< Novelle (Bandello, 1910) < Parte II
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Novella XIII - Maometto imperator de’ Turchi ammazza i fratelli, i nipoti, e i servidori con inudita crudeltà vie più che barbara
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IL BANDELLO

al molto illustre e valoroso signore

il signor conte

guido rangone

del re cristianissimo luogotenente generale in Italia

e cavaliero de l’ordine di san Michele


La crudeltá piú che barbara e ferina che questi giorni ne la presa di Carraglio usò Francesco Monsignore dei marchesi di Saluzzo, fu tale e tanta quale e quanta non fu forse tra soldati cristiani usata giá mai. Che se nel combattere in compagnia od in espugnar una terra o fortezza che si sia, in quel furore de l’entrar dentro ciascuno che incontrato viene, si svena ed è senza rispetto veruno morto, questo par che sia usanza generale de la milizia. Ma cessato quel furore del menar le mani, chi è sí fiero nemico che incrudelisca nei corpi morti o che quelli seppellire divieti? Per l’ordinario anco a chi per prigione si rende, suole la vita esser donata ed al reso è lecito con danari ricuperar la sua prigionia. E questo fin qui in queste guerre s’è di continuo osservato cosi dai nostri regi come dai cesarei. Ora, che che ne sia stato cagione, Francesco Monsignore il tutto ha pervertito, e guerreggiato di maniera che se a la futura posteritá sará narrata, non troverá fede d’essere creduta, tanto parrá lor strana e crudele. Era in Carraglio il capitano Zagaglia ariminese, il quale prima a le mura si diportò molto valorosamente ed uccise molti dei nemici di sua mano. Veggendo lo sforzo e numero grande degli imperiali, di cui era capo Francesco Monsignore, si ritirò a la piazza sempre combattendo; e non solamente aveva da combattere con i nemici, ma con gli uomini ancora de la terra, perciò che i carragliesi, oltra l’aver introdutti i nemici dentro, tutti con mano armata 2 PARTE SECONDA s'unirono a morte e distruzione dei nostri. Il Zagaglia adunque, dopo l’essersi lungamente difTeso e morti di sua mano degli avversari più di sessanta, a la fine avendo molte ferite di picca e di saette, mancandogli il sangue, nel mezzo dei morti nemici, non potendo più sostenersi, si lasciò valorosamente con la sua spada in mano e con la rotella al braccio andar in terra, e quivi fu da la moltitudine dei combattenti oppresso. Tutti gli altri soldati combattendo furono morti, perché Francesco Monsignore sotto pena de la vita comandò che nessuno si pigliasse prigione. Alcuni, ben che pochi, si salvarono per beneficio de la notte. Il giorno seguente parlandosi del combattere che s’era fatto e lodando molto il valore e fortezza del Zagaglia, Francesco Monsignore fece ricercar il corpo morto, ed avutolo dinanzi a sé, in luogo di fargli dar sepoltura come onoratamente fece Annibaie a Marcello, non so da che maligno spirito preso, crudelissimamente gli fece cavar il core e darlo ai cani, né volle che fosse sepellito. Né altro sapeva dire se non che il Zagaglia gli aveva ammazzato, senza il numero degli altri, otto o nove dei migliori soldati che avesse. Fu appresso il cartaginese, perpetuo e crudelissimo nemico dei romani, la vertù del romano Marcello in prezzo: non guardò Annibaie che Marcello più volte l'avesse superato e fattogli morire migliaia e migliaia di soldati, del quale già aveva detto che né vittore né vitto sapeva riposare, ché trovato il corpo suo, con debito onore gli fe' dar convenevol sepoltura. E ai giorni nostri in Italia s'è trovato un prencipe italiano che ad un fortissimo soldato italiano, che onoratamente aveva mostrato il suo valore e con l'arme in mano da par suo era