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IL BANDELLO
al molto magnifico e vertuoso signore
il signor
giantomaso gallerate
salute
Se io non ho piú tosto che ora mandatovi alcuna de le mie novelle, scusimi appo voi la qualitá dei tempi occorsi, ove io son stato astretto per altrui colpa abbandonar Milano e cangiar abito e costumi, se la vita servar voleva, come appresso a molti gentiluomini e gran signori è notissimo. In tutto questo tempo perciò non è che io non v’abbia avuto nel core e quando è accaduto parlar di voi, non abbia fatto quell’ufficio che le rare vostre vertú ed il debito mio ricercavano. E certissimamente io son quello stesso con voi che era nel tempo che insieme col vostro e mio Lucio Scipione Atellano cosí sovente filosofavamo, e particolarmente quando il signor Prospero Colonna a mie preghiere mitigò la grand’ira che aveva a suggestione d’alcuni invidi contra quei nostri amici. Cosi fosse adesso quel tempo e fosse sempre stato, ché io non sarei ito errando tanti anni quanti m’è stato forza peregrinare. Ma il mondo fu sempre ad un modo, e spesso è avvenuto ed avverrá tuttavia che il giusto patirá quella pena corporale che il peccatore meritamente deverebbe patire. Ora essendo io deliberato metter l’ultima mano a le mie novelle per mandarle fuori e pensando quale vi devesse dare, me n’è venuta una a le mani che avvenne non è lungo tempo in Milano ad un gentiluomo vostro e mio amico. Ella fu narrata dal gentilissimo signor Francesco cavalier degli Uberti mantovano un di che egli si ritrovò a Castel Giffredo a la presenza de le due nobilissime eroine, la signora Ginevra e la signora Gostanza sorelle Rangone, de le quali la prima è moglie del signor Loise Gonzaga, e de l’altra è marito il signor 360 PARTE SECONDA Cesare Fregoso cavalier de l'ordine di Sua Maiestà cristianissima. E perché mi parve assai bella, quella alora scrissi ed ora al vostro vertuoso nome consacro. Degnarete adunque questa mia picciola fatica accettare, che sarà appo voi come un pegno del mio amore e farà talora sovvenirvi del vostro Bandello. State sano. NOVELLA Vili Crisoforo innamoralo d’Apatelea per inganno prende di quella amoroso piacere, che sempre se gli era mostrata ritrosa. Andai non è molto, signore mie nobilissime, per alcuni miei affari a Milano, ove da persone degne di fede mi fu narrato quanto io ora intendo di raccontarvi. Milano, devete sapere, è oggidì la più opulente e abbondante città d'Italia e quella ove più s’attenda a fare che la tavola sia grassa e ben fornita. Ella oltra la grandezza sua che i popoli di molte città cape, ha copia di ricchissimi gentiluomini dei quali ciascuno per sé sarebbe sufficiente ad illustrare un’altra città. E s’un centinaio di gentiluomini milanesi i quali io conosco fossero nel reame di Napoli, tutti sarebbero baroni, marchesi e conti; ma i milanesi in ogni cosa attendeno più a l'essere e al viver bene che al parere. Sono poi tutti molto più vaghi de le belle donne, de le quali assai ce ne sono, e di star continovamente su le pratiche amorose che in città che io mi conosca, e tutti per l’ordinario fanno a’ forestieri di molte carezze e gli vedeno molto volentieri. Stanno dunque tanto più su l’amorose pratiche quanto che vi trovano la pastura più grassa ed abbondante, essendo tutte le donne cosi vaghe degli uomini come essi sono di loro. Per questo si vedeno tutto il di a belle schiere tutte le sorti d’uomini sovra le invellutate e superbamente guarnite mule, sovra correnti e snelli turchi, sovra velocissimi e leggeri barbari, sovra vivaci ed animosi giannetti, sovra feroci corsieri e sovra quietissimi ubini con nuove fogge di vestimenti or quinci or quindi passeggiare, che propriamente paiono pecchie o, come qui si dice, api che a torno a torno ai vaghi fiori vadano scegliendo il mele. Si veggiono altresi di molte indorate carrette NOVELLA Vili con coperte carche di trapunti, che quattro