. — ¡7 già intenerita per l'amor materno che le viscere le commoveva, piena di lagrime a Ligurina accostatasi e a lei che di grado si lasciò vedere, dislacciata la veste, vide il nevo come mille altre volte veduto aveva. Il perché più fisamente guardatala, conobbe certissimamente quella esser Ligurina che al sacco di Genova aveva perduta. Il perché al collo se l'awinchiò e piangendo diceva di quelle pietose parole che in simil casi l'amorevoli madri sogliono dire. E dando Ligurina degli altri segni pur assai, e dal padre e altri parenti che quivi erano, senza dubio bene fu riconosciuta. Ella dopo gli abbracciamenti e festeggiamenti reiterati più volte, disse: — Signori miei, egli non è a la liberazione mia da perder tempo, perciò che se '1 signor Alfonso di questo caso s’accorge, quindi mi leverà e porrammi in parte che voi più non mi vederete. Eccovi qui le chiavi di tutti i suoi forzieri ove tutte le cose sue e le mie son riposte, ch’io nulla voglio del suo. Datele ad una di queste vostre schiave, la più fidata, che come egli venga a casa, gli dica che io son andata in alcun luoco che ella non sa e gli consegni le chiavi. In questo mezzo non si stia a bada né si perda tempo, ma cela- tamente, a ciò che per la via non sia conosciuta, menatemi ad un monistero di sante donne, perché io non intendo restar più al mondo, ma il rimanente de la mia vita servir a Dio. Ché se la mia gioventù è stata disonesta e con poco onor de la casa nostra, ben che sforzatamente in tal miseria sia vivuta, almeno per l’avvenir sia il viver mio tale, quale a la condizione del nostro parentado si conviene, e s'emendi con la conversazione e vita che io con l’aiuto del nostro signor Iddio farò, il cattivo e disonesto viver mio passato. Ma per Dio non perdiamo tempo, ché del tempo a bastanza poi averemo a discorrer i casi nostri. — 346 PARTE SECONDA Conoscendo il padre, madre ed altri parenti che ella diceva il vero, la travestirono e ad un venerabil monastero di sante donne quella condussero, dove fu graziosamente accettata. Ora come a casa ritornò Alfonso, domandò subito che faceva la signora, al quale la schiava che le chiavi avute aveva, s’appresentò e disse: — Messere, la signora m’ ha detto che voleva andar in certo servigio e m’ha lasciate queste chiavi da presentarvi. Eccole qui. — Alfonso pigliate le chiavi, dubitando che ella avesse via portato alcuna cosa, poi che aperti i forzieri non trovò mancar cosa alcuna, anzi vide tutte le vesti ed ori e gioie di Ligurina, rimase forte sbigottito, e quasi indovino del caso seguito, cominciò a far un grandissimo romor per casa e minacciar questi e quelli. E moltiplicando le parole, volendo per ogni modo che il padron de la casa gli facesse trovar la sua signora, ed il padrone rispondendo che non sapeva dove andata fosse e che non era ubligato a guardargli la donna sua, Alfonso che era entrato in còlerà grandissima, gli rispose: — Voi m’avete fatto rubare-Jla signora mia, ed io giuro a Dio che mal grado vostro ve la farò trovare o ad una via o ad un’altra. — E presi alcuni dei suoi servidori, disse: — Io vado a condur gente in qua che vi farà conoscere che cosa è voler beffar un par mio de la casa di Toledo. — E stando sul contendere e gridando di molte parole, la voce andò per la contrada che in tal casa era infra gli spa- gnuoli e genovesi una gran mischia. Il che fu cagione che molti cosi gentiluomini come popolari cominciarono a ridursi verso la casa ove il romor era, chi per meglio intender la cagione de la mischia e chi per mettersi in aita dei suoi contra gli spa- gnuoli, essendosi già fatte alcune questioni per la città ne le quali i genovesi avevano molto maltrattati gli spagnuoli, essendo tra queste due nazioni antica nemicizia. Ora tra molti che al romore concorsero per aiutar quelli de la patria, vi si condusse Giovanni Lavagna, uomo nodrito su l’arme cosi ne le battaglie de la terra come in quelle de la marina, e de la sua persona era uomo assai prode ed animoso nei perigli. Come egli fu giunto a la casa, cominciò a salir le scale per andare in sala ove sentiva esser il romore. Avvenne che essendo già quasi salito, NOVELLA VI 347 che Alfonso al capo de la scala per discender venne, avendo seco alcuni dei suoi servidori. Come egli vide il Lavagna che montava, essendo esso Alfonso in grandissima còlerà e non si potendo in modo alcuno dar pace de la perdita de la sua signora che tanto amava, con uno viso turbato e minacciante voce disse al Lavagna: — Ove ne vai, moro bianco e villano tradi- tor che tu sei ? — Il Lavagna che non era uso a portar di groppa e sofferir che altri l’ingiuriasse, o conoscesse Alfonso o no, gli disse che mentiva e che era un giudeo marrano. Da le parole vennero a menar le mani, di modo che il Lavagna gli tirò una brava stoccata e il passò di banda in banda, onde il povero Alfonso subito mori. Gridarono gli spagnuoli: — A l’arme, a l’arine!—e medesimamente il popolo s’armò, e in quella mischia furono morti alcuni spagnuoli. E se l’imperadore con l’autorità sua non vi s’intrometteva, avevano i genovesi animo di vendicar i ricevuti danni al tempo del sacco di Genova. In quei tumulti il Lavagna dubitando de la giustizia, si parti e si salvò su quello di Piacenza.