morto, non solamente non ha voluto lasciarlo seppellire, ma gli ha, cosi morto com’era, fatto cavar il core? Ma dove egli si credeva il Zagaglia disonorare, se stesso ha meravigliosamente disonorato, perciò che ovunque la morte del Zagaglia sarà narrata, tutto '1 mondo come merita lo loderà, ed insiememente sarà astretto la crudeltà di Francesco Monsignor biasimare e crudelissimo e barbaro nominarlo. E di già nel campo cesareo lutti i grandi e i piccioli abborriscono questo fatto, ed in privato e publico dicono che è stata cosa indegna d’un signore e che non starebbe mai bene ad alcuno NOVELLA XIII 3 a farla. 11 medesimo diceste voi questi di, signor mio, essendo a la presenza vostra molti capitani e soldati, e di più aggiungeste che se nessuno dei vostri usasse una si fatta crudeltà, che voi accerbissimamente ne lo castigaréste. Era quivi Ferrando da Otranto, il quale aveva praticato lungo tempo a Constantinopoli e sapeva cose assai de le pratiche dei turchi. Egli veggendo che si parlava di crudeltà e da quella di Carraglio si passava a dir de l’altre usate in altri luoghi da diverse persone, narrò di Maometto imperador de' turchi molti atti crudelissimamente da lui usati contra i fratelli, nipoti ed altri, i quali fecero senza fine meravigliare chiunque gli udi. Voi alora, signor mio, mi diceste che io quanto Ferrando narrato aveva de vessi scrivere; il che avendo fatto, a voi lo dono. Ed ancor che il dono sia picciolo, voi risguardarete non a quello, ma a l’animo mio, sapendo quanto io vi son servidore e quanto desidero rendermi grato di tanti beni da voi ricevuti. State sano. NOVELLA XIII Maometto imperador de’ turchi ammazza i fratelli, i nipoti e i servidori con inudita crudeltà vie più che barbara. La morte del capitan Zagaglia è stata di sorte che ne la sua fine ha dimostrato quello che egli sempre fu mentre visse, cioè fedele, animoso e forte. Deve certamente, signori miei, a tutto questo felicissimo essercito doler la morte sua, avendo perduto uno de’ valorosi uomini che avessimo. Tuttavia, considerando che egli onoratamente ha compito il corso de la sua vita, non è da dolersene. Ora la crudeltà usata dai nemici nel suo morto corpo m’ha fatto sovvenir di molte crudeltà che, essendo io in Grecia, sentii più volte narrar a molti turchi; e non vi rincrescendo d’ascoltarmi, vi farò sentir cose che vi parranno incredibili, e pur sono vere. Maometto di questo nome secondo imperador de’ turchi fu figliuolo d’Amorato secondo, ed esso Maometto fu quello che debellò e levò ai cristiani l’imperio orientale. Egli ancora giovinetto fu dal padre, che era vecchio e molto desiderava la quiete ed il riposo, fatto signore sotto la 4 PARTE SECONDA cura di Cali, che era ¡1 primo bascià ed uomo di grandissima sperienza nel governo e ne le cose militari. Andò Amurato ne la città chiamata Mantissa che è ne l'Asia Minore, e quivi con i religiosi de la setta maomettana religiosamente viveva. In questo mezzo gli ungari prepararono un numeroso essercito sotto il governo del glorioso capitano Giovanni Uniade, il cui figliuolo Mattia fu poi re d’Ungaria. Inteso dai turchi che gli ungari gli volevano assalire, deliberarono di rivocare, per consiglio di Cali bascià, Amurato, non parendo loro che Maometto, che aveva poco più di ventun anno, devesse esser bastante a tanta impresa, del che Maometto se ne sdegnò grandemente. Ma perché sapeva simulare e dissimulare come voleva, non mostrò di fuori lo sdegno de l’animo suo. Venne non dopo molto Amurato a morte, e quello di stesso che il padre suo mori, Maometto lasciata la cura dei funerali, a ciò che il principio del suo imperio cominciasse e consacrasse col sangue fraterno, essendo ancora