schiumosi corsieri tirano, che par che si veggia trionfar un imperadore, e dentro le carrette vi sono assise di bellissime donne le quali sen vanno per la città diportando. Vi fu non è guari un giovine d’onorata ed antica famiglia, il cui padre è ricchissimo ed egli è nel vero d'ogni vertù che a giovine nobile si convenga compiutamente ornato, il cui nome per buoni rispetti mi piace tacere, ma non senza accomodato nome Crisoforo lo domandaremo. Egli con altri gentiluomini per la città cavalcando, vide una sera in porta una gentildonna molto bella e riccamente maritata, nel cui volto e presenza gli parve veder raccolta quanta mai beltà e vaghezza per a dietro egli avesse veduta. E in quel punto che la vide, si senti cosi de l’amor di lei acceso che deliberò in modo farsele soggetto che l’amor e grazia di lei n’acquistasse. Informatosi adunque chi ella fosse, cominciò due e tre volte il di a passar per la contrada, e veggendola molto spesso in porta e a la finestra e talora in carretta a diporto per la città, se le inchinava facendole riverenza, e con gli occhi ingordi di modo la mirava che ella leggermente de l’amor del giovine s'accorse. E come tutte fanno, gli mostrava buon viso né punto pareva che schifevol fosse d’esser vagheggiata, anzi pareva che caro avesse che egli le fosse servidore. Del che il giovine prese buona speranza e non poteva saziar la vista di vederla. E quanto più la vedeva tanto più gli pareva bella e leggiadra e tanto più si sentiva ne l’amorosa pania invescare. Onde passati già molti giorni e desiderando egli venir a fine di questo suo amore, trovò un messo di cui gli pareva che la donna si potesse fidare e le scrisse una lettera, ove narrandole la sua servitù e quanto de le vaghe bellezze, degli onesti e saggi modi di lei fosse acceso e quanto desiderava per lei spender la roba e la vita, la pregava affettuosamente che degnasse prestargli comoda audienza a ciò che meglio le facesse conoscere qual e quanto era l’amor che le portava. Prese la donna ed accettò l’amorosa lettera, e quella a la presenza del portatore letta e riletta, al messo impose che per i fatti suoi se n'andasse e che più non le mettesse i piedi in casa per simil pratiche, perché ne riportarebbe cosi fatto 362 PARTE SECONDA guiderdone che eternamente gliene dorrebbe. Ultimamente gli disse: — Va’ e di’ a chi ti manda che più noia non mi dia, e che d’altra donna si procacci, perciò che io non sono tale, quale egli forse ha pensato. Io la Dio mercé ho un buon marito, e a quello intendo, come si de’, servar la fede; si che né tu più mi porterai lettere né egli più mi scriverà. — Con questa risposta ritornò il messo al giovine e il tutto puntalmente gli narrò. Ma perché ciascun animo gentile quanto più vede difficultà in una impresa più gagliardamente vi si mette, il giovine per questo non senti punto intepidir le sue fiamme né da^ l’amorosa impresa si ritrasse, anzi più s'inanimò, per altre vie tentò l’animo de la donna. Egli puoté mandar messi, scrivere e riscrivere, pregare, supplicare e far quanto gli piacque; nondimeno da lei risposta buona non ebbe già mai, il che gli era di grandissimo ed infinito dispiacer cagione. Ora amando costui di questo modo e passando un giorno per la contrada a piede, ritrovò la donna che tutta sola era in porta, e facendo buon animo, le fece riverenza e la salutò. La donna gli rese le debite salutazioni molto cortesemente. Il giovine si fermò seco a parlare ed entrò su l’istoria del suo amore. Fu pazientemente ascoltato, e per risposta la donna gli disse: — Signore, io vi ringrazio de l’amore che dite portarmi e ve ne resto con obligo. Ma io sono debitrice ad amar più il marito e I’onor mio che cosa che al mondo sia, e questo per sempre abbiate per detto. Io averò ben cara l’amicizia vostra e potrete sempre che vorrete, parlarmi; ma non mi parlate d’amore. Altrimenti facendo, io non vi darò udienza, e se più messo mi mandarete, io