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IL BANDELLO
al magnifico e vertuoso
messer
emilio degli emili
Sono, si come sapete, giá alcuni anni che io cominciai a scriver le mie novelle secondo che dagli amici m’erano narrate e per altra via mi venivano a le mani; ed avendone giá scritte molte, fui a mal grado sforzato d'abbandonar Milano per la cagione clie giá vi dissi e d'andarinene peregrinando variamente per Italia. Tornato poi che fui a Milano, trovai con mio grandissimo dispiacere che dai soldati spagnuoli alcuni miei coffani erano stati sconficcati, pensando forse trovarvi dentro un gran tesoro; ma veggendo che altro non c’era che libri, ne portarono via una gran parte e lasciarono i forzieri aperti, di maniera che oltra i libri stampati mi furono rubati molti scritti di mia mano, cosí mie composizioni come di molti belli ingegni de l'etá nostra che io aveva raccolti essendo a Roma, a Napoli e in vari altri luoghi. E tra Paltre cose mi rubarono la maggior parte de le mie rime ed alcune novelle insieme con quel mio gran volume dei vocaboli latini da me raccolti da tutti i buoni autori che a le mani venuti m’erano, il quale tanto vi piacque quando lo vedeste. Di questo libro piú mi grava la perdita che di tutti gli altri, perché mai piú non mi verrá fatto che io abbia l’ozio di durar piú tanta fatica, e ben che io avessi l’ozio, non averò piú la copia di tanti libri quanti alora aveva. Poi è morto il non mai a pieno lodato e degno di viver molti secoli, il dottissimo messer Aldo Manuzio, col cui mezzo non si stampava libro ne la Magna, in Francia e in Italia che io subito non l’avessi. Si che io sono fuor di speranza di mai piú metterlo insieme. Ora avendo io ricuperati alcuni fragmenti cosí de le mie rime come de le novelle, mi son messo a trascrivere esse novelle ed anco — secondo che di nuovo alcuna n’intendo — scriver e come a le mani mi vengono a 422 PARTE SECONDA metterle insieme, non mi curando dar loro ordine alcuno. Onde avendone alquante scritte che sono state da molti lette, m’è stato detto che in due cose sono biasimate. Dicono per la prima che non avendo io stile non mi deveva metter a far questa fatica. Io rispondo loro che dicono il vero che io non ho stile, e lo conosco pur troppo. E per questo non faccio profession di prosatore. Ché se solamente quelli devessero scrivere che hanno buon stile, io porto ferma openione che molto pochi scrittori averemmo. Ma al mio proposito dico che ogni istoria, ancor che scritta fosse ne la più rozza e zotica lingua che si sia, sempre diletterà il suo lettore. E queste mie novelle, s'ingannato non sono da chi le recita, non sono favole ma vere istorie. Dicono poi che non sono oneste. In questo io son con loro, se sanamente intenderanno questa onestà. Io non nego che non ce ne siano alcune che non solamente non sono oneste, ma dico e senza dubio confesso che sono disonestissime, perciò che se io scrivo eh'una vergine compiaccia del suo corpo a l’amante, io non posso se non dire che il caso sia disonestissimo. Medesimamente se la moglie concede il suo corpo ad altri che al marito facendolo duca di Cornovaglia, chi presumerà dire che ella non sia disonesta? Taccio di quelle che con fratelli, cognati, cugini ed altri del proprio sangue si meschiano. Né peccano meno gli uomini de le donne. Ché se l’uomo lasciata la propria moglie morir di freddo sola nel letto, va adulterando le mogli altrui, chi sarà che nomi costui onesto? Egli sarà pur chiamato adultero, e gli adulteri per la legge Giulia deveno esser puniti. Ed in effetto io credo che non si trova nessuno di sana mente che non biasimi gli incesti, i ladronecci, i micidiali ed altri vizi. Confesso io adunque molte de le mie novelle contener di questi e simili enormi e vituperosi peccati, secondo che gli uomini e le donne gli commettono; ma non confesso già che io meriti d’esser biasimato. Biasimar si deveno e mostrar col dito infame coloro che fanno questi errori, non chi gli scrive. Le novelle che da me scritte sono e che si scriveranno, sono e saranno scritte de la maniera che i narratori l’hanno raccontate. Affermo bene averle