caldo il corpo del padre, corse a le camere ove un suo fratello chiamato Tursino, che aveva diciotto mesi, si nodriva. Trovò il bambino ne la culla, il quale cominciò, sorridendo come fanno i piccoli fanciulli, a guardare Maometto. Egli con furia dato di mano a l’innocente fratello, lo voleva col capo percuotere al muro. Era con il crudelissimo tiranno un allevato seco che si chiamava Mosè, il quale veggendo questa immanissima ferità, s’inginocchiò davanti a Maometto, supplicandolo affettuosamente che non si volesse bruttar le mani del sangue fraterno. Impetrò quanto supplicava, mentre che egli il bambino subito uccidesse. Ubidì Mosè, e preso il fanciullo, quello in un vaso d’acqua violentemente suffocò ed il picciolo corpo mise in terra. Hanno i turchi questa superstizione, che non sia lecito spander il sangue regio degli Ottomanni in terra, e per questo gli suffo- cano. La madre del misero Tursino, inteso il caso come era successo, ululando e gridando corse a quella camera, e trovato l’innocente figliuolo disteso in terra, se lo recò ne le braccia, raddoppiando le grida e mandando le voci piene di lamenti sino al cielo, e pareva forsennata. Rideva il crudelissimo tiranno e pareva a punto che gioisse del pianto de la matrigna. Era NOVELLA XIII 5 nasciuto Maometto di madre cristiana, figliuola di Zorzo re de la Servia, che Amorato prese per moglie; ma perché i turchi prendeno più mogli, la madre di Tursino era di nazione turca. La quale col figliuolino morto in braccio al tiranno rivolta, poco la vita curando, audacemente disse: È questo il tuo fratello, o imperadore, che tuo padre morendo con tante lagrime ti raccomandò? A questo modo ti par ragionevole di macerar un innocente bambino? Con la morte del fratello vuoi, prima che tuo padre sia seppellito, dar principio al tuo imperio? Oh sce- leratezza nefaria e crudelissima e più che tirannica ! o ferina crudeltà! Dio come ti sostiene? Aspetta, aspetta, ché tu ancora la vita tua cosi finirai, e credilo a me che altra morte non sei per fare. —■ Dicendo queste e simili altre parole, la dolente madre cascò stramortita dinanzi ai piedi di Maometto. Egli comandò che la donna fosse rilevata, a la quale, essendo in sé rivenuta, tutto lieto e con ridente faccia cercava il dolor levare dicendo: — Madre mia, egli bisogna che voi abbiate pazienza e che con buon animo sopportiate la necessità, perciò che ciò eh’è fatto non può esser che fatto non sia. Sapete bene che de la casa nostra Ottomanna l’antica costuma è che ne la creazione del nuovo prencipe tutti i maschi del sangue ottomanno soiTocare si sogliono, a ciò eh’un solo senza competitore resti signore, ché secondo eh’in cielo è uno Dio solo, cosi conviene che in questo nostro imperio sia solamente un imperadore. Perciò vi essorto e prego a rasciugar le lagrime e star di buona voglia, ché in luogo del morto Tursino vi sarò sempre ubidiente figliuolo. — E per meglio consolarla le soggiunse che ella domandasse ciò che voleva, perché mai non patiria repulsa di cosa che chiedesse, quantunque fosse grandissima. La donna di passione e d’ira ardendo ed altro non bramando che poter in parte vendicar la morte de l’innocente figliuolo, cosi gli rispose: — Signore, se tu vuoi che io ti creda ciò che mi dici, dammi in poter mio questo scelerato micidiale Mosè, ch’io ne faccia ciò che più m’aggradirà. — A pena ebbe la sua domanda la donna compita, che il perfidissimo tiranno comandò che a Mosè fosser legate le mani e i piedi e dato in poter de la donna, non avendo 6 PARTE SECONDA riguardo che l'infelice Mosè era sin da fanciullo seco nodrito e che comandato gli aveva che strangolasse Tursino. Lieta la donna del ricevuto dono e