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Novella XLIII - Inganno della reina d’Aragona al re Pietro suo marito, per aver’da lui figliuoli
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IL BANDELLO

al magnifico capitano

messer

giovan battista olivo

salute


Si parti questo agosto ultimamente passato dal contado d’Agen madama Gostanza Rangona e Fregosa, mia signora, per ischifare i perigliosi tumulti senza occasione veruna scioccamente nati da la feccia del volgo de la cittá di Bordeos, alora che ammazzarono monsignor di Monino, luogotenente del re cristianissimo. Il che molto caramente costò loro, per l’agro castigo e debita punizione che gli fu data. Si condusse madama in Linguadoca a San Nazaro, castello de la badia di Fonfreddo, vicino cinque o sei miglia lombarde a l’antica cittá di Nerbona, che giá diede il nome a la provincia nerbonese. Quivi fermatasi, perché la badia è d’uno dei signori suoi figliuoli — ed ha molte castella con giurisdizione di far sangue, e ci sono luoghi bellissimi di cacce di cervi, caprioli, cinghiari e d’altre fere e d’augelli da terra e d’acqua, essendo presso a la marina, — era tutto ’l di dai circonvicini signori e baroni visitata. È costume del paese che quei gentiluomini e signori con le dame e mogli loro di brigata si vanno visitando, e fanno insieme una vita allegrae gioiosa, avendo per l’ordinario in tutto dato bando dagli animi loro a la malinconia e gelosia e d’ogni tempo ballando e facendo mille festevoli giochi, e basciandosi in ogni ballo assai sovente. Avvenne un di che ragionandosi degli inganni che alcune de le mogli hanno fatto ad Enrico di questo nome ottavo re d’Inghilterra, e de la vendetta che egli di loro ha presa, il signor Ramiro Torriglia spagnuolo, che lungo tempo è stato in Italia, a proposito de le beffe 444 PARTE SECONDA che le donne fanno ai mariti, narrò "una picciola istoria. Piacque essa istoria agli ascoltanti, onde mi venne voglia di descriverla. Sovvenutomi poi di tante mie novelle non ve n'aver ancor donata una, me stesso di trascuraggine accusai, deliberando che questa fosse quella che appo tutti facesse testimonio de la cambievol nostra benevoglienza e de la vostra gentilissima cortesia. Ma io non voglio ora entrar a dire de l’amorevolezza vostra, de la diligenza sempre vivacissima che ne le cose degli amici mostrate, e di tante altre vostre lodate condizioni, ché sarebbe opera troppo lunga, ed io non mi mossi a scrivervi per voler raccontar le vostre lodi, ma per donarvi questa istorietta e rendervi certo che ovunque io sia, sono e sarò sempre del mio generoso Olivo. State sano. NOVELLA XLIII Inganno de la reina Maria di Ragona al re Pietro suo marito per aver da lui figliuoli. Negli anni de la salute nostra del millecentonovanta, poco più o poco meno, era conte di Barcellona don Pietro d’Aragona, e fu il settimo re d’essa provincia aragonese. Egli ebbe per moglie donna Maria di Monte Pesulino, la quale era nipote de l’imperadore di Costantinopoli. Era donna Maria assai bella, ma molto più gentile e vertuosa e molto dai popoli di Ragona amata e riverita per i suoi buoni costumi e perché a tutti, secondo il grado loro e secondo che lo valevano, faceva grate accoglienze, compiacendo loro ne le domande quanto il debito portava. Il re Pietro, per quello che veder si poteva, mostrava averla molto poco cara, e lasciatala quasi per l’ordinario sola nel letto, attendeva a trastullarsi con altre donne. E ben che essa reina potesse assai cose fare nel regno e da’ baroni, cavalieri ed altri fosse molto onorata e da tutti ubidita, e il re cose che ella facesse non rompesse già mai, nondimeno ella in conto alcuno non si contentava e viveva in pessima contentezza, perciò che più volentieri si saria contentata di meno autorità