scritte e volerne de l’altre scrivere più modestamente che sia possibile, NOVELLA XI con parole oneste e non sporche né da far arrossire chi le sente o legge. Affermo anco che non si troverà che ’1 vizio si lodi né che i buoni costumi e la vertù si condannino, anzi tutte le cose mal fatte sono biasimate p l'opere vertuose si commendano e si lodano. E perché avendone alcuna volta parlato insieme, ho trovato che voi séte de la mia openione, io lascerò dire ciò che si vorranno questi cosi scropolosi che forse altra intenzione hanno di quella che ne le parole mostrano, sovenendomi di quello che una volta disse il piacevole e faceto Proto da Lucca al signor Prospero Colonna. Egli diceva che lo scriver le cose mal fatte non è male mentre non si lodino, e che ne la Sacra Scrittura sono adultèri descritti, incesti ed omicidii, come chiaramente si sa. Ora avendone nuovamente scritta una che narrò a una bella compagnia il nostro Pandino da Pan- dino, che è di quelle che muoveno lo stomaco a questi critici, ve la mando e sotto il nome vostro voglio che sia letta, perché essendo voi, come séte, uomo di giudizio, non de lo scrittore vi scandalezzarete ma di chi averà le sconcie e disoneste cose operato, come il dever ricerca. State sano. NOVELLA XI Una donna si trova in un tempo aver tre innamorati in casa e venendo il marito quello mirabilmente beffa. Francesco Sforza, secondo di questo nome duca di Milano, dopo la pace e convenzione fatta a Bologna con Carlo quinto imperadore essendo ritornato pacifico possessore di quel ducato, la maggior parte dei gentiluomini di Milano e del paese quivi intorno, perché le passate guerre avevano lor disfatto le possessioni, ne le quali era di lavoratori, massari, buoi ed altri animali per la cultura de le terre carestia estrema, cercava gente che volesse pigliar le possessioni loro ad affitto e con picciolo pagamento le affittavano; onde molti ne prendevano e massima- mente dei forestieri, con ciò sia cosa che ne traevano grosso profitto. Tra diverse nazioni che vennero a Milano per prender degli affitti, molti bresciani affittate le case loro e le possessioni 424 PARTE SECONDA ad altri, andavano a Milano e nei luoghi circonvicini e attesero ai prender diversi affitti e far i fatti loro. Di questi ne conosco io più di duo paia che vi si son fatti molto ricchi, e tale ne so io che su un affìtto avanzò oltra tutte le spese mille scudi d'oro/ di guadagno in meno di dui anni. Ora avvenne che un bresciano, uomo di poca levatura ma che si pensa esser Salomone, avendo imborsato sotto l’ombra di certo signore a cui serviva su le guerre qualche centinaia di ducati, entrò in umore di voler arricchire. Egli non aveva cosa né bene alcuno stabile in questo mondo e si trovava con moglie e figliuoli a le spalle, e con il salario che aveva dal padrone e facendo trafficar i suoi danari poteva assai scarsamente vivere. Ma entratogli in capo questo ghiribizzo di prender un grande affitto non essendo mai più stato in cosi fatti maneggi, s’accordò con i signori d’una grandissima possessione che è vicina ad Adda, non molto lontana da casa mia, e quivi condusse la moglie e i figliuoli. La possessione era miseramente rovinata e guasta, non v’essendo né lavoranti né bestie, che la guerra e la pestilenza avevano morti, presi e cacciati. Quivi il bresciano attese largamente a spender quella somma di danari che si trovava, facendo quelle riparazioni-che più gli parevano necessarie. E certamente se egli avesse avuto duo mila scudi di contanti da far ciò che a la possessione era bisogno, egli di modo l'averebbe concia che in fine de l’affitto non solamente averebbe cavati tutti i suoi danari ma anco si averebbe imborsato una gran somma di ducati, perché la possessione è molto buona se vi s’attende e grande, e il fieno che fa per esser copiosa d’acque, gli averebbe pagato il fitto. Onde il meschino per voler far il grande e volar senz’ale, non avendo ben misurato le sue forze, in meno di dui anni, avendo l’affitto per sette, si ritrovò con le mani piene di mosche e fu in periglio se non se ne fuggiva di perder la vita. Ma lasciamo questo conto, perché