colma d’ira, con un coltello che a lato aveva, a la presenza di Maometto cominciò a svenar il misero Mosè, il quale chiedeva con lagrimose voci aita e mercé al suo signore. Ella col coltello avendolo in più luoghi ferito e lacerato, al fine nel core fieramente lo trafisse. Dapoi apertogli il destro lato, gli cavò il fegato e gittatolo per esca a’ cani, alquanto la dolente donna s’acquetò. Stette sempre Maometto presente e tacito a si fiero spettacolo. Fatto poi pigliar il corpo di Tur- sino, quello insieme con Amurato suo padre con funebre e regia pompa fece sepellire, facendolo portar a la sepoltura in braccio al padre. Aveva Amurato un’altra moglie, figliuola di Sponderbeo, nobile e ricco signore: da questa ebbe un figliuolo nomato Calapino, che era di sei mesi quando Amurato mori, e prima che morisse, molto a Cali bascià Io raccomandò. Cali, convenutosi con la madre, ebbe modo d’aver un figliuolino de la medesima età del vero Calapino, e prima mandato Calapino a Costantinopoli, offerse a Maometto il suppositizio e finto Calapino. Maometto, creduto che fosse il fratello, subito lo fece strangolare e poi onoratamente sepellire. Il vero Calapino al tempo de l'assedio di Costantinopoli fu certamente condotto a Vinegia, e poi ad instanzia di Calisto sommo pontefice menato a Roma e tenuto molto tempo in palazzo. A la fine convertito a la fede nostra, si battezzò e gli fu posto nome Calisto Otto- manno. Morto papa Calisto, egli si ridusse ne la Magna sotto l’ombra di Federico terzo imperadore, dal quale fu graziosamente ricevuto e di buone rendite provisto, e sempre dimorò in Austria a Vienna. Fu uomo molto quieto e ne le lettere greche assai ammaestrato e ne le latine. Ed essendo già vecchio, prese per moglie una bellissima e nobilissima giovane di Hohenfel ; ma devendo far le nozze, infermò e mori e fu sepolto in Vienna. La giovane non si volendo più maritare, entrò in un monastero e si fece monaca. Ma tornando a le crudeltà di Maometto, non contento il perfido tiranno de le morti dei fratelli e d’un suo compagno nodrito seco fin da la fanciullezza, avendo fermato NOVELLA XIII 7 il piede ne l’imperio, cominciò ad incrudelire contra molti suoi cortegiani e baroni. È notissima e da molti eccellenti scrittori divolgata la crudeltà ch’egli usò ne la presa di Costantinopoli e di molti altri luoghi da lui espugnati; ma non è meraviglia se fu crudele e sanguinario contra i nemici su la guerra, se anco contra i suoi e che da lui meritavano essere guiderdonati, senza cagione alcuna fu crudelissimo. Aveva, come già s’è detto, Amurato fin da la fanciullezza dato Cali bascià per governatore a Maometto, il qual Cali era di nazion turca, uomo di grandissima esperienza ed i cui progenitori per molti secoli sempre erano ai tiranni ottomanni stati accetti e fedelissimi ed appo la nazione turchesca in grandissimo prezzo. Per questo avendolo Amurato conosciuto per lunga esperienza uomo da bene e grandemente affezionato al sangue ottomanno, l’aveva dato al figliuolo per governatore, e quando fu vicino a la morte comandò ad esso Maometto che né più né meno avesse sempre in riverenza Cali ed a quello ubidisse come a proprio padre. Ma lo scelerato e più che barbaro tiranno, acquistato che ebbe l'imperio costantinopolitano, subito deliberò di voler incrudelir contra Cali suo tutore, il quale già vecchio non poteva lungamente vivere. Egli s’era contra lui forte sdegnato perciò che ne la guerra contra gli ungari era stato autore di rivocar Amurato a ripigliar l’imperio, e sempre il suo sdegno s’aveva serbato chiuso nel petto. Ma io dirò come mi dicevano quei turchi che mi narrarono queste sue crudeltà, cioè che questo sdegno non fusse