non ne udirò nessuno né più vostre lettere riceverò. E più di questo non si parli. — L’amante tutto sconsolato si parti e andava pur tra sé cose assai pensando sovra questo suo amore. A la fine — egli punto non era melenso né teneva de l’ambrosiano, ma era avvisto e scaltrito — veggendo la durezza di costei che era giovane e fresca, s’imaginò che una di due cose bisognava che fosse, cioè che ella fosse di quelle donne rarissime che degli abbracciamenti dei mariti si contentano, il che non poteva credere perciò che il marito di lei era un poco attempato e malsano, o veramente r NOVELLA VU1 36.5 che ella avesse qualche amante del cui amor godesse e che pertanto ella fosse si dura e rigida. Egli in questa openione fermato ed altro imaginar non potendo, cominciò con quanta mai seppe la maggiore sollecitudine a spiar tutte l’azioni de la donna per veder se poteva intender cosa alcuna, non lasciando perciò in questo mezzo la sua solita servitù. Ora la cosa andò di giorno in giorno cosi in lungo che egli vi s’affaticò più d’un anno prima che mai potesse venir in cognizione chi fosse l’amante che tanto fosse da madonna Apatelea amato, ché tal era di questa gentildonna il nome. Ma poi che assai ebbe cercato e tutto Milano sossopra rivolto, intese a la fine come uno dei primi di Milano era di lei fieramente acceso ed ella di lui e che insieme si godevano. E ben che la pratica fosse segretissima, egli nondimeno che spendeva largamente e sempre portava l’oro in mano, venne per forza di danari in cognizione del tutto. Di questa cosa non poco Crisoforo dolendosi e già geloso di quella divenuto che ancora non possedeva, menava una vita in grandissima amaritudine e tanto rincrescevole che a se stesso quasi veniva in fastidio. Volentieri da cotesta impresa si sarebbe egli ritratto, ma si malagevole il ritirarsi gli era che quanto più cercava la donna cacciarsi de la mente, ella più se ne impadroniva ed egli più fuocosamente l’amava. Combattuto adunque da amore e gelosia, da dolore e da mil- l'altri penaci martiri, cominciò con sagacissima industria, con nuovi modi, con sottilissime astuzie e con diverse maniere a spiar tutta la vita, tutte l’azioni ed il modo che Apatelea teneva a ritrovarsi col suo amante. E perché a l’oro ogni cosa ubidisce, corruppe per forza di danari un amico del suo rivale e fu certificato come la donna assai sovente andava per tempissimo ad una chiesa a la casa sua vicina, e questo faceva ella ogni volta che il marito cavalcava. Avuto questo indizio e inteso che ella entrava poi in una casa che non molto lunge da la chiesa era, ritrovò la casa tenersi a nome del gentiluomo suo rivale; il che più pensieri gli accrebbe, non sapendo a che modo governarsi. Ed ancora che la speranza di posseder la cosa amata si facesse di tempo in tempo minore, nondimeno il disio vie più 3^4 PARTE SECONDA grande che prima si faceva e gravissimo gli era a viver a questo modo. Il perché dopo che assai sovra i casi suoi ebbe pensato, si deliberò mettersi ad ogni rischio pur che per qualche via potesse acquistar la sua donna. Fatta questa deliberazione, cominciò egli ogni matina innanzi il levar del sole andar a la chiesa che detta s’è, ove la donna soleva trovarsi. Egli ci andò più e più giorni indarno. Ora avendo inteso che il marito de la sua Apatelea era la sera cavalcato e ito in contado, la matina molto per tempo se n’andò a la chiesa mostrata e trovò che il prete celebrava la prima messa che si dice innanzi il levar del sole. Arrivato quivi, s’inginocchiò dietro ad una colonna, involto in un tabarrone, perciò che il sacerdote voleva levar il santo sacramento de l'altare. Erano quivi molte donne, tra le quali una in quel tempo alzò il velo che su la fronte le pendeva ed alquanto discoverse il viso. Crisoforo che a costei non aveva messo fantasia perciò che era vestita di panno di lana assai grossamente, come vide levato il velo, subito conobbe che