io non mi son messo a dirvi di lui per narrar la fine de l’affitto, che fu che vi perdette tutti i suoi danari e restò anco debitore di buona somma ai padroni de la possessione ; ma cominciai a parlare per narrar una piacevol e ridicola novella che a sua moglie avvenne. Egli aveva a Vinegia presa questa sua moglie NOVELLA XI 425 fuor del chiazzo, essendosi di quella innamorato, la quale per un marchette la volta dava da beccar a chi ne voleva. Ella era assai appariscente, con un viso molto lieto e proprio da donna allevata tra meretrici. Era ella fin da fanciulla avvezza molto liberale a compiacer del corpo suo a chiunque la ricercava, onde non volendo in quel luogo starsi con le mani a cintola, trovò in breve chi benissimo conobbe la voluntà sua e che cominciò a scoterle stranamente il pelliccione. E questo fu un dei servidori dei signori del luogo, il quale, si come avviene, dicendo ciò che faceva con lei ad uno dei padroni, giovine e volontaroso, gliene fece venir appetito. Il giovine non diede indugio al fatto, ma trovatola tutta sola dentro a l’orto che raccoglieva erbe per cena, se l’accostò e dopo averla salutata e dettole diece parole amorose, la richiese apertamente d’amore. La donna anzi cattiva femina che a tutti che la ricercavano diceva di si, non volse al padrone dir di no, ma tutta ridente se gli offerse sempre pronta a fargli piacere ogni volta che la comodità ci fosse. E cosi molto volentieri si recò, trovata l’oportunità, a trastullarsi con quello e più e più volte a quello si sottomise, e si riputava un gran favore che uno dei padroni seco si giacesse. Ella era ardita e baldanzosa molto, e poco temeva il marito, veggendolo che non era buono se non di dir parole spolverizzate e mostrar il grande e il ben agiato e dir male di qualunque persona gli veniva in bocca, e poi nel letto faceva più del dormiglione che de l’uomo, ed ella l’averebbe voluto vigilante e di duro nerbo. Avvenne che il padrone del luogo che seco si giaceva molto spesso, si parti e stette fuori alcuni mesi; il che piacque a certi compagni che servidori di casa erano, i quali per riverenza del padrone non ardivano trescar con la donna. Ma come egli fu partito, uno di loro chiamato «il lodigiano», giovine bruno e molto gagliardo, fece di modo che con la donna si domesticò ed amorosamente la godeva. Medesimamente un altro servidore milanese divenne anco egli in poco tempo di quella possessore e con lei di modo s’accordò che l’altro punto non se n’avvide. Ed ancor che di lei non so che si bucinasse, ella a cui piaceva troppo menar le calcole, punto non si turbò, pur che l’orto suo fosse 426 PARTE SECONDA ben innacquato, ed ora il milanese ora il lodigiano, secondo che l’agio v’era, a dosso si tirava. E dandosi costoro il miglior tempo del mondo con lei, avvenne che un prete de la contrada a cui ella piaceva, cominciò anco egli a domesticarsi seco e prender il possesso de la donna. Era il prete di pel rosso, giovine e nei servigi de le femine gagliardo, e molto a la donna piaceva; di modo che ad ogni ora ci era chi lavorava. E perché tutti erano del bresciano benvoglienti e conoscenti, praticavano domesticamente per casa, e tanto più che i dui servidori albergavano ne l'istesso palazzo ove albergava la donna. Andava spesso il bresciano a Milano per suoi affari, il che dava comodità agli adulteri di far i fatti loro. Un di montò a cavallo esso bresciano con un suo fratello, e l'ora era molto tarda. La moglie gli chiese ove andava, a la quale egli disse: — Moglie, a me conviene esser domatina a Milano; per questo cavalcaremo tutta notte. — Or sia con Dio — disse ella. — Venne voglia a la donna di giacersi quella notte col prete, perché era gagliardo lavoratore, e l’invitò a cena ed al Ietto, e per meglio cenare ella ordinò una buona torta. Aveva quella matina dato da desinare il bresciano a certi soldati suoi conoscenti che erano quindi passati, e per mostrarsi ben onorevole aveva messo su la tavola un gran tapeto dei signori di casa e fatto da desinare molto bene, onde era avanzata roba assai. Come fu sera ella diede a buon’ora cena al lavoratore e figliuoli, e