la total cagione de la rovina di Cali, ma che le sue ricchezze fossero quelle che lo fecero morire. Egli era il più ricco uomo che fosse sotto il dominio de) Turco. Maometto che era avarissimo e de la roba altrui più bramoso che l’orso del mele, non potendo aspettar che Cali morisse rotto e consumato dagli anni, gli impose che sempre era stato fautore de l’imperadore di Constantinopoli e che ad Amurato aveva dissuaso che non facesse l’impresa contra esso imperadore, da quello con gran somma di danari corrotto. Impostagli questa calunnia, fece pigliar il povero vecchio e prima con vari e crudelissimi tormenti, standoli di continovo presente, lo fece 8 PARTE SECONDA miseramente lacerare, ecl in ultimo, essendo Cali quasi morto, gli fece dal petto strappar il core e ne la via publica gettar il corpo; e non volle che fosse sepellito, ma tirato come una morta bestia fuor de la città e lasciato per esca a le fiere. Poi in un subito privato i figliuoli di Cali de l’eredità paterna e di quella insignoritosi, cacciò da la corte e da' suoi servigi tutti i parenti di Cali. Era in corte un giovine il quale aveva nome Maometto, molto dal tiranno amato si perché era con lui allevato ed altresì perché era giovine industrioso e pratico de la milizia turchesca. Fu figliuolo costui di padre e madre cristiani. Il padre era triballo, che oggi sono bulgari, e la madre costantinopolitana. Costui era sovra modo insolente e superbo. Fu adunque dal tiranno in luogo di Cali sustituto, e non solamente ebbe la cura degli esserciti occidentali che si fanno tutti de le genti d’Europa, ma aveva il carico di tutti gli affari di grandissima importanza, e dove era maggior periglio e più difficultà, sempre era intromesso. Egli, simile al tiranno, era simulatore e dissimulator eccellente, avveduto sovra modo, astuto, pronto di mano e provido di conseglio, ed in molte imprese aveva tal saggio dato di sé che appo tutti si trovava in estima- zion grandissima, di modo che '1 signore sommamente mostrava d’amarlo e l’aveva fatto ricchissimo. Ora parendogli poter del suo padron disporre come più gli piaceva, deliberò, se possibil era, di schiavo divenir libero, ché ancora che sin da fanciullo avesse rinegato la fede cristiana e fosse stato secondo il costume turchesco circonciso, nondimeno ancora non aveva conseguita la libertà. Fatta questa diliberazione, apparecchiò un desinar molto sontuoso ed a la foggia lor tanto abbondante di vivande dilicatissime e d’ogni sorte che dava la stagione, quanto avesse potuto far apparecchiar il medesimo signore. Fatto l’apparecchio, invitò l’imperadore, il quale accettò l’invito e v’andò a desinare. Dopo che si fu mangiato e bevuto assai più del devere, perché al bere il tiranno non servava legge maomettana, ma trangugiava ed incannava tanto vino che bene spesso s’inebriava, parendo al servo poter ottener dal signore l’intento suo, con accomodate parole gli espose il desiderio che aveva NOVELLA XIII 9 d’esser libero, supplicandolo umilmente che più tosto volesse usar l'opera di lui libero che servo. E conoscendo l’ingordigia ed avarizia de l'imperadore, gli fece portar dinanzi cinquanta mila ducati d’oro in oro. Udita questa domanda, il crudelissimo tiranno entrò in tanta còlerà e si accese in lui l'ira che, dato di mano ad un assai grosso e noderoso bastone d'olmo, non avendo rispetto che colui seco era stato da fanciullo nodrito e che era capitano famoso e per molte vittorie illustre, quello buttò furiosamente per terra e cominciò con gran fierezza a sonarlo col bastone dandogli mazzate da orbo, e tanto lo percosse e ripercosse e si gli fiaccò la schiena, che egli si sentiva non poter più muover le braccia e con i