quella era Apatelea tanto da lui disiata. Né a pena conosciuta l’ebbe, che ella che di Crisoforo non s’era avvista si levò e con una sua vecchia usci fuor de la chiesa. Egli non perdendo tempo l'andò dietro lentamente, e seco non aveva se non un solo servidore, che anco egli per non esser conosciuto aveva un tabarro e si copriva quasi tutto il volto. Apatelea che innanzi caminava, come fu a l'uscio de la casa già detta e quello trovato aperto, con la vecchia entrò in casa e l’uscio fermò. Crisoforo che senti la porta esser fermata, tra sé disse: — Or che farò io? Costei è intrata dentro, e senza dubio si deve credere che il suo amante ci sia, o non ci essendo, che in breve le verrà dietro. Se egli c’è, io sono espedito, come si dice, per lettere di cambio; se non c’èe venendo mi truovi qui in questo abito con un sol servidore, che potrà egli pensare? Se io picchio e che mi sia aperto ed il mio rivale sia dentro, che sensazione troverò io d’esser venuto a questa casa? Ma chi sa se egli c’è? chi sa che egli non stia ancor buona pezza a venire? E’si suol dire che chi non s’arrischia non guadagna e che la fortuna aiuta gli audaci. Io vo’ pur provar mia ventura, ed avvengane ciò che si NOVKI.I.A Vili 365 voglia. — Accostatosi adunque a l’uscio, col piede soavemente una fiata picchiò, avendo di già pensata una apparente scusa se il rivale era in casa. Come egli ebbe la porta tócca, incontinente un servidore l’apri; onde Crisoforo senza punto indugiare si mise di dentro, tenendo per fermo che l'amico non ci fosse. Come ei fu dentro, senza altra considerazione spinse fuor di casa colui che aperto gli aveva e fece entrar il suo servidore, e subito inchiavò la porta. Salito poi sovra una scala, senti Apatelea che in una camera con la sua vecchia favoleggiava. Egli entrò dentro e disse: — Dio vi dia il bon giorno, signora mia. — I.a donna come senti la voce e vide che il suo amante non era venuto, tutta si stordi e piangendo disse: — Oimè, chi v' ha qui con- dutto? — Signora e padrona mia unica — rispose Crisoforo, — l’amore che io vi porto ed ho portato già tanto tempo, è stato la mia guida a questo luogo. Il perché umilissimamente vi prego che oramai vogliate aver riguardo a la mia fedelissima servitù e darmi il guiderdone che un cosi sincero e fervente amore merita. — Apatelea alora certe sue favole tessendo, diceva che molto forte di lui e de la sua temeraria presunzione si meravigliava, e che ella non era mica tale, quale forse egli s’imaginava, ma che quivi per certe sue bisogne e non per mal alcuno era venuta. Crisoforo che non voleva perder tempo e lasciarsi la preda scappar di mano, chiamato su il suo servidore, gli comandò che ben fermasse la porta verso la strada e poi che fuor di camera ne portasse la maledetta vecchia, la quale a la padrona s’era piangendo appigliata e non se ne voleva levare. Il buon servidore fece quanto gli era stato imposto, e l’amante a la donna avvicinatosi, piacevolmente cosi le disse: — Che io qui venuto sia non vi deve, signora mia, parer strano, con ciò sia che sapete quanto io v’amo e quante fiate v’ ho supplicato che degnaste darmi la comodità di poter essere insieme con voi. Ora che io ci sono, non crediate che cosi di leggero con le mani piene di mosche mi voglia partire. So che voi venuta qui séte per amor d’altri e so che egli questa casa per tale effetto ha condutta. Egli è gentiluomo e ricco, e questo e vie più maggior bene merita; ma non farà egli già mai ch’io non v’ami e che con ogni 366 PARTE SECONDA mio potere non cerchi goder il vostro amore. E in questo non credo esser di lui men degno. Io pur qui sono, né senza la grazia vostra intendo a modo alcuno partirmi. E nel vero io sarei ben pazzo se quello che tanto ho desiato avendo a salva mano preso, scioccamente lasciassi fuggire. Si che minor male è che voi di vostra voglia quello mi diate che negar non mi potete. E quanto più tardate, voi fate