sbrattatasi da tutti attese il prete che a l’ora debita venne, e per meglio porsi in appetito, si dispose correr con la donna due o tre miglia e scaricar lo stomaco innanzi cena. Ma a pena aveva egli corso un buon miglio che il milanese arrivò a la porta e forte picchiando disse chi era. Ella alora fatto entrar il prete ne la cantina del vino, lo fece appiattar dietro una botte, e andando ad aprir al milanese gli disse che fosse il ben venuto. — E voi la ben trovata, anima mia — rispose egli. — Serrato poi l'uscio cominciò suso una panca con lei il milanese a trastullarsi, ed avendo il corso suo compito, eccoti che il lodigiano diede di piedi ne l’uscio, che era venuto per parlar al marito de la donna. Il milanese che non voleva dal lodigiano esser visto, disse: — Oimè, come faremo? — Noi la faremo bene — NOVELLA XI 427 disse la donna e lo fece nasconder dentro il luoco del necessario che in camera rispondeva. Poi apri al lodigiano, il quale subito domandò che era del marito. — A Milano se n’è egli ito — soggiunse la donna. — Adunque ,sète voi sola? — rispose egli. — E come sono io sola — dlss’ella, — se voi séte meco? — Poi che vostro marito non ci è — disse il lodigiano, — io starò una pezza a diportarmi con voi e non perderò in tutto i passi, ché forse non averò bella comodità un’altra volta fin a molti di come ora m’è data. — Ed entrato in ballo, con lei fece una danza. La qual fornita, sentirono cavalli nel cortile. Ed ecco il bresciano che indietro era tornato, il quale cominciò a chiamar la moglie. La donna sentito il marito, disse: — Oimè, io son morta. Ecco il mio marito, che Dio lo faccia tristo, che è tornato, e non so come né so ciò che si voglia dire. — Ma pur volendo celar il lodigiano e non avendo accorgimento di mandarlo o di farlo nasconder altrove, lo fece ricoverare sotto il tapeto de la tavola, che tanto largo era che d’ogni banda toccava terra. Ora aiutata da subito conseglio andò ad aprir al marito e gli disse: — Voi siate il ben tornato; e che vuol dir cotesto? Almeno fosse il ritorno vostro stato di mezz’ora prima, perché Morgante è corso fin qui dietro al nostro prete con una spada in mano, ed io non so ove il prete sia. Morgante perciò m’ebbe tanto rispetto che non gli diede. Ma séte venuto a tempo di cena e ci è una buona torta. — Or bene — disse il bresciano, — egli mi rincresce del sere che non vorrei che avesse male, e tu lo devevi ritener qui ché non s’incontrasse in quel pazzerone. Ma sai che è? Manda la fante a metter a letto mio fratello che è cascato in Adda, e penso abbia un poco di febre e non vo' che mangi questa sera. — Sia con Dio — disse la donna; e data una voce a la fante che ad imitazione di madonna si dava buon tempo quando ci era alcuno che seco giacesse, le commise che conducesse il cognato a letto. In questo avendo voglia il bresciano di scaricar la vesica, se n’andò diritto al destro ove il milanese era nascoso, il quale sentendo aprir l’uscio e udita la voce del marito de la donna, non sapeva che farsi; tuttavia stette cheto. Egli era buio ed il bresciano fece il suo bisogno e lavò il volto al milanese d’altro che d’acqua ■> PARTE SECONDA rosata, ma non s’avvide che persona quivi fosse ascosa. Dopoi domandò la moglie perché non accendeva fuoco in camera. — Io son stata in cucina — disse ella, — e pur mò quando arrivaste 10 era partita dal fuoco e venuta qui a far non so che; ma io subito l'allumerò. — E pigliata la lucerna che ardeva e posto de le legne sul focolare, facendo vista d’accender il fuoco ammorzò la lucerna a sommo studio, volendo dar fine a quanto l’era caduto ne l’animo. 