piedi lo percoteva. Il misero servo tutto pesto e mezzo morto teneva pur gridato: — Signor mio soprano, io sono e sarò sempre tuo schiavo e con tutto il core ti ringrazio del conveniente e degno castigo che al mio peccato dato hai, perché conosco che io maggior supplizio meritava. — Simil crudeltà anzi maggiore usò il perfido tiranno contra alcuni giovanetti tenuti da lui in luogo di femine, i quali pareva che amasse più che gli occhi suoi. Questi poveri fanciulli avevano bevuto del vino che al signor era avanzato, il che da lui inteso, gli fece tutti senza pietà alcuna crudelmente morire. Con questa sua inudita crudeltà si rese a tutti i sudditi suoi cosi terribile che ciascuno di lui tremava. Molti ne fece morire per levar lor la roba, altri ammazzò per torgli le mogli, e per ogni minima occasione comandava che uno fosse ucciso. E se il carnefice si tosto come averebbe voluto non si trovava o non veniva, egli con le proprie mani faceva l'ufficio di manigoldo. Aveva fatto questo scelerato tiranno uno splendidissimo convito ai suoi bascià e primi uomini dopo la presa di Costantinopoli, e ne l’ardore de! convivare comandò che gli fosse menato dinanzi Rireluca con dui suoi figliuoli che erano prigioneri, fatti cattivi ne la presa di Costantinopoli. Come gli furono avanti, fece tagliar per mezzo e spaccar il maggior figliuolo come si suol far un porco. Pensate che animo era quello del misero Rireluca veggendo il suo maggior figliuolo nel suo cospetto a quel modo ucciso. Il minor figliuolo, perché era IO PARTE SECONDA fanciullo e bello, volle Maometto che si mettesse nel serraglio e si serbasse ai suoi illeciti e disonestissimi appetiti. Poi comandò che il padre fosse strangolato. Io non so certamente che conviti e banchetti fossero questi suoi, e meravigliomi senza fine come quei suoi satrapi potessero tanta crudeltà sofferire. Ma che dirò io de la crudeltà ch’egli usò contra David Comneno imperadore di Trapezunte che Trebisonda si chiama? Fu David, perduto l’imperio, con dui figliuoli e tutti i primi baroni e gentiluomini di Trebisonda condutto prigione a Constantinopoli e quivi alcuni giorni tenuto in misera prigionia. Dopo non molto tempo Maometto, un giorno dopo desinare, comandò che l’imperadore di Trebisonda con i figliuoli ed altri prigioni gli fosse menato avanti, e cosi tutti a la sua presenza fece tagliar a pezzi. Il medesimo fece del signor Francesco Gattalusio di nazione genovese, il quale possedeva e signoreggiava l’isola di Lesbo che oggidì si chiama Metelino, ché avendo tutte le fortezze de l’isola debellate e preso prigione esso Gattalusio e molti altri, gli fece menar a Costantinopoli e tutti crudelmente morire. Ma se io vorrò tutte le crudelissime crudeltà di questo fierissimo tiranno annoverare, prima il giorno è per mancarmi che io ne possa venir al fine, perciò che ancora nel sangue ottomanno non è stato prencipe nessuno, ben che ce ne siano stati di crudelissimi, che Maometto di gran lunga tutti avanzati e superati non abbia. Egli si persuase non esser Dio alcuno: si beffava de la fede dei cristiani, sprezzava la legge giudaica e nulla o ben poco stimava la religione maomettana, perciò che publicamente diceva che Maometto, quel falso profeta, era stato servo cirenaico, ladrone ed assassino di strada, e con ferite in faccia cacciato di Persia con grandissima sua vergogna, di modo che non ci era setta alcuna che da lui non fosse sprezzata. Ora tornando al nostro primo parlare, vi dico che non è gran meraviglia se il saluzziano usò si fiera crudeltà contra il capitano Zagaglia, perciò che costume fu sempre dei tiranni d’esser crudelissimi.

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