nel maneggio del regno, ed aver le notti nel letto la debita compagnia ed abbracciamenti NOVELLA XLIII 445 del re suo marito. Di questa sua mala sodisfazione non si lamentava ella con persona, anzi se talora alcuno le faceva motto degli amori del re e de le donne con le quali egli teneva pratica, ella, come saggia che era, mostrava non curarsi ed altro non rispondeva se non che dal re suo marito e signore era benissimo trattata e tenuta cara, e che tutto ciò che da quello si faceva era ben fatto, perciò che egli era padrone e signore di tutto. Erano alcuni dei baroni ai quali molto dispiaceva questo modo di vivere che il re teneva, perché non avendo egli figliuol nessuno legitimo, pareva loro molto di strano che non curasse di procrear un legitimo erede e successore al suo nobilissimo reame. E di questa trascuraggine del re era nel popolo una grandissima mormorazione, ed ogni di ci era chi a la reina se ne lamentava. Ella non sapeva che altro dire se non che ciò che il re voleva, ella anco voleva. Nondimeno le pareva pure che gran cosa fosse che il re si poco si curasse di lasciar un erede dopo la morte sua. Da l’altra banda essendo pur ella di carne e d’ossa come l’altre femine sono, le era molto duro a sofferire che il re si malamente la trattasse e che più d'alcune altre donne si curasse che di lei, le quali seco non erano da esser parangónate né di bellezza ne di sangue né di costumi. E cosi entrandole nel petto il veleno de la gelosia, cominciò fortemente tra sé a dolersi de la vita che il re menava. Tuttavia non le parendo onesto con altri dolersene, più volte, quanto più modestamente seppe, con il re se ne dolse; ma ella cantava a’ sordi. Il re, nulla curando le vere lamentazioni de la reina, andava dietro al viver suo consueto, ed oggi con questa e dimane con quella de le sue favorite donne si dava buon tempo. La reina, a cui onesta gelosia aveva aperti gli occhi, cominciò con più diligenza del passato a spiar le azioni e gli amori del re, e di leggero s’accorse che quello un suo fidatissimo cameriera aveva, il quale, consapevole de l’animo del padrone, era colui che secondo il voler di quello ora gli conduceva questa femina, ora li menava quell’altra e nascosamente le faceva entrar nel palazzo e mettersi in alcuna camera; poi quando il re si ritirava per dormire, il detto cameriero gli metteva a lato 446 PARTE SECONDA quella donna che condotta aveva, ed il più de le volte le faceva venir senza lume. Avuta la buona reina cognizione di questo fatto, pensò con quel meglior modo che fosse possibile, di corromper il cameriero a far tanto che in vece d'una di quelle amiche del re, ella di segreto fosse introdutta in letto con il marito. Messasi adunque a la prova, in diverse volte tanto fece e disse e tanto promise al cameriero, che egli si contentò con questo mezzo usare al suo padrone questo onesto inganno; né troppo indugio diede a l’effetto. Dormivano il re e la reina in un medesimo palazzo, ma in diverse camere tra le quali non era molta distanzia. Avendo adunque il re dato ordine al cameriero che quella notte gli conducesse una di quelle sue consuete donne, egli ne avvisò la reina, la quale, messasi a l’ordine d’andar a nozze, se ne stava attendendo l’ora. Venuto il tempo oportuno, andò il cameriero e presa la reina, quella condusse e pose al lato del re, il quale credendosi d’aver una de le sue solite, con la reina più volte amorosamente si trastullò. Avendosi il re preso quell’amoroso piacere che gli parve ed appropinquandosi l’aurora, diede congedo di partirsi a la reina e chiamò il cameriero che via ne la menasse. Alora la reina, che conseguito aveva quanto era il desiderio suo, cosi parlando disse: — Signore e marito mio, io non sono quella cui credete, ché pensando voi esservi