11 marito alora entrato in còlerà, volse dar d’un piede a la moglie e diede nel tapeto de la tavola e nei fianchi del lodigiano, il quale fu vicino a gridare e manifestarsi; pur si ritenne. E pensando il bresciano che fusse uno dei mastini de’ massari, lo sgridò; e la donna altresì che era da l’altra parte de la tavola, diede de le mani sotto il tapeto e preso il lodigiano gli disse forte, mostrando con i piedi di percoterlo: — Tira fuora, tira fuora, mastinaccio. — II lodigiano comprendendo P intenzione de la donna, carpone, essendo nel luogo buio che niente vi si poteva vedere, se n’uscì fuori che di lui il bresciano punto non s’accorse, e si fermò in sala. Il marito bestemmiando e garrendo la moglie e minacciandola di darle de le busse, teneva detto che allumasse il fuoco. Ella si levò di camera e serrando tosto l’uscio, chiavò dentro il marito. Il lodigiano recatasela in braccio, in capo d’una panca diede un pasto al suo cavallo. Gridava il marito che aprisse, e mostrando ella aver di lui paura, attendeva pure a pascer il cavallo del lodigiano. Né contenta di dargli una provenda, volle che due ne beccasse, di modo che il buon compagno in poco d'ora si trovò aver messo 11 diavolo ne l'inferno tre volte. Fatto questo, gli disse la donna: — Voi ve n'uscirete per la porta de la strada ed indi a poco tornate con scusa di parlar a mio marito, e cenaremo insieme. — Il bresciano pieno di mal talento,, tuttavia gridava minacciando la moglie, e diceva ella non volergli aprire se non le giurava di non batterla. Egli che era tutto veleno e còlerà contra la moglie, salito suso una scaletta che andava di sopra donde poi si scendeva nel cortile, andava ad alta voce gridando: — Al corpo del giusto Dio io ti coglierò. — Ella che era certa l’uscio che dava adito nel cortile esser chiavato, come senti il marito esser in NOVELLA XI sola.ro, aperse l’uscio de la camera ed entrata dentro, chiavò quello per cui il bestione era ito di sopra, di modo che ser capocchio si trovò confinato là su e non poteva entrar nel cortile né tornar ¡n camera. Ora egli sarebbe tempo perduto a voler dir le braverie del bresciano, il quale la buona hioglie lasciando bravare e maledir quanto voleva, cavò il milanese di prigione ed ancor che fosse tutto innacquato e ben molle d’urina, se lo tolse a dosso e cominciò a macinare. Macinato ch’ebbe il milanese quanto volle, la donna gli disse: — Tu n’andrai a casa per la via de l’orto e ti caverai questo saione, perché tu puti fieramente. Poi fa’ che torni a cenar con noi, ché io voglio che godiamo di brigata la buona torta che ho fatto fare e molte altre vivande che ci sono, a la barba di quel castronaccio di mio marito che fa professione di saper governar col suo senno tutta Italia. — Era a pena partito il milanese, quando il lodigiano entrò nel cortile e disse ad alta voce chiamando il bresciano: — Non ho io udito dire che voi sete tornato? — Egli che era in palco rispose: — Tu sia il ben venuto. Io son qui a noverar le stelle e divenir astrologo. — In questo la donna venne ne la corte e disse: — Voi séte venuto a tempo, lodigiano. — E che vuol dir questa comedia — disse alora il lodigiano, — che messer è in palco e voi séte qui? E’ mi par proprio veder un atto di comedia. — Io vi dirò — rispose la donna. — Volendo io accender il fuoco essendo mio marito tornato a casa, per mala disgrazia spensi il lume che in mano aveva, onde egli fieramente meco adiratosi mi volle battere; ma la Dio mercé mi son pure finora salvata, perciò ch'io lo rinchiusi in camera, e volendo egli riuscirne per disopra a la via del cortile, gli fermai l’uscio dietro, di modo che egli ancora è in alto e non fa se non garrirmi e minacciarmi di darmi tante busse che mi fiaccherà l’osso del collo; onde io voglio prima che possa discender giù, che mi perdoni e mi prometta non battermi, perché a la croce di Dio io non ammorzai volentieri il lume. — Al corpo di Dio — disse alora il bresciano — che io te ne darò un giorno tante che tu ti ricorderai per parecchi di del fatto mio, e ti scarmignerò di tal modo senza pettine che una pagherà tutte. — Orsù, messere — disse il lodigiano, —