il peggio, perciò che fra questo mezzo potrebbe venir colui a cui nome qui venuta séte, e venendo, altro che scandalo non ne potrà riuscire. Egli è cosi possibile che io ancida lui come egli me. Oltra questo voi rimarreste in bocca del volgo vituperata ed infame ed in perpetua disgrazia di vostro marito. Di me non sa persona che io qui sia, e non si sapendo, che temete voi? E se pur si sapesse che io qui fossi, qual sarà cosi sciocco che pensi mai che io senza aver goduto questa vostra bellezza sia partito? Egli è pure nel vero una espressa pazzia a voler incorrere in infamia perpetua senza cagione. Il perché, signora mia unica da me molto più amata che gli occhi miei propri, non mi vogliate far più languire. Oramai devereste pur esser certa del mio amore, de la mia fede e de la mia perseveranza. Sapete pure quanto è che io v'onoro, v’amo e che vi riverisco. Sapete quante fiate v’ho supplicato che di me vi piacesse aver compassione. Ora che la fortuna ci presta il modo, noi perdiamo, ché tutti dui poi ce ne potremo pentire. — Dette queste parole, egli la volle basciare gettandole le braccia al collo. Ma ella tutta piena di sdegno, quanto più poteva lo ributtava e sospingeva da sé, piangendo e fieramente lamentandosi. Ora poi che Crisoforo gran pezza si fu pregandola affaticato ed ebbe con pazienza sopportato i fastidi de la donna, lasciato il pregare, con minaccevol voce e rigido viso le disse: — Io veggio ora chiaramente che voi bramate che tutto Milano sappia i fatti nostri, i quali, poi che cosi volete, si sa- peranno. Io per viva forza quei piaceri di voi prendendo che più m’aggradiranno, obligo nessuno mai non ve ne averò, anzi come disonesta e rea femina appo tutto il mondo v'andero publicando e vituperando, e a tutti dirò che per danari a voi promessi, v’abbia fatta qui venire. Il che facilmente mi sarà creduto, essendo per l'ordinario più tosto oggidi in queste simil cose data fede a la bugia che a la verità. E cosi voi mai più non averete ardire di lasciarvi veder da persona; e peggio anco ve ne potrebbe avvenire, perciò che sapendolo vostro marito, troverà modo di farvi secretamente morire. — La donna udendo queste fiere minacce e dubitando che il giovine sdegnato come egli diceva e forse peggio poi non facesse, cominciò con dolci e mansuete parole a volerlo mitigare e, se possibil fosse stato, libera da le sue mani partirsi. Ma ella era forte ingannata, e chi vide mai sparviero che la quaglia con gli artigli de l’ugne gremita tenesse, che cosi di leggero andar la lasciasse? Ella puoté dire e pregare, ma il tutto era invano; onde veggendo che nulla profittava, ne le braccia del giovine s’abbandonò. Cosi di comune consentimento, fatti prima egli ed il servidore mille sa- gramenti che questa cosa mai non direbbero, Crisoforo con Apatelea amorosamente si giacque tanto quanto volle. Dopo questo rimase la donna in grandissimo pensiero del servidore che Crisoforo aveva fuor de la porta gettato, dubitando forte ch’egli non avesse ogni cosa al padrone detta. Questo anco non poco premeva l'animo del giovine, conoscendo dever seguir con lui mortai nemicizia. Nondimeno fatto buon animo e lasciata la donna assai sconfortata, usci di casa e per buona sorte riscontrò il servidore che senza aver potuto trovar il suo signore ritornava; onde presolo per la mano, tanto gli seppe dire che egli gli confessò come il padrone trovato non aveva. Di che Crisoforo oltra modo lieto al servidore empi la mano di scudi d'oro a ciò che niente al padrone dicesse, e fece che con questa buona nuova andò a rallegrar la donna, a ciò che non stesse sospesa d’animo; il che fedelmente il servidore fece. Crisoforo poi meglio considerati i casi suoi e tenendo per fermo, a la grande resistenza che ne la donna veduta aveva, che solamente il corpo e non l’animo di quella gli era in poter suo rimaso, temperò il suo amore ed Apatelea più non seguitò, ma lasciò starsi in pace.