giaciuto con una de le vostre amiche, meco stato séte, che sono pur vostra legitima moglie. Io mi fo ad intendere che non debbiate aver a male, se quello che di ragione è mio, non lo potendo io buonamente conseguire, con onesto inganno ingegnata mi sono d’ottenere, con ciò sia che a nessuno fa ingiuria chi usa de le sue ragioni. Voi come re, mio marito e signore, potete, se vi piace, far ogni strazio di me ed uccidermi, ma non potrete già fare che ciò che fatto è, fatto non sia. Pertanto se Iddio si bella grazia fatta m’avesse, che dei congiungimenti che questa notte sono stati tra noi io restassi gravida e partorissi al suo tempo un fìgliuol maschio, erede di questo reame di Ragona, essendo appo tutto il popolo publico che voi non vi giacete né mescolate meco, a ciò che non si dicesse ch’io l’avessi generato d’adulterio, vi piacerà fare che i primi baroni del regno NOVELLA XLI1I 447 che ne la corte sono sappiano che questa notte io sia stata con voi e mi veggano qui vosco e possano render testimonio che il frutto del ventre mio sia seme vostro. — Piacque al re l’onesto inganno de la reina e la ritenne seco in letto, e volle che la malina tutti i baroni e cortegiani ne la camera entrassero e la reina seco corcata vedessero, e a tutti manifestò la sagace astuzia da lei usata. Commendarono generalmente tutti l’ingegno de la lor signora, che con cosi astuto avvedimento avesse onestamente gabbato il marito, e lodarono il re che di questa gentil beffa si contentasse. Per l’avvenire adunque il re, in tutto cangiato di natura, lasciò stare quelle donne con le quali amorosamente si giaceva, e cominciò molto ad amar la reina e degli abbracciari di quella in modo sodisfarsi, che dopoi non si mischiò ’più con altra femina. Fece nostro signor Iddio grazia a la buona reina, che ella ingravidò d’un figliuol maschio ed al tempo debito lo partorì, il primo giorno di febbraio del millecentonovantasei. Fu di tutti i ragonesi l’allegrezza inestimabile, veggendo la legi- tima successione del loro re naturale. Fu portato il bambino secondo il costume di quei paesi a la chiesa, ed avvenne che entrando dentro quelli che il figliuolo portavano, i sacerdoti del luogo, che nulla del fatto sapevano, cominciarono a cantar quel bellissimo cantico Te Deum laudamus, che già i dui santi dottori de la Chiesa catolica Ambrogio ed Agostino, nel battesimo di esso Agostino, a vicenda composero, cominciando Ambrogio e rispondendo Agostino. Portato poi il figliuolino da quel tempio ad un altro, ne l’entrare di quella chiesa i preti intonarono quel cantico di Zaccaria profeta, padre del precursore del Redentore de l’umana generazione, dicendo: Benedictus Dominus Deus Israel. Il che fu evidentissimo segno che il fanciullino nato deveva esser re di gran bontà e di molta giustizia. Devendo poi ricevere il sacro battesimo e non sapendo il re e la reina che nome imporgli e molti nomi ricordando, a la fine convennero in questo. Fecero pigliar dodici torchi d’una stessa ugualità e peso e gli fecero unitamente allumare, e a riverenza dei dodici apostoli su ciascuno torchio fu scritto il nome d’un apostolo, con intenzione che il nome de l’apostolo il cui torchio prima s’ammorzasse si 448 PARTE SECONDA mettesse al fanciullo. Onde consumandosi prima degli altri quello del nome di san Giacomo, il fanciullo da quello fu chiamato Giacomo. Crebbe il figliuolo e riusci uomo eccellente e di grandissimo governo in guerra ed in pace. Fece contra i mori asprissima e crudelissima guerra, cacciandogli a viva forza da le isole Baleari, Maiorica e Minorica. Ricuperò anco il reame di Valenza e, passato lo stretto di Gibelterra, diede danno grandissimo agli infedeli, innalzando quanto più poteva la fede di Cristo.

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