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PARTE SECONDA cotesto è picciol fallo. Io vo’ che per amor mio perdoniate a madonna e che mettiate giù questa vostra còlerà e più non ne sia altro. Orsù, fate, madonna, recare del lume, ché io aprirò a messere. — Arrivò in questo cantando il milanese, e sentendo ciò che dicevano, disse: — Olà, che ora è questa da far rumore? Al corpo del vermocan che saria meglio bever un tratto e andar a dormire. — Fra tanto la donna andò a la cucina e fece che la fante recò del lume. Il bresciano cosi, borbottando, venne giù ed ¡ratamente disse: — Moglie, ringrazia Dio e costoro che ci sono venuti, altrimenti io t’insegnava scherzar meco. Affrettati ed alluma il fuoco, ché io mi muoio di freddo, ed ordina tosto da cena. — La donna accese il fuoco e mise la fante in faccende; e mentre distendeva la tovaglia, disse il bresciano: — Amici miei, voi cenerete meco e mangerete de la torta. — Il milanese rispose che cenato aveva, ma che nondimeno piglieria dui bocconi. — Qr sia con Dio — disse il bresciano; — ché se questa pazza non mi faceva entrar in còlerà, io averei cenato e voi non avereste mangiata de la torta. Moglie, va’ per vino e cava del « raspato » de la possessione di San Pietro, ché a dirli il vero, la maggior paura che io avessi era che tu non trangugiassi la torta senza me. — Ella facendo vista di prender animo, gli rispose: — Io lo deveva ben fare, poi che avendo io a caso spento il lume, faceste tanto romore. — Detto questo ella andò per vino e trovò dentro il rivolto il prete che aspettava pur uscir fuori; ma ella volle che entrasse dentro e desse ber al suo stallone. Gli disse poi quanto voleva che facesse. Indi tratto un grandissimo strido e lasciato il vaso in terra, se ne venne fuggendo ove il marito era, il quale avendola sentita gridare, con i dui che seco erano andò ad incontrarla. Ella tutta tremando disse loro che dentro il vólto aveva visto uno e che non sapeva chi si fosse. Il bresciano crollando il capo — Io veggio bene — disse — che tu hai bevuto. — Aveva una vertù la donna oltra l’esser puttanissima, che assai spesso s’inebriava. — Mai si — rispose ella — io ho bevuto. Andatevi voi, ché io per me non sono per venirci. — Andarono tutti tre e trovarono il messer che faceva la gatta morta, il quale come gli vide, disse loro: — Lodato Dio che io veggio qui tre miei amici. NOVELLA XI 431 E che cosa è questa? — disse il bresciano. — Io ve lo dirò soggiunse il prete. — Questa sera essendo partito di casa di Mondarello, qui vicino fui assalito da non so chi, il quale sfodrata la spada mi disse: — Ahi traditore, tu sei morto ! — e mi corse a dosso; e io fuggendo me ne venni qui in casa, dove la madonna sgridò colui che mi perseguitava. Ora venendo qui non so chi per cavar vino, io volli uscire eh’ io era dietro ad una botte, ma quella donna gridando se ne fuggi, ed a la voce io la conobbi donna. — Orsù, siate pure il ben trovato, domine — disse il bresciano. — Andiamo a cena. Ma ditemi, che avete voi a far con quella bestia di Morgante, ché mia moglie mi disse che Morgante era colui che vi venne dietro con la spada in mano? — Nulla ho io da far con Morgante, né chi mi assali fu egli, perciò che come sapete, Morgante è grande e grosso e per questo gli hanno messo cotal nome, e colui che mi voleva ammazzare è picciolo, proprio de la vostra statura. — E cosi parlando vennero di brigata a la camera ove la cena era in ordine. Come la donna vide il domine — Ecco — disse ella — che io non era ubriaca. — Si scaldarono e poi si diede l’acqua a le mani e tutti di compagnia lietamente cenarono. La donna ancor che molto bene fosse pasciuta di dolcitudine, nondimeno ella mangiò molto bene e bevette secondo l'usanza sua meglio. E ser castronaccio dopo che molte ciancie ebbe dette, ringraziò Iddio che si bella e buona compagnia gli aveva dato a cena. Dopo cena tutti accompagnarono il sere a la chiesa. I tre compagni quando agio avevano, attendevano a consolar la donna, la quale seppe si ben fare che tutti tre accordò insieme e con loro si dava buon tempo, i quali si davano amorevolmente luoco l’un l’altro. Ella poi non contenta di costoro, a molti anco fece copia del corpo suo, parendole che il tutto fosse niente se non star su l’amorosa vita, e più che poteva cangiava pasto. Né mai ser beccone se n’accorse, o se pur se n’avide, egli mangiò tanto zafferano che fece buono stomaco. E per quello che io ne intendo, ella fa il medesimo ora a Verona dove sta. Pensate se ella è di quelle buone; ma non è meraviglia, perché allevata e nodrita in chiazzo, credo io che